Nell’immaginario collettivo il concetto di prendersi cura viene fin troppo spesso ridotto alla salute, sfuggente sinonimo utilizzato per definire l’efficienza del proprio organismo corporeo. Tuttavia, si tratta di un’associazione semplicistica e in un certo senso fuorviante. L’accento posto sulla fisicità della cura, infatti, rappresenta la diretta emanazione del culto del corpo conseguente alla deriva postmoderna della società occidentale. Secondo Bauman (Bauman, 2011), questo fenomeno restituisce a sua volta il processo di liquefazione della contemporaneità. Le istituzioni sociali, dopo tutto, nell’instabile cornice della modernità liquida, appaiono ancor più effimere dello stesso corpo umano così come dei suoi bisogni e soddisfacimenti. Il lavoro di cura, dunque, sembra condizionare il presente. Prendersi cura di se stessi diventa allora il passaggio preliminare all’ingresso in società.
Come osserva Groys (Groys, 2023), dagli asili ai musei, dalle farmacie alle biblioteche, un complesso e imponente sistema macchinico prende in carico la conservazione dei nostri corpi fisici e simbolici. Ma si tratta di un’istituzione totalizzante, poiché implica il coinvolgimento del singolo in modo assoluto, sia in quanto partecipante attivo del sistema di cura in atto, sia come paziente. La durata della vita, infatti, rappresenta un concetto relativo ma il corpo, nonostante la sua intima mortalità, sembra essere l’entità più longeva, dal momento che l’aspettativa di vita tende ad aumentare costantemente con il passare degli anni. Il corpo diventa in questo modo l’emblema totemico della continuità, l’ultima trincea dell’incolumità. La produzione di estensioni simboliche sembra assicurare la sopravvivenza dell’individuo in seguito alla sua dipartita, soggettivandone il corpo. Eppure, la conoscenza e, soprattutto, il controllo del proprio corpo così come della propria identità risulta spesso superficiale. Il più delle volte, si tratta di prendere decisioni suggerite dall’esterno, senza esserne effettivamente consapevoli, instaurando un dualistico rapporto di autonomia e dipendenza. La cura, dopo tutto, passa necessariamente dalla fiducia.
La sussistenza della specie rappresenta il solo punto d’arrivo, l’obiettivo strenuamente perseguito dalla società stessa. Tutto ciò comporta l’ossessiva e talvolta febbrile preoccupazione del singolo per la tutela del proprio corpo, come fosse un inviolabile confine da proteggere a ogni costo. Allo stesso modo, la collettività assume un atteggiamento spesso analogo, ostacolando possibili intrusioni esterne, in quanto le differenze potrebbero mettere a repentaglio la presunta integrità del corpo sociale e della comunità di appartenenza. Ma il conservatorismo e l’istinto di conservazione, per quanto analoghi, non sono affatto la stessa cosa. Andare sulla difensiva, innalzare barriere, difendere con violenza il proprio spazio fisico e ideologico: prendersi cura rischia di rappresentare una fuorviante metafora dell’esclusione. Per questo, il concetto stesso di cura dovrebbe passare dal confronto con se stessi e con l’altro. L’arbitraria chimera della verità, infatti, necessita un momento di reciprocità consapevole, di condivisione e di rielaborazione esperienziale per concretizzarsi, realizzando il soggetto. Forse, la più autentica ed efficace delle cure risiede proprio nella conoscenza dell’essere, costituendo il fondamento di ogni esercizio spirituale. Per dirla con Foucault, seppur in maniera contorta, bisogna prendersi cura della cura che si dovrebbe avere per curare se stessi. Ma allora, cosa significa oggi prendersi cura? E chi dovrebbe esserne il soggetto?
Per Muna Mussie (Mussie, 2022) il concetto stesso di cura risulta inscindibile da quello di pratica artistica. Le opere dell’artista di origine eritrea sembrano concretizzare e, soprattutto, problematizzare la costante tensione tra memoria e oblio, tra autodifesa e pericolo. I lavori di Mussie si propongono di affrontare l’organizzazione patriarcale della contemporaneità e le numerose reminiscenze coloniali insite nella realtà circostante, sovvertendo il determinismo dei ruoli sociali.
«La ricerca artistica è un prendersi cura a priori, non può essere scissa dal concetto di cura. La cura è l’attenzione per/verso qualcosa, qualcuno, oggetto, soggetto, entità visibile o invisibile, un corpo animato o inanimato, un pensiero, parola, densità, estensione, colore, temperatura, astrazione, estrazione, interazione. La qualità della cura si può esprimere in un batter d’occhi come nell’indeterminatezza di un tempo infinito. La cura è nel corpo stesso, me lo insegna il mio sistema psicofisico che costantemente sinergizza per farmi stare in cura e il quale a sua volta mi permette di rivolgere la mia cura verso altro da me» (Mussie, 2022).
Il lavoro di Muna Mussie indaga i linguaggi della scena e delle performing arts, concretizzando la tensione che scaturisce tra differenti poli espressivi. L’inversione del concetto di monumentalità nelle opere dell’artista passa allora dalla partecipazione collettiva, trasfigurando la presunta linearità oggettiva della narrazione storica, mediante l’attivazione di oggetti personali, bisogni, desideri e frammenti di quotidianità apparentemente privi di rilevanza. La produzione artistica di Mussie, in questo modo, diventa un’occasione di confronto per attuare un processo realizzativo condiviso, incentrato sull’utilizzo performativo del linguaggio come materiale estetico complesso, spesso inafferrabile.
«La cura è un equilibrio labile che si fonda sulla responsabilità orizzontale, richiama alla reciprocità, mette in connessione almeno due poli, indica accessi di possibilità e permette di fare accadere delle cose. La cura non ha una natura stabile, richiede anch’essa ricerca, determinazione e nuovo assetto rispetto ai mutamenti che il Tutto attraversa e ci attraversa. La cura produce cura» (Mussie, 2022).
In Fòro Fóro (2022), ad esempio, il dialogo tra persone vedenti e cieche si struttura attraverso il braille e il ricamo. Entrambi questi linguaggi imprimono o traforano una superficie, riportando alla luce un segno, una forma, un’immagine tra il visibile, invisibile, tattile. L’opera prende le mosse dalle riflessioni sul gioco della matassa di Donna Haraway: realizzare delle figure di filo, in fondo, significa passare e ricevere, avvicinare e allontanare, fare e disfare, affinché sia possibile tracciare una trama nel buio, per raccontare altre storie. Allo stesso modo, in Persona (2022), facendo riferimento all’omonimo film di Ingmar Bergman, la lingua diventa uno spazio politico-affettivo, mediato dalla pratica del cucito. L’artista sfida il pubblico a farsi ricamare il proprio peggior difetto su uno dei capi indossati in quel momento. Mostrare il peggio di se stessi, in questo modo, rimette ironicamente in discussione il complesso sistema di convenzioni sociali incentrato sul concetto del tutto arbitrario di valore.
«Questo è l’interessante per me: avere sempre una linea di margine che non potrò mai varcare. […] Mi diverte pensare alla mia pratica come ad una scienza di confine, che sta tra la razionalità del sapere e l’ignoto al quale ognuno di noi appartiene. L’ignoto è come una scissione che ci portiamo dentro dal momento in cui siamo entrati nel linguaggio. Prima di questa scissione c’è una “sensibilità”, che continua ad attraversare e informare a sua volta il linguaggio. In questo insistente tentativo di spiegarsi, si interroga sempre qualcuno o qualcos’altro da sé: è in questo interrogare che si diventa già altro da sé» (Mussie, Trevisan, 2021).
In Curva Cieca (2021), parole, segni e fluttuazioni di senso si compongono intorno alla voce di Filmon, ragazzo eritreo non vedente dall’età di dodici anni, tracciando una pista sonora per l’ascolto di lezioni di lingua tigrina con l’ausilio di immagini provenienti da un vecchio abbecedario.
«Filmon Yemane è stato il mio riferimento. Lui, che ha perso la vista, fa esperienza quotidiana di questo non essere padrone della propria immagine. Quello che ho cercato di fare con Curva Cieca è stato di mettere insieme due mancanze: la mia mancanza, intuita in senso astratto e concettuale, che fa appello alla mia lingua materna (persa in tenera età) e la sua mancanza, concreta, reale della visione della propria immagine» (Mussie, Trevisan, 2021).
La forma didascalica incontra la dimensione biografica, aprendo uno scenario intimo. L’artista danza indossando una maschera bianca, realizzata sul calco in 3D del proprio volto, come fosse una pagina da riempire, un capitolo di una storia ancora da scrivere. L’opera utilizza il linguaggio per indagare la correlazione della propria rappresentazione con l’esterno. Dopo tutto, nessuno è davvero padrone della propria immagine, in quanto l’immediatezza del corpo situa il soggetto nella realtà circostante, prevalendo proprio sulla presunta singolarità dell’individuo.
«Io sono Soggetto per me e Oggetto per gli altri. Se chiudo gli occhi e cerco di definire la mia immagine, cosa vedo? Uno specchio cieco, una mancanza» (Mussie, 2021).
Curva Cieca rappresenta, in un certo senso, l’ideale prosecuzione di Punteggiatura (2018), performance incentrata sulla creazione collettiva di un libro di stoffa, definito come un “tessuto sociale” realizzato grazie al dialogo tra donne provenienti da contesti socioculturali differenti. Si tratta di una creazione immaginaria attraversata dalla lingua, dal filo di un discorso emotivo, gestuale e soprattutto funzionale al consolidamento della condivisione quale pratica sociale. L’opera mette a punto un dibattito “singolare”. Gli incontri con le donne coinvolte, infatti, sono avvenuti per lo più singolarmente, strutturando una conversazione in divenire. L’artista imposta ciascun dialogo a partire dal libro stesso: cos’è un libro? Cosa vorremmo scrivere? E per chi?
L’opera non aspira alla rivolta femminista così come non assolve la realtà dei fatti. Al contrario, si propone di mettere in pratica una “rivalsa sentimentale” a partire dalla reciprocità del dialogo.
«Punteggiatura è stata una gestazione immaginaria e pratica, attraversata dalla lingua, dal filo di un discorso simpatetico, gestuale e funzionale alla nascita della cosa comune. È un discorso semplice ma denso. È un dire che trascina con sé passato, presente, futuro. È un “dirla del tutto” che non tralascia il suo corpo. È un dire “incorporato”. È un dire che crea punti di accordo su cui sostare e punti di chiusura da cui ripartire, facendo del rispetto l’unica e possibile procedura di convivenza. È un discorso che si mette in pratica, si auto traduce in ricamo. È in dialogo con la manualità, la manodopera, agisce e maneggia pensieri, traccia le coordinate, le cuce» (Mussie, 2018).
Anche in Milite Ignoto (2015), il linguaggio svolge un ruolo altrettanto centrale, mostrando coincidenze inaspettate. La nonna dell’artista, infatti, si chiama Milite, nome che in tigrino – lingua materna di Mussie – significa “Maria”, come la donna – Maria Bergamas – investita dell’ingrato compito di scegliere, nel primo dopoguerra, la bara contenente uno dei tanti corpi anonimi caduti in guerra per onorarli nel tempo, ovvero il Milite Ignoto. Questa epifania proveniente dal passato sembra indicare strade ancora da percorrere, tracciando una rotta inconsueta. L’artista, allora, si propone di indagare “ulteriori nessi e discrepanze tra i soggetti nominati”, realizzando un’intervista apparentemente impossibile per minare le certezze del pensiero razionale. Il progetto performativo prende in esame la funzione delle tensioni razziali ed etniche nella costruzione di immaginari nazionali circoscritti – in particolar modo, nella definizione fascista dell’Eritrea come colonia primigenia. Suono e video dialogano nello spazio, armonizzando la reiterata monotonia della quotidianità. I dettagli biografici si allontano dalla propria fonte narrativa per essere successivamente riassemblati in una sorta di collage simbolico e impersonale sullo sfondo della guerra. L’arbitrarietà del piano soggettivo, in questo modo, apre scenari emozionali inediti, rimettendo in discussione verità apparentemente assodate e irrefutabili. Il dualismo insito nella formazione culturale di Mussie, nata in Eritrea ma cresciuta in Italia, a Bologna, si manifesta nel confronto tra polarità differenti, quali ad esempio l’intimità della sfera privata e l’esposizione pubblica della storia, tra interno ed esterno, tra piccolo e grande, tra pubblico e artista. L’artista con l’aiuto del fratello Sherif sovvertono la gerarchia delle fonti storiche (Cippitelli, Frangi, 2021). La memoria confluisce allora nell’immaginazione, mettendo in scena una rappresentazione mimica e simbolica dell’inconscio.
«Mi interessano le verità intermittenti, indisciplinate e incrollabili. Gli spazi di azione, visione ed esperienza spesso si scontrano tra loro e creano piccoli incroci tra azioni e dichiarazioni. Questo mi sembra un modo per infondere un senso critico alle immagini, scollegandole dalla retorica predominante» (Mussie, Ercolani, 2022).
Le opere dell’artista eritrea, dunque, sembrano utilizzare la complessità del linguaggio per instaurare un dialogo incentrato sulla reciprocità di principi differenti, opposti eppure complementari. Il concetto stesso di identità appare tutt’altro che immutabile. Prendersi cura allora significa mettersi in discussione, mostrando le proprie ferite allo sguardo indiscreto del tempo. Sono cicatrici che non possono, forse non vogliono rimarginarsi: sembrano rivendicare con fermezza il diritto al pianto, riaffermandone l’agentività inerziale.
«Domandare all’altro è l’unica possibilità per avere risposte su noi stessi, su chi domanda. È un dialogo in cui c’è una continua acquisizione e anche una perdita, un’indagine trasversale sul linguaggio di cui fanno parte le immagini che si creano in questi processi di attivazione» (Mussie, Ercolani, 2022).
Il dolore, pertanto, rappresenta un mezzo di comunicazione universale, piuttosto che una concessione, un lusso disdicevole o un intermezzo nell’incalzante ritmo della produttività. Si tratta di una forma di protesta necessaria a interrompere l’egemonia dell’efficienza, ridiscutendo il significato stesso di un concetto quanto mai centrale nella definizione della contemporaneità. In Oblio/Pianto del muro (2022), l’artista affronta la necessità sociale di uno spazio condiviso dove poter ritualizzare la catarsi, ascoltando con attenzione il nostro lamento collettivo. Anche in questo caso, la dimensione pubblica e l’intimità individuale confluiscono nella realizzazione performativa di un anti-monumento temporaneo. Si tratta di un rito collettivo di costruzione e de-costruzione dei vuoti della memoria storica e privata, impegnandosi nella riappropriazione decoloniale dello spazio circostante. Attraverso la pratica del ricamo viene intessuta la parola “oblio” al centro di un muro semi trasparente, quasi fosse un monito della memoria stessa. Il pianto diventa allora un’armoniosa sinfonia corale, scevra da pregressi condizionamenti linguistici, culturali o sociali. L’artista invita il pubblico ad abitare e, soprattutto, a disfare l’installazione, riappropriandosi dell’oblio.
«L’oblio non so esattamente cosa sia ma è qualcosa che vuole manifestarsi, è l’esistente non pensato che deve essere portato sul piano dell’immagine e poi dopo parlato» (Mussie, Ercolani, 2022).
L’opera riprende Oblio (2021), primo capitolo di questa installazione performativa, realizzata a Torino in collaborazione con l’Associazione Donne Africa Sub-Sahariana e Seconda Generazione. L’elemento antimonumentale consiste in una sorta di rifugio temporaneo, una semplice impalcatura al centro della terrazza panoramica che ostruisce la vista del Castello del Valentino dal Parco caduti lager nazisti. Gli interpreti sono avvolti da un tessuto semitrasparente, mentre ricamano e disfanno il titolo dell’opera a intervalli irregolari. Il profilo del castello, in passato adibito a base militare, appare impresso sulla facciata della struttura, mentre il paesaggio sonoro arrangiato da Dudu Kouatè sembra consolidare la struttura narrativa di Oblio, assecondando l’imprevedibile soffiare del vento. L’opera prende in esame circa la definizione dell’identità nazionale, come fosse un cantiere aperto. Mussie, infatti, si propone di contestare la solenne celebrazione del concetto di monumentalità, attraverso un rituale partecipativo di costruzione, manutenzione, decostruzione e rielaborazione delle interruzioni effimere del ricordo.
Mussie sembra prendersi cura del tempo, ascoltandone le esigenze, assecondandone i movimenti. Modalità espressive differenti ne delimitano i confini mutevoli, attraverso gesti, sguardi e parole. Passato, presente e futuro si sovrappongono, condizionano lo spazio, a volte sembrano alterarlo. Realizzano una cornice affettiva entro la quale poter osservare il mondo con maggior precisione, da una posizione di “s-comodità-privilegiata”, dove ogni ipotesi viene presa in considerazione. Come sostiene Mussie (Mussie, Trevisan, 2021) l’arte stessa rappresenta una forma di concentrazione espansa: restituisce il tempo dell’indagine orizzontale, imparando tanto dalla teoria quanto dalla pratica. Allo stesso modo, quindi, l’ambiente e il contesto sono centrali. Determinano infatti la realizzazione di un’opera con il proprio statuto, con la propria intangibile e paradossale presenza. L’intrusiva reciprocità tra corpo, spazio e tempo risulta allora dirimente per l’esercizio della cura, in quanto solo tentando di comprendere la complessità della realtà circostante possiamo esserne davvero parte.
«A me interessa l’essere, a prescindere dalle provenienze e dai colori che porta. […] La mia responsabilità è quella di lavorare sull’immaginario, avvicinando tematiche che vogliono decolonizzarlo. Ma non lo faccio in modo ideologico. Credo che l’immaginario debba restare libero da certe definizioni e connotazioni. […] Attingere dal mio vissuto, dal mio privato è solo un movente per parlare di qualcosa d’altro, per parlare non di me ma dell’essere, che non è più “io” ma qualcosa di così profondamente personale da essere anonimo. […] La ricerca dell’identità non è la ricerca delle radici. È un interrogarsi costante su chi siamo adesso, in questo istante transitorio» (Mussie, Trevisan, 2021).
Bibliografia
Bauman Z., Modernità liquida, Laterza, Roma-Bari, 2011.
Cippitelli L., Frangi S. (a cura di), Colonialità e culture visuali in Italia, Mimesis, Milano, 2021.
Groys B., Filosofia della cura, Timeo, Palermo, 2023.
Mussie M., Curva cieca, Short Theatre, 2021, LINK.
Mussie M., Prender-si cura, Mattatoio, Roma, 2022, LINK.
Mussie M., Punteggiature-Note dell’autrice, 2018, LINK.
Mussie M., Ercolani L., Muna Mussie, emergendo dall’oblio con una sinfonia al singolare, Manifesto, Roma, 2022, LINK.
Mussie M., Trevisan A., Intervista a Muna Mussie. Il Filo verde della nostalgia, Abcdance, LINK.
Jacopo De Blasio (Roma, 1993) si laurea in storia dell’arte presso l’Università degli Studi La Sapienza. Attualmente dottorando in cultura visuale presso l’Università di Palermo e assistente bibliotecario presso la Fondazione MAXXI, collabora con riviste quali NERO/NOT, Doppiozero, Arabpop, Kabul, TBD, Antinomie. Si occupa di postcolonialismo, nuovi media, linguaggi sonori, attivismo e autodistruzione.