§Cura: care - cure - curate
Prospettive verso una cura e auto-cura antipsichiatrica
di Giulia Regoli

Nel campo della medicina, il concetto di cura fa riferimento a “il complesso dei mezzi terapeutici e delle prescrizioni mediche che hanno il fine di guarire una malattia” [1]: quindi, alle azioni che hanno come obiettivo quello di riportare a uno stato di “normalità” e salute una “devianza” che abbia a che fare con il benessere psico-fisico della persona. Quando ci si addentra nell’ambito psichiatrico, questi confini tra sano e non sano – tradotti in ragione e follia – si fanno, però, molto labili. Infatti, nel suo Storia della follia nell’età classica, il filosofo Michel Foucault evidenzia come, a seconda delle varie epoche storiche e contesti sociali, le persone considerate malate a livello mentale siano sempre state quelle che potenzialmente avrebbero turbato l’ordine precostituito della società, specialmente a partire dal XVII secolo. Proprio per questo motivo, erano queste le soggettività che venivano allontanate, segregate in strutture di matrice manicomiale e che in esse venivano appunto curate dai loro presunti disturbi. In questo senso, si rende evidente come le dinamiche di potere sociale abbiano influito – e continuino ancora a influire – sulle diagnosi, sui trattamenti e sullo stigma legato alla dimensione psichiatrica, poiché «bisogna capire che il valore dell’uomo sano e malato, va oltre il valore della salute e della malattia; che la ‘malattia’ come ogni altra contraddizione umana può essere usata come occasione di appropriazione o di alienazione di sé, quindi come strumento di liberazione o di dominio» (Ongaro Basaglia, 2012).

Collage di Sframmenti. Immagine per gentile concessione dell’artista.

In quest’ottica, si fa evidente il processo secondo cui il concetto di cura – da portatore di un benessere individuale e comune, che parla di supporto e aiuto reciproco – diventa subordinato a quello di potere, facendosi strumento di repressione col fine di mantenere una ben precisa gerarchia sociale. La matrice collettiva si perde in nome della responsabilizzazione del singolo attraverso la costruzione di un modello psichiatrico puramente medicalizzante, che trova negli squilibri chimici la causa di reazioni che ricadono sotto la definizione comune di “follia”. Contro quella che è la “mortificazione individuale” condotta dalla psichiatria tradizionale, serve invece “partire dalle esigenze del malato e da lì cercare di adattare attorno a lui lo spazio vitale di cui ha bisogno per espandersi ed attuare quello che è l’assunto primo della comunità terapeutica: la potenza terapeutica che ognuno dei componenti della comunità sprigiona nei confronti dell’altro” (Basaglia, 1997). Il contesto sociale, nella maggior parte dei casi, viene quindi completamente tralasciato: sia in quanto termine di discrimine tra sanità e malattia, come visto in Foucault; sia in quanto portatore di traumi individuali, collettivi e intergenerazionali, che in primis possono inficiare sul benessere psichico della persona. Infatti, nel benessere psico-fisico degli individui, le discriminazioni sociali, economiche, su base razziale o di genere giocano un ruolo fondamentale, e questo fattore riguarda anche la sofferenza mentale (Braveman 2014). 

Per esempio, Mark Fisher [2] individuava tra le cause del dilagamento della depressione uno schema politico, dimostrando come la psichiatria fosse in realtà estremamente connessa alla dimensione sociale: le scarse possibilità in un ambiente capitalista – in relazione alle dinamiche di classe, di genere, di razzializzazione, ecc. – sovrastano la volontà individuale, contribuendo in maniera importante al malessere delle soggettività marginalizzate. Per questo motivo, lo stretto legame tra sapere psichiatrico e potere, che per secoli ha dominato questo campo, ha svuotato la nozione di cura del suo significato più viscerale e nutritivo – che interessa la collettività – rendendolo un pretesto per reiterare dinamiche oppressive su persone che non si allineano agli standard sociali e che da essi vengono schiacciate.

Perciò, integrando nel paradigma psichiatrico anche l’aspetto sociale, la netta separazione tra malattia e salute viene automaticamente a cadere, mostrando l’arbitrarietà di ciò che usualmente è stato ed è ancora definito come patologia. Infatti, la psichiatrizzazione e – più in generale – la medicalizzazione di quelle che sono reazioni a un sistema intrinsecamente violento, sono meccanismi di screditamento rispetto alle reazioni stesse e alla persona da cui esse scaturiscono. In altre parole, trascurare la componente sociale di quelli che vengono chiamati disturbi mentali porta a una sottovalutazione della sofferenza e, al contempo, a un trattamento del problema in maniera individualistica, sfociando poi in meccanismi di segregazione, accanimento e sottrazione di diritti – retaggio del sistema manicomiale in ambito psichiatrico. È in questo senso che il concetto di cura può essere quindi ridefinito proprio a partire da queste esperienze: invece di essere considerata il manicheo opposto della malattia, essa ha subito e continua a subire un processo di ri-significazione attraverso la validazione, la condivisione e l’ascolto delle persone con un passato o un presente di psichiatrizzazione. Su questa base, alcuni psichiatri hanno iniziato a rivalutare gli assunti psichiatrici tradizionali, confutandone alcuni aspetti e arrivando a costruire teorizzazioni e nuove pratiche all’interno delle istituzioni ospedaliere: è il caso, per esempio, di Basaglia e della sua rivoluzione delle logiche dell’ospedale di Gorizia (Bruzzone, 2021); di R. D. Laing e della sua indagine della psiche schizofrenica come possibile evoluzione del rapporto con sé, abbattendo il netto confine di quella che è considerata anormalità nel suo studio L’io diviso (2010); di Frantz Fanon che chiama in causa il colonialismo europeo come fattore di violenza strettamente legato alla prospettiva psichiatrica (2020). Per quanto riguarda, invece, le esperienze in prima persona di pazienti o ex pazienti, si è sempre più creato movimento attorno a queste specifiche tematiche, tramite la fondazione di realtà resistenti collegate al mad activism e che sono spesso al di fuori delle istituzioni, in un’ottica abolizionista delle stesse.

Un punto importante su cui spesso queste realtà si soffermano è proprio l’imposizione del trattamento: la mancanza di scelta per l’individuo giudicato incapace di intendere e di volere sul proprio corpo e sulla sua persona secondo un sapere psichiatrico strettamente connesso a dinamiche di potere. Per esempio, in Italia, nonostante la forte presenza di un’eredità basagliana e la conseguente legge 180 [3] che ha portato alla definitiva chiusura dei manicomi, sopravvivono ancora misure di stampo carcerario-contenitivo che si possono adoperare quando la persona si dimostra un pericolo per sé o per chi ha attorno. Il TSO (Trattamento Sanitario Obbligatorio) è sicuramente la più famosa tra queste e, nonostante sia stata pensata per ogni tipo di pericolo a livello sanitario, il fatto che nell’immaginario collettivo venga quasi sempre ricollegata alla sfera psichiatrica è già indice di quanto spesso venga usata proprio per queste ragioni. Il trattamento coinvolge, inoltre, non solo l’ambito medico, ma anche quello politico-istituzionale e quello giudiziario: viene infatti disposto da un sindaco (o da un ufficio comunale delegato) su proposta medica motivata, e viene poi trasmesso al giudice tutelare del comune interessato che ha 48 ore per convalidare o non convalidare il procedimento. Il periodo di internamento è limitato a un massimo di sette giorni, ma può protrarsi sempre sulla base della loro decisione. I pazienti morti all’inizio o durante questo tipo di trattamento in circostanze non completamente chiare sono stati molteplici: sono stati portati avanti un’inchiesta e un processo, per esempio, sulla morte di Mauro Guerra, ucciso da un colpo di pistola dalle forze dell’ordine che volevano sottoporlo a TSO dopo averlo convocato in caserma; Massimiliano Malzone è deceduto per la somministrazione di una quantità eccessiva di neurolettici all’interno di un reparto psichiatrico nel salernitano (Serra, 2015); sono state riportate morti per asfissia atipica come quella di Andrea Soldi, morto prima di arrivare in ospedale (Sola, 2015). Altri casi sono quelli di Giuseppe Casu, legato per sette giorni al suo letto e conseguentemente deceduto (Sironi, 2014), o quello di Franco Mastrogiovanni, morto dopo quattro giorni di contenzione ininterrotta (Mastandrea, 2015) raccontati anche nel documentario 87 Ore diretto da Costanza Quatriglio. Questi sono solo alcuni racconti di decessi accaduti a seguito di violenze in ambito di trattamenti sanitari obbligatori e di trattamenti psichiatrici, dati che vanno a evidenziare un certo grado di sistematicità e che, soprattutto, indicano che la chiusura dei manicomi non è andata di pari passo con la considerazione della volontà dei pazienti e con l’abolizione di misure di contenzione che in realtà vengono ancora usate. 

Il problema si estende anche poi al di fuori dell’Italia, evidenziando come lo stigma psichiatrico nella parte occidentale del mondo sia ancora ampiamente radicato: secondo un’indagine di Mad In America nel 2018 [4], più della metà di ex-pazienti riporta l’esperienza del ricovero come traumatica e almeno il 37% riferisce di aver subito qualche tipo di abuso fisico. Inoltre, non è raro che sulla base di questa linea coercitiva il personale ospedaliero ometta delle informazioni, manipoli la persona soggetta a trattamento per ottenere un ricovero volontario, o vieti la comunicazione con l’esterno nonostante la legge la preveda. In questo modo, la connotazione della parola cura fa riferimento strettamente all’ambito medico, all’atto dell’aggiustare qualcosa che in qualche modo devia da ciò che dovrebbe essere, rafforzando la dicotomia sanità/malattia che deriva da un discorso di potere ben preciso. Allora, l’obiettivo sarebbe quello di risemantizzare la parola cura – nella teoria e nelle pratiche – in una prospettiva che taglia diagonalmente queste separazioni, nel tentativo di costruirla come mutuale, reciproca e non coercitiva. Come si chiede María Puig de la Bellacasa, “can we think of care as an obligation that traverses the nature/culture bifurcation without simply reinstating the binaries and moralism of anthropocentric ethics?” (2017).

Per opporsi a queste pratiche di violenza e segregazione – e anche più in generale ai processi di psichiatrizzazione – sono nate numerose realtà a partire dall’esperienza personale di chi le ha subite, sia in Italia che nel resto del mondo occidentale. Il cosiddetto mad activism o mad resistance (Bossewitch, 2016) parte proprio da istanze di rivendicazione del vissuto di chi ha sperimentato sintomi considerati psichiatrici e i conseguenti trattamenti per la maggior parte imposti dal sistema ospedaliero. Uno dei punti fondamentali che vengono sviscerati in queste situazioni è proprio la ri-significazione della cura, che da trattamento coercitivo diventa un aiuto tra pari, allargando la sua sfera d’azione a un supporto materiale – perché la mancanza di risorse per soddisfare i bisogni primari della persona, come mangiare, bere o dormire, non può far altro che peggiorare la sua condizione psichica, oltre che fisica – insieme a quello psicologico e solidale. La matrice collettiva della sofferenza non viene così ignorata, ma anzi sottolineata, in modo da riuscire a fornire mezzi di aiuto e auto-aiuto contro una dimensione fortemente carceraria dettata dalla psichiatria. Quindi, l’obiettivo è quello di costruire dal basso una condivisione e un processo di esternalizzazione comune dei traumi per accendere il potenziale trasformativo di quella che viene ridefinita come cura.

Mad Pride di Colonia, 2017. Foto: © Superbass / CC-BY-SA-4.0 (via Wikimedia Commons).

Si possono trovare esempi di queste realtà in molte aree del mondo occidentale, a partire dal Canada dove nel 1993 si è tenuto il primo Mad Pride per persone con diagnosi di disturbo mentale, con l’obiettivo di combattere lo stigma e rovesciare il paradigma della salute mentale, rendendola una questione sociale. L’evento si è poi diffuso, arrivando in diverse altre nazioni e continenti, dove il trattamento dei pazienti psichiatrici condivide gli stessi tratti di violenza e abusi – dalla Gran Bretagna al Sud Africa, dagli Stati Uniti all’Australia. A livello globale, sono quindi molte le associazioni o i movimenti che si sono formati per contrastare gli abusi psichiatrici e i pregiudizi legati a questa sfera che li rendono ancora la norma: ogni realtà opera nell’area geografica di riferimento, integrando pratiche di cura che vanno dall’offrire aiuto a pazienti ed ex-pazienti, alle attività di divulgazione sulla storia della psichiatria a partire dalla prospettiva di chi ne ha fatto esperienza, alla creazione di safe space per l’espressione e la condivisione, anche a livello artistico. L’ottica è quella di ideare degli spazi dal basso in cui de-costruire i dettami psichiatrici tradizionali adottando un concetto di cura che sia collettivo e reciproco, tenendo conto delle esigenze di ogni persona. 

È in questa cornice antipsichiatrica che sono nati anche i mad studies (Ingram, 2018 e Gillis, 2018): studi che – a livello accademico e fuori – coinvolgono persone psichiatrizzate, persone con disabilità, persone neurodivergenti, e adottano un approccio intersezionale per evidenziare come la psichiatria non sia affatto esente da dinamiche discriminatorie derivate dal contesto sociale, ma le arrivi anche a incarnare e replicare. L’obiettivo è perciò quello di riappropriarsi del proprio vissuto e di valorizzarlo, mettendo al centro la rivendicazione dello spazio marginale a cui sono costrette le soggettività psichiatrizzate, e un mutuale supporto che non preveda sovradeterminazione. 

Logo del Mad Pride di Toronto.

In particolare, analizzando il contesto italiano, l’ultimo grande evento a livello nazionale si è tenuto il 13 ottobre 2022 quando, in occasione dell’incontro internazionale proposto dall’OMS in cui sarebbe stato presentato il World Mental Health Report, molti collettivi e associazioni antipsichiatriche si sono radunate per richiedere [5] fondamentali cambiamenti nel paradigma del trattamento della salute mentale, sia a livello globale che localizzato allo stato italiano. Si è parlato di libertà di scelta contro l’obbligo terapeutico, di abolizioni di misure di contenzione ed elettroshock, di riduzione del danno e, soprattutto, della dimensione sociale dei cosiddetti disturbi mentali che vengono però trattati come fallacie individuali a livello chimico. Ripartire dal concetto di cura per ridimensionare la salute mentale significa, quindi, agire sulle cause sistemiche di eventuali problematiche psichiche, offrendo un supporto non imposto e considerando la persona nella sua totalità, insieme al suo background.

Sempre in Italia, queste istanze vengono portate avanti da realtà aggregative sparse sul territorio – che talvolta si costituiscono in vere e proprie associazioni – che hanno l’obiettivo di fornire aiuto e di creare una comunità basata sulla cura reciproca, al di fuori dei dettami istituzionali di una psichiatria che segue linee carcerarie, punitive e patologizzanti in maniera stigmatizzante. Per citarne alcuni, sono presenti il Collettivo Senzanumero a Roma [6], il Collettivo Antonin Artaud di Pisa [7], il Collettivo Antipsichiatrico Strappi [8]: spazi che cercano di creare e diffondere un’informazione a partire dall’esperienza personale di persone psichiatrizzate, proponendo metodi alternativi di supporto che vanno a contrastare quelli istituzionali per costruire una prospettiva libera dalla psichiatria in quanto strumento di controllo. Nel 2020, un’azione collettiva che ha attraversato molte di queste realtà ha prodotto una zine dal titolo Strappi. Riflessioni Antipsichiatriche [9]: un insieme di ragionamenti e, appunto, riflessioni a livello sociale sulla visione e sullo stato del benessere psichico in vari ambiti, dal carcere alla scuola, dall’adolescenza al periodo del lockdown.

La salute mentale, infatti, è stato sempre un tema particolarmente delicato perché estremamente connesso alla dimensione sociale in cui l’individuo si trova e alle dinamiche di potere a cui è più o meno soggetto. In questo senso, la pandemia di COVID-19 del 2020 ha evidenziato proprio come i risvolti psicologici del virus e della quarantena abbiano portato a un aggravamento delle condizioni della salute mentale di gran parte della popolazione, identificando un’importante matrice collettiva che spesso viene tralasciata in nome di un modello medicalizzante. Proprio in questo frangente, si è cercato quindi di trovare dei metodi di cura reciproca alternativi, e su questa linea sono nati anche dei progetti, tra cui la Brigata Basaglia [10]: un ambiente di attivismo in cui si cerca di creare una dimensione di supporto basata su un concetto di cura dichiaratamente anticapitalista, coinvolgendo ogni aspetto sociale della vita della persona. La prima attività lanciata è stata l’attivazione di un centralino di ascolto per individui in situazioni di sofferenza psicologica, ma pian piano, negli ultimi anni, il progetto si è allargato, come dimostra anche il festival “contatto” [11] in cui – tramite conferenze, workshop, presentazioni ed eventi – si vuole ri-costruire un nuovo modello di salute mentale a partire da pratiche di liberazione e militanza. 

Andando verso il Sud Italia, una delle figure fondamentali per l’attivismo antipsichiatrico è quella di Giuseppe Bucalo, che già nel 1986 ha fondato il Comitato Iniziativa Antipsichiatrica. Tra le varie attività portate avanti, in un’ottica di cura mutuale, sono significativi soprattutto i gruppi di autogestione per persone psichiatrizzate – in cui si sperimentano pratiche di contrasto a quelle psichiatriche rifacendosi alla linea del supporto tra pari – e il Comitato Legittima Difesa, nato per rendere possibile una modifica della legge 180 per quanto riguarda il TSO, con l’obiettivo di abolire la coercizione terapeutica rendendola una libera scelta. Inoltre, è significativo anche il fatto che Giuseppe Bucalo, tra le sue pubblicazioni, abbia scritto Malati di Niente: Manuale minimo di sopravvivenza psichiatrica (2013), in cui denuncia gli abusi psichiatrici che sono ancora presenti negli ospedali e nelle istituzioni sanitarie e organizza una sorta di prontuario per le persone che sono state costrette a subire processi di psichiatrizzazione, contestando anche la definizione di malattia in opposizione alla salute-razionalità. 

In questo senso, analizzando i tratti comuni a tutte queste realtà sorte e insorte in opposizione a un sapere psichiatrico opprimente, è possibile tracciare un ribaltamento del concetto di cura come è conosciuto in un ambito medicalizzante: le soggettività marginalizzate – in questo caso psichiatrizzate – se ne riappropriano perché è sempre stato usato come strumento di controllo dalla figura dello psichiatra, garante del mantenimento dell’ordine sociale. Questo processo di ri-significazione, perciò, parte dal basso e porta pian piano a costruire nuove pratiche e nuove prospettive che collettivamente possano incarnarsi in supporto e aiuto mutuale, mai costrittivo e contenitivo. L’abolizionismo psichiatrico, perciò, vuole ripartire proprio dalla cura: idea che nei secoli – in questo ambito – è stata sempre più medicalizzata, arrivando a indicare la correzione di squilibri chimici, nel caso dei disturbi mentali. Invece, la sua rivendicazione prende potenza nel momento in cui oltrepassa la dimensione individuale e si indirizza in direzione opposta rispetto a un sistema intrinsecamente non equo e ingiusto nei confronti delle soggettività marginalizzate. Se, quindi, la psichiatria – rifacendosi a linee guida carcerarie e punitive – sfrutta la patologizzazione di suddette soggettività e i conseguenti trattamenti terapeutici per arrivare a mezzi di contenimento e segregazione, di abuso e violenza, la reazione è quella di creare delle realtà di supporto e cura reciproca in contrasto a queste misure adottate e al discorso di potere che le rende lecite. 

In questo modo, nel mondo occidentale – sia in Italia che all’estero – sono nate e continuano a nascere numerose aggregazioni che hanno come fine ultimo un ripensamento radicale della psichiatria e l’abolizione delle pratiche che la definiscono come un’istituzione carceraria violenta per chi ne fa esperienza in prima persona, in quanto campo medico e medicalizzante al servizio dell’ordine sociale. Attraverso le loro attività, la raccolta di esperienze e la considerazione dei vissuti di chi ne fa parte, diventa perciò evidente l’urgenza di fabbricare nuove pratiche e nuove prospettive che cambino il paradigma presente riguardo alla salute mentale, alla psichiatria e – quindi, più in generale – al benessere collettivo. In questo senso, è fondamentale riconoscere l’importanza della cura come motore di una rivoluzione che coinvolge il concetto di cura stesso: reciproca, collettiva e solidale.

Note

[1] Definizione presa dal vocabolario on line Treccani.  
[2] L’autore ha raccontato la sua esperienza personale nell’articolo Good For Nothing, disponibile sul magazine “The Occupied Times”.
[3] Il testo integrale della legge pubblicata nella Gazzetta Ufficiale il 16 maggio 1978 è consultabile a questo LINK
[4] L’indagine è disponibile al seguente LINK.
[5] Il comunicato dal titolo “Il capitalismo nuoce gravemente alla salute” è consultabile a questo LINK
[6] Sito di riferimento Senza Numero
[7] Sito di riferimento artaudpisa
[8] Sito di riferimento antipsi
[9] Consultabile a questo LINK
[10] Sito di riferimento Brigata Basaglia.
[11] Il programma del 2023

Bibliografia

Basaglia F. & Basaglia Ongaro, F., La maggioranza deviante, Baldini+Castoldi, Milano, 2018.
Basaglia F., Che cos’è la psichiatria?, Dalai Editore, Milano, 1997.
Bossewitch J. S., Dangerous Gifts: Towards a New Wave of Mad Resistance, 2016, doi: 10.7916/D8RJ4JFB.
Braveman P., What Are Health Disparities and Health Equity? We Need to Be Clear. Public Health Rep., 129(Suppl 2), 2014, pp. 5-8, doi: 10.1177/00333549141291S203.
Bruzzone A. M., Ci chiamavano matti, Il Saggiatore, Milano, 2021.
Bucalo G., Malati di Niente: Manuale minimo di sopravvivenza psichiatrica, CreateSpace Independent Publishing, 2013.
Fanon F., Decolonizzare la follia. Scritti sulla psichiatria coloniale, Ombre Corte, Verona, 2020.
Fisher M., Realismo capitalista, Nero Edizioni, Roma, 2018.
Foucault M., Storia della follia nell’età classica, Rizzoli, Milano, 1976.
Foucault M., Gli anormali, Feltrinelli, Milano, 2000.
Gillis A., The Rise of Mad Studies, University Affairs, 2018, LINK (ultimo accesso 23/06/2023).
Ingram R. A., Doing Mad Studies: Making (Non)sense Together, Intersectionalities, 5(3), 2018, pp. 11-17.
Laing R. D., L’io diviso. Studio di psichiatria esistenziale, Einaudi, Torino, 2010.
Mastandrea A., Morte di un povero cristo anarchico, Internazionale, 6 novembre 2015.
Ongaro Basaglia F., Salute/malattia. Le parole della medicina, Edizioni Alphabeta, Merano, 2012.
Puig de la Bellacasa, M., Matters of Care: Speculative Ethics in More Than Human Worlds, University of Minnesota Press, Minneapolis, 2017.
Serra G., Cilento, un altro morto in psichiatria. I familiari: «Tenuto lontano da noi», Il manifesto, 26 giugno 2015.
Sironi F., Legato, sedato e infine ucciso. L’assurda morte di Giuseppe Casu per trattamento sanitario obbligatorio, L’Espresso, 28 marzo 2014.
Sola E., Torino, morì durante il Tso. L’autopsia: «strangolamento atipico», Corriere della sera, 12 novembre 2015.

Giulia Regoli è laureata in English and American Studies e ha frequentato il Master in Studi e Politiche di Genere presso l’Università di Roma Tre. A livello accademico e non, i suoi interessi di ricerca si concentrano sull’antipsichiatria e gli studi di genere, specialmente attraverso l’analisi di opere letterarie appartenenti principalmente a scrittrici psichiatrizzate del XX secolo.