Premessa
Quello che segue è il racconto di un’attività proposta alle classi di scuola media inferiore e superiore in visita a Palazzo Strozzi nel 2018 in occasione della mostra Marina Abramović. The Cleaner. Il titolo di quest’articolo riprende quello dell’attività, Corpi in azione, che ha coinvolto circa settemila studenti dai 12 ai 19 anni. Inaugurata nell’autunno del 2018, la mostra retrospettiva dell’artista serba trovava a Firenze la quinta tappa di un progetto espositivo itinerante destinato ad attraversare mezza Europa per celebrare le opere e la vita di quella che da molti è considerata la più nota performance artist vivente[1].
Un momento dell’attività Corpi in azione a Palazzo Strozzi, ottobre 2018. Foto di Giulia Del Vento
Considerata da decenni un punto di riferimento mondiale della Performance Art, Marina Abramović e le sue azioni hanno raggiunto fortuna e riconoscibilità anche agli occhi del grande pubblico. Tale fama deriva sicuramente dalla forza della sua ricerca nel campo della Body Art che ha reso l’artista una protagonista del racconto dell’arte del XX e XXI secolo, a cui si aggiunge l’interesse verso la sua storia personale. Il rapporto difficile con la madrepatria e la travagliata relazione con Ulay sono parti del mondo affettivo privato che l’artista rende pubblici nel corso delle sue azioni performative. Trovarsi di fronte a un’opera di Marina Abramović richiede sempre di fare i conti con il peso dell’opera e con quello del personaggio.
Non è però nell’interesse di questo articolo ricostruire la storia e il percorso artistico dell’artista serba, bensì partire dalla specificità del suo lavoro come è stato presentato dalla mostra fiorentina per esplorarne i confini di significato, alla luce dell’esperienza fatta dai visitatori in occasione della mostra. È un’opportunità di analisi che parte da una proposta per le classi della scuola secondaria di I e II grado che hanno visitato la mostra previa partecipazione a un momento preliminare di esercizi dedicati all’attivazione del corpo inteso come organo di percezione e mezzo espressivo[2].
La possibilità di “attivare” il corpo del visitatore era suggerita dalla mostra stessa, che presentava al proprio interno due categorie di opere, i Transitory Objects[3], minerali in grado di sollecitare le proprietà energetiche del visitatore attraverso il contatto fisico, e le reperformance. Quest’ultime sono riproposizioni di alcune performance storiche dell’artista eseguite da performer selezionati dall’artista e formati all’interno di un workshop preparatorio ideato dalla stessa Abramović, Cleaning the House[4]. I performer sostituiscono fisicamente l’artista permettendo di ricreare l’esperienza dal vivo delle performance storiche di Abramović, riproposte nella mostra accanto ai video e alle immagini fotografiche che testimoniano le azioni realizzate dall’artista a partire dagli anni Settanta. Così facendo, Abramović ammette altre persone ad agire le proprie performance, operando di fatto un’alienazione da sé dei propri lavori difficile da immaginare fino a poco prima, considerato anche l’intreccio tra opere e storia personale a cui si è già fatto riferimento.
La pratica della reperformance viene inaugurata da Marina Abramović nel 2005, quando l’artista presenta Seven Easy Pieces al Solomon Guggenheim Museum di New York. In quell’occasione, come è noto, l’artista ripropose personalmente la replica di sette celebri performance del XX secolo. Tra le opere selezionate di autori come Bruce Nauman e Gina Pane, Abramović inserì anche Lips of Thomas (1975), dando via a una pratica di recupero e riproposizione live di sue performance del passato a cui diede seguito in occasione di The Artist Is Present, la celebrata esposizione del MoMA del 2010 curata da Klaus Biesenbach. In quell’occasione Abramović incaricò un gruppo di performer di sostituirla nell’esecuzione delle sue performance compiendo una scelta che avrebbe diviso critici e studiosi, tra chi l’accusava di tradimento nei confronti dello statuto della Performance Art (Jones, 2011) e chi la difese intravedendo nella sua scelta la chiave per restituire al genere un futuro, e non solo una memoria (Van den Hengel, 2011).
In ogni caso, il dibattito emerso intorno alle reperformance di Abramović ha confermato la capacità dell’artista di sfidare e mettere in discussione alcuni paradigmi granitici della Performance Art, come quello enunciato dalla studiosa Peggy Phelan: «Performance’s only life is in the present. Performance cannot be saved, recorded, documented, or otherwise participate in the circulation of representations of representations: once it does so, it becomes something other than performance. To the degree that performance attempts to enter the economy of reproduction it betrays and lessens the promise of its own ontology. Performance’s being, like the ontology of subjectivity proposed here, becomes itself through disappearance» (Phelan P., 1993, p. 146).
Per Peggy Phelan, la natura della performance risiede nella sua sfuggevolezza e la sua riproposizione viene intesa dalla studiosa come un atto di resistenza al suo intrinseco carattere effimero. Riproporre una performance salvandola dal suo termine temporale non può che trasformarla in altro, cioè quel something other than performance o, nel caso specifico della reperformance, in un’altra performance che non è più quella da cui la replica trae origine. È una questione capitale per chi muove la sua riflessione intorno alla dimensione ontologica della performance.
Per chi si occupa di educazione museale e ha l’opportunità di lavorare con repliche o con le testimonianze visive delle performance del passato, la questione si sposta dal piano ontologico (che cosa diventa la performance quando viene riprodotta), a quello fenomenologico, esperienziale e relazionale. Quali possibilità, dunque, si aprono per il pubblico quando l’esecuzione dell’azione performativa è finalmente liberata dal monopolio dell’autrice e del suo contesto originario per essere osservata e agita da altri, in un altro luogo e in un altro tempo? Quali pratiche possiamo introdurre per approfondire l’esperienza dell’opera dell’artista nel momento in cui il suo lavoro ci arriva tramite documentazione fotografica o replica live? Possiamo partecipare anche noi come pubblico alla rivivificazione di quell’azione?
Al di là del fare e dell’agire: la libertà del gesto
Prima di descrivere i passaggi concreti di quanto accaduto nel corso dell’esperienza proposta alle classi è interessante attingere ad alcune riflessioni utili per delineare la cornice esperienziale della mostra e le possibilità che questa apre.
Il corpo dell’artista si è rivelato in The Cleaner come presenza/assenza: sotto forma di immagine o fantasma nei video e nelle fotografie che ritraggono l’artista nel corso delle sue performance del passato, e come reincarnazione nelle reperformance. Lontano eppure sempre presente, il corpo di Marina Abramović era costantemente evocato durante tutto il percorso della mostra senza mai veramente concedersi al visitatore. Vengono in mente le parole di un intellettuale come Jean-Luc Nancy, che nel descrivere il corpo di Cristo manifestatosi alla Maddalena nella scena del Noli me tangere, parla di corpo «tangibile» ma «intoccabile» (Nancy, 2005). Quello che la donna vede dopo la resurrezione poco fuori dal sepolcro è un corpo che si sottrae al tatto per ristabilire la distanza del sacro. «L’intoccabile» dice Nancy «[…] è presente ovunque vi sia esperienza del sacro, ossia ritrazione, distanza, distinzione e incommensurabilità, con l’emozione che le accompagna (e le costituisce)» (Nancy J., 2005, p. 25).
L’assenza del corpo dell’artista, mostrato, evocato ma mai realmente presentato, ha reso la visita della mostra un percorso segnato dall’esigenza di colmare il vuoto tra la memoria dell’azione e la sua effettiva concretizzazione. Marina Abramović sceglie il reenactment proprio con l’obiettivo di dare risposta a questa esigenza: «The only real way to document a performance art piece is to re-perform the piece itself» (Abramović M., 2007, p. 11). Resta da capire se in quest’opera di recupero dal passato e di restituzione al tempo presente dell’azione performativa abbiano un ruolo solo l’autrice che crea la performance e i performer che la eseguono, oppure se resti uno spazio di azione anche per il visitatore della mostra.
Giorgio Agamben, in un testo dedicato al rapporto tra gesti, immagini e politica, ripercorre una breve genealogia del pensiero filosofico antico sulla natura dell’agire. Riprendendo Varrone e Aristotele, Agamben sottolinea come il gesto, pur essendo azione, vada concettualmente distinto da agire e fare. Per Varrone, infatti, «si può fare qualcosa e non agirla, come il poeta che fa un dramma ma non lo agisce; al contrario l’attore agisce il dramma, ma non lo fa», mentre per Aristotele «il genere dell’agire [della praxis] è diverso da quello del fare [della poiesis]. Il fine del fare è, infatti, altro dal fare stesso; il fine della prassi non potrebbe, invece, essere altro: agire bene è, infatti, in se stesso il fine». A queste due dimensioni dell’azione Agamben ne aggiunge un’altra, quella del gesto, che spezza la dicotomia tra fare (mezzo con un fine) e agire (fine senza mezzi, scopo in sé) presentandosi come mezzo senza fine (Agamben G., 1996, pp. 50-51).
Per far comprendere cos’è un gesto Agamben usa l’esempio del mimo. «Che cosa imita il mimo?» si chiede Agamben. «Non il gesto del braccio al fine di prendere un bicchiere per bere o per qualsiasi altro scopo, altrimenti la mimesi perfetta sarebbe la semplice ripetizione di quel determinato movimento tale e quale. Il mimo imita il movimento, sospendendo, però, la sua relazione a un fine. Egli espone, cioè, il gesto nella sua pura medialità e nella sua pura comunicabilità, indipendentemente dalla sua relazione effettiva a un fine». Nel gesto, prosegue Agamben, «[…] l’uomo non comunica uno scopo o un significato più o meno cifrato, ma la sua stessa essenza linguistica, la pura comunicabilità di quell’atto liberato da ogni fine. Nel gesto non si conosce qualcosa, ma soltanto una conoscibilità» (Agamben G., 2017).
La conoscibilità definisce la natura in potenza del gesto, la sua pura medialità e disinteresse ad assolvere, attraverso il movimento del corpo, un compito preciso se non quello della conoscenza. L’artista fa l’opera, come il poeta fa il dramma, per usare i termini di Varrone citati da Agamben; il performer incaricato agisce l’opera seguendo le indicazioni dell’artista. Quali altri livelli di partecipazione all’azione performativa possiamo immaginare?
Senza avere una reale risposta al quesito, abbiamo risposto alle sollecitazioni della mostra riguardanti il corpo inteso come materiale, strumento e linguaggio espressivo, utilizzando il corpo stesso. Senza scadere nella sciocca pretesa di copiare o imitare le azioni dell’artista, i partecipanti a Corpi in azione sono stati coinvolti nella creazione di un particolare effetto di risonanza tra il proprio corpo e quello di Marina Abramović con l’intenzione di avvicinarci alla natura fisica dell’opera e aprirci a ulteriori interpretazioni.
Per affrontare una performance è necessario il riscaldamento
Come posso rendere l’opera più accessibile e l’esperienza della visita più significativa? Questa domanda è il punto di partenza per la progettazione di ogni attività educativa e prelude a un lavoro fatto di studio, focus group, proposte, test e tanti ripensamenti. Il tutto calato in un contesto specifico che si determina in base ai contenuti e alle opere esposte, all’allestimento, agli spazi e ai tempi a disposizione, alla tipologia di pubblico a cui si rivolge la proposta e alle aspettative, reali e presunte, che una mostra dedicata a una celebrità dell’arte contemporanea possono suscitare.
The Cleaner e in generale la figura di Marina Abramović hanno posto sin da subito alcuni interrogativi rispetto alle attività da proporre alle classi della scuola primaria e secondaria. In una mostra dove la violenza e l’autolesionismo emergono come componenti centrali della pratica artistica, chi cura le attività educative è obbligato a fare delle valutazioni rispetto al se e soprattutto al come presentare le opere. Tali dubbi sono stati affrontati comunicando preventivamente e con chiarezza i contenuti della mostra alle classi e coinvolgendo direttamente gli insegnanti all’interno di una serie di focus group organizzati in estate per discutere rischi e possibilità della mostra. A questo è seguita la progettazione di una cornice di attività in grado di facilitare l’incontro con l’opera dell’artista prevenendo facili sensazionalismi e promuovendo una maggiore partecipazione alla visita.
In termini relativi, il pubblico scolastico di fascia 12-19 anni costituisce una porzione piuttosto minoritaria dei visitatori di Palazzo Strozzi, ma è comunque sostanziosa in termini assoluti ed estremamente rilevante per un’istituzione culturale impegnata da sempre nell’avvicinamento dei giovani ai linguaggi dell’arte. Nella maggior parte dei casi le classi in visita hanno a disposizione un tempo limitato e talvolta, nel tentativo di ottimizzare lo sforzo dell’uscita, associano la visita a Palazzo Strozzi a quella di altri musei o monumenti del centro storico di Firenze. Sono visitatori che arrivano in gruppi organizzati dagli insegnanti, perlopiù al mattino, e che privilegiano laboratori e visite guidate. Le attività guidate prevedono sempre ampi momenti di dialogo fondati sull’uso di domande aperte e momenti di autonomia creativa davanti alle opere. Queste strategie danno corpo a un atteggiamento generale che favorisce la costruzione collettiva dei significati delle opere e che mette in discussione il paradigma dell’apprendimento top-down, tenendo al centro l’opera d’arte e non la conoscenza dell’educatore che guida il gruppo. L’educatore può giovarsi dei contributi e dei punti di vista degli altri partecipanti sulle opere, rinfrescando ogni volta la propria posizione rispetto alle possibilità dell’esperienza di visita. È la trasposizione pratica dell’educazione problematizzante che Paulo Freire distingue da quella depositaria di matrice ottocentesca (Freire, 1970).
Per rispettare questa modalità e raggiungere gli effetti positivi appena elencati, è necessario però che l’opera sia messa nelle condizioni di far emergere un’esperienza, nel senso di fenomeno profondo che ne dà John Dewey (Dewey, 1934). In una mostra come The Cleaner, ricca di documentazioni e in cui l’esperienza dell’opera va sempre ricostruita per rimandi, abbiamo deciso di stimolare l’empatia dei visitatori più giovani con una serie di esercizi tesi all’attivazione del corpo, un vero e proprio riscaldamento fisico in preparazione alla visita della mostra. Durante lo svolgimento dell’attività si potevano riconoscere allusioni ad alcune performance storiche di Abramović come Point of Contact (1980), alle pratiche di formazione dell’Abramović Method a cui si sono sottoposte le persone ingaggiate per le reperformance e riferimenti all’attivazione energetica del corpo che secondo l’artista può essere innescata attraverso il contatto con i Transitory Objects presenti in mostra. Ma più che tracciare un collegamento tra tutti questi riferimenti, gli esercizi preparatori avevano lo scopo piuttosto pratico di creare una cesura con ciò che era esterno e precedente alla visita, oltre che portare attenzione alla centralità del corpo: quello del partecipante all’attività, dei performer impegnati nelle reperformance e dell’artista.
Un momento dell’attività Corpi in azione a Palazzo Strozzi, ottobre 2018. Foto di Giulia Del Vento
Il riscaldamento aveva la durata di circa venti minuti e prevedeva una fase di rilassamento e respirazione guidata seguita da una serie di esercizi a coppia:
- fissarsi negli occhi per un tempo relativamente lungo mantenendo il silenzio;
- avvicinare i palmi delle mani senza toccarsi ma cercando di percepire il calore sprigionato dalla mano dell’altro;
- posizionarsi l’uno di fronte all’altro tenendosi per mano e lasciare andare il peso del corpo all’indietro aiutandosi reciprocamente a mantenere l’equilibrio.
In una seconda versione dell’attività, più lunga e articolata, a questi esercizi si aggiungevano una serie di pratiche dedicate alla concentrazione e alla presa di confidenza con le possibilità del corpo di entrare in una relazione più profonda con lo spazio esterno e con gli altri. Nell’ordine:
- camminare in uno spazio ridotto senza fermarsi, cambiando frequentemente direzione ed evitando di toccare gli altri partecipanti;
- camminare in uno spazio ridotto senza fermarsi, cambiando frequentemente direzione, evitando di toccare i compagni e cercando di non far cadere un alto copricapo posizionato sulla testa in equilibrio precario;
- tutte le azioni del punto precedente a occhi chiusi;
- conversazione finale.
Questa esperienza, a cui potevano seguire altri piccoli esercizi davanti alle opere della mostra, ha preparato ogni classe all’incontro con la performance di Abramović, e la stimolazione fisica ha influenzato la possibilità per gli studenti di provare empatia con l’artista e di apprezzarne il lavoro.
Il critico Boris Groys sostiene che gli artisti d’avanguardia del XX secolo sono percepiti dal grande pubblico come elitari e antidemocratici perché la loro arte viene identificata come una serie di “gesti deboli” (Groys, 2010). Questa debolezza, secondo Groys, deriva dalla possibilità da parte del pubblico di imitare e addirittura di replicare tali gesti ormai liberati dai misteri del talento e della competenza tecnica che caratterizzava l’arte tradizionale. L’impopolarità che affligge l’arte d’avanguardia deriva, paradossalmente, dalla sua capacità di essere democratica e accessibile a tutti. «L’arte di massa», dice Groys, «si rivolge a un pubblico di spettatori, mentre l’arte delle avanguardie è orientata verso un popolo di artisti» (Groys B., 2013, p. 73).
Le attività come quella proposta a Palazzo Strozzi alle classi di scuola secondaria non chiedono ai partecipanti di prendere il posto degli artisti, ma di attingere a un lessico di gesti e pratiche basate sul movimento capaci di integrare e arricchire la propria esperienza della performance in mostra, e utili a far accettare il corpo come strumento di conoscenza e non solo come oggetto di contemplazione. In uno spazio museale non è cosa da poco.
Note
[1] La mostra Marina Abramović. The Cleaner è stata presentata, nell’ordine, presso Moderna Museet (Stoccolma), Louisiana Museum of Modern Art (Humlebaeck), Henie Onstad Kunstsenter (Oslo), Bundeskunsthalle (Bonn), Palazzo Strozzi (Firenze), Centrum Sztuki Współczesnej Znaki Czasu (Toruń) e al Museo d’arte contemporanea di Belgrado. La tappa fiorentina a cura di Arturo Galansino è stata ospitata a Palazzo Strozzi dal 21 settembre 2018 al 20 gennaio 2019.
[2] La formula estesa di questa attività, Corpi in azione, aveva una durata di due ore ma tutte le classi di scuola secondaria in visita alla mostra guidate da un educatore di Palazzo Strozzi hanno partecipato agli esercizi preliminari di attivazione corporea di mezz’ora prima dell’inizio della visita.
[3] I Transitory Objects sono una serie di opere realizzate utilizzando frammenti di pietre e cristalli che secondo l’artista hanno la capacità di influenzare a livello energetico il corpo di chi interagisce con essi.
[4] Il workshop preparatorio Cleaning the house dura cinque giorni e prevede una serie di regole tra cui il divieto di contatti con il mondo esterno e l’astensione dalla comunicazione verbale tra i partecipanti. LINK per ulteriori informazioni
Bibliografia
Abramović M., 7 Easy Pieces, Charta, Milano 2007
Agamben G., Mezzi senza fine, Bollati Boringhieri, 1996.
Agamben G., Per un’ontologia e una politica del gesto, atti del seminario “Giardino di studi filosofici”, Università di Cagliari, 29-30 giugno 2017
Auslander P., The Performativity of Performance Documentation, in «PAJ: A Journal of Performance and Art», vol. 28, n. 3, 2006, pp. 1-10
Burnham R., Kai-Kee E., Teaching in the Art Museum, The J. Paul Getty Museum Publications, Los Angeles 2011
Dewey J., Art as Experience (1934), trad. It. Arte come esperienza, Aesthetica, Palermo 2007
Freire P., Pedagogia do oprimido (1970), trad. It. Pedagogia degli oppressi, Edizioni Gruppo Abele, Torino 2018
Galansino A. (ed.), Marina Abramović. The Cleaner, catalogo della mostra di Palazzo Strozzi, Firenze, Marsilio, Venezia 2018
Groys B., Going Public, Sternberg Press (2010), trad. It., Going Public. Scrivere d’arte in chiave non estetica, Postmedia, Milano 2013
Jones A., “The Artist is Present”: Artistic Re-enactments and the Impossibility of Presence, in «TDR/The Drama Review», n. 55, 2011, pp. 16–45
Phelan P., Unmarked. The Politics of Performance, Routledge, Londra, 1993
Van den Hengel L., Archives of Affect: Performance, Reenactment, and the Becoming Memory in Muntean, L., Plate, L., Smelik, A. (ed.), Materializing Memory in Art and Popular Culture, Routledge, Londra 2017
Alessio Bertini
Laureato in Storia dell’Arte Contemporanea presso l’Università di Firenze, si occupa dal 2008 dei programmi educativi del Centro di Cultura Contemporanea Strozzina. Dal 2015 si occupa dei progetti speciali per il pubblico e dei programmi educativi collegati alle mostre di Palazzo Strozzi con particolare riferimento a giovani, scuole e insegnanti.