Gli spazi sono produttori di significati e di valori. Essi giocano un ruolo attivo nella costruzione delle identità delle persone che li abitano o li attraversano. Gli spazi istituzionali sono concepiti per riprodurre dinamiche di potere e per garantire il mantenimento dell’ordine stabilito. Gli spazi all’università, in particolare le aule, sono progettati per favorire il controllo e confermare l’autorità del corpo insegnante. Essi sono la traduzione materiale di una concezione dell’apprendimento e della trasmissione del sapere fondata sulla coercizione, sulla paura, sullo spettro del “fallimento” (Freire 2011, De Cock, L. e I. Pereira 2019). I muri dell’università concretizzano il discorso dominante e i rapporti di potere basati sul privilegio della classe insegnante.
È possibile inserirsi in questo meccanismo e provare a sabotarlo? Noi pensiamo che lo spazio universitario, così concepito, può essere hackerato: è possibile iniettare il virus e contribuire a far cortocircuitare tale sistema di oppressione, la fabbrica della subordinazione. Uno spazio in particolare è particolarmente favorevole a questa azione: l’aula universitaria.
Quando penetri nella «casa del padrone», se è vero che non puoi distruggerla con gli strumenti del padrone (Lorde 2014), puoi però pensare di infilarti in una falla, di scivolare in un interstizio e lì di installarti.
Voce off 1. Diana Torres Pornoterrorista (2011, p. 197): «y me instalo justo ahi donde quiero estar/ donde luzco come un molesto insecto mutante al que no podréis matar».
Nell’interstizio possiamo avere un punto di vista, una posizione privilegiata per guardare al sistema dominante e sperimentare strategie per la contaminazione dei luoghi, per la diffusione del virus. A trasgredire s’impara (hooks 2020), capovolgendo, circoscrivendo, oltrepassando le norme e le regole dell’istituzione.
Possiamo lavorare per cercare di trasformare un’aula universitaria in uno spazio di rifugio, uno spazio percepito come meno ostile, meno violento, meno opprimente[3], uno spazio per curare le ferite inflitte dalla violenza istituzionale, uno spazio per ritrovarsi. In questa prospettiva, l’aula può diventare un laboratorio di resistenza al sessismo, al razzismo, al classismo, a tutte le discriminazioni prodotte dalla società e dall’istituzione e promuovere quella che Ippolita (2017) chiama pedagogia hacker
Voce off 2. Ippolita (2017, p. 199): «Proporre esperienze formative in un’ottica di pedagogia hacker significa per noi anzitutto aiutare gli individui a far emergere l’hacker che si nasconde in ognuno di noi, dargli valore e aiutarlo a crescere».
Il corpo insegnante ovvero la corporizzazione del sistema dominante
L’istituzione universitaria conferma e reifica il suo potere attraverso i luoghi. All’università i rapporti di potere sono visibili in classe, negli anfiteatri, nella progettazione degli spazi interni. L’ordine e la disciplina si materializzati non solo negli spazi ma anche nei corpi di chi li attraversa, tramite comportamenti “consoni” riprodotti e interiorizzati.
I professore sono soggetti che si fanno istituzione, che permettono all’università di mantenersi tale e quale. L’istituzione li ha scelte, assegnate come ‘scientifici’ e dato vita ad un circolo di persone che si sentono accomunate dagli stessi privilegi e valori, che si mettono in valore e legittimano mutualmente e a cui viene richiesto di mostrarsi compatti e di aderire ad una solidarietà di classe[4].
Il corpo insegnante è un’entità che rende viva l’istituzione, incorpora il sapere considerato legittimo e crea il sapere dominante. La colonialità del sapere come anche del potere e dell’essere sono iscritte nelle discipline e legittimate dal fatto di presentarsi come una visione scientifica del mondo (Maldonado-Torres 2007, Walsh 2007). L’università agisce come un agente di valorizzazione dei saperi, decide quali siano i saperi dominanti e legittima solo certe modalità di acquisizione:
Voix off 3: «il n’y a pas de valeur, il n’y a que des processus de valorisation […] être dominant dans un champ c’est avoir réussi à imposer sa manière de faire comme la manière qui vaut» (Lordon, 2018, p. 119-120).
In ultimo, gli insegnanti non si percepiscono come possibili agenti di discriminazione grazie alla retorica dell’uguale trattamento degli studente e della valutazione secondo il merito. Nonostante il concetto di ‘merito’ sia stato smontato in molti studi che hanno mostrato il rapporto tra ‘merito’ e privilegi di classe, di razza, di genere (si veda ad esempio, Tenret, 2011), l’idea di poter valutare ‘obiettivamente’ resta un pilastro del sistema universitario.
#Tradire la classe con la classe
In che modo una persona che integra l’istituzione può sottrarsi a questo sistema e contrattaccare?
Quando fai parte del sistema dominante devi scegliere e esplicitare il tuo campo. Per noi, il solo campo possibile è quello della ricerca di pratiche d’insegnamento che cerchino di non riprodurre le oppressioni e le dominazioni che il sistema universitario ci spinge ad esercitare. Ciò è possibile attraverso una pratica costante di riflessione individuale e collettiva sul nostro posizionamento e sui nostri privilegi. Ma la coscientizzazione non può limitarsi ad una pratica di riflessività. Essa deve tradursi in una mobilitazione costante dei propri privilegi per usarli, per correre i rischi che tradire la classe insegnante e co-costruire spazi di resistenza con le studenti porta con sé. Per fare ciò, noi abbiamo deciso di partire dallo spazio del nostro quotidiano: l’aula.
bell hooks, nelle sue riflessioni sulla pedagogia come strumento politico, chiama le persone insegnanti a praticare una pedagogia militante, in grado di aprire spazi di parola e di ascolto. Ciò è possibile solo rompendo con la postura del silenzio, della distanza, del rapporto verticale, esplicitando chi sei, da dove è enunciato il sapere che porti in classe, visibilizzando i meccanismi di potere su cui si regge l’università, che governano l’aula che noi insegnanti incarniamo e che siamo tutti/e, studenti e insegnanti, chiamati/e a rispettare e a riprodurre nel momento in cui condividiamo quello spazio. Se fai ciò, puoi creare una spaccatura nei muri della classe sufficiente ad iniettare il virus della controproduzione del sapere. Può così prendere avvio il processo di liberazione della parola. Nell’università, lo spazio di liberazione della parola non è compreso nella planimetria. Bisogna progettarlo e costruirlo.
Voce off 4. hooks, 2013: «Nei miei corsi, non mi aspetto di certo che gli studenti prendano dei rischi che io non correrei, che condividano qualsiasi cosa che io non condividerei. Quando noi professore facciamo entrare delle narrazioni delle nostre proprie esperienze nelle discussioni in classe, evitiamo di agire come inquisitori onniscenti e silenziose. È spesso molto positivo che i professore corrano per primi dei rischi, facendo connessioni tra le narrazioni delle esperienze personali con le discussioni universitarie. Questo mostra come l’esperienza possa chiarire e approfondire la nostra comprensione dei contenuti universitari» [5].
Quando il sapere non è riconosciuto come situato e quando si nasconde il carattere politico del sapere attraverso la celebrazione della distanza, l’impostura della neutralità e dell’obiettività, se sei insegnate, introdurre il tuo vissuto è una pratica di hackeraggio. Significa inserire elementi che il sistema non ha previsto. Il corpo insegnante può allora diventare un vettore di indebolimento e non di rafforzamento del corpo istituzionale.
La brigata SCRUM (Streghe per un Cambiamento Radicale dell’Università Merdosa) è formata da un piccolo gruppo insegnante che cerca di piratare gli spazi dell’istituzione universitaria dall’interno. Per fare ciò partiamo dalla classe che cerchiamo di risignificare temporaneamente attraverso un insegnamento militante esplicito e rivendicato. Ci piace pensare le aule che attraversiamo con i nostri corpi e quelli degli studente minoritarie come delle ZAT (Bey, 2007), Zone Temporaneamente Autonome ad intermittenza.
#Fase 1: Diventare hacker o del necessario impoteramento della persona insegnante
Dagli appunti di Rachele:
Corso magistrale di epistemologia della geografia, 2015. Presentazione del corso, della bibliografia e delle autore che saranno studiate durante il corso. Una studenta alza la mano: “Prof, ma perché la maggior parte dei testi che dobbiamo leggere sono di donne, nere e lesbiche?”. Ho risposto che avevo fatto quelle scelte bibliografiche perché nel corso sviluppavo un approccio radicale, nel senso di andare alle radici. Ora, certe radici della geografia postmoderna sono da rintracciare nelle femministe non bianche, lesbiche, cicane e latino-americane. Quello che volevo mostrare era piuttosto come questi riferimenti fossero stati dimenticati o spesso invisibilizzati dai produttori di sapere legittimati e istituzionali, in questo caso, da quelli che sono considerati i maestri della geografia postmoderna e che spesso sono uomini, bianchi e anglo-americani. Questo è ciò che i geografi latino-americani hanno mostrato producendo la svolta decoloniale e femminista nella geografia.
La domanda della studenta sottintende la non legittimità di tale sapere nel contesto scientifico accademico e di una “parzialità” dell’insegnante. Essere pronte a dare la risposta “giusta” significa aver già riflettuto alla possibilità di essere contestate, significa non lasciarsi intimidire dalla domanda, avere un’elevate capacità di reazione, significa, in poche parole, essere sicure di sé e dell’essere “in place”. Cosa che non è facile come sembra. Ci vuole tempo e anche molte energie. È possibile rompere questo circolo vizioso di fragilizzazione?
Prendere coscienza del meccanismo nel quale si è inserite, rendersi conto che ciò che vivi personalmente ha una dimensione politica facilita l’inversione di marcia: il passaggio dalla fragilità all’impoteramento.
Traduzione di questa riflessione in azione: in sciopero dal discorso dominante.
Voce off 5. Sommovimento Nazioanale, 2017, SCIOPERO! Comunicata delle transfemministe in sciopero dalla conferenza CIRQUE (L’Aquila, 31 marzo-2 aprile 2017): «Il nostro sciopero è uno sciopero contro la violenza epistemologica, contro il lavoro gratuito di spiegazione di sé e di educazione delle classi dominanti che ci viene estorto, contro la precarietà, lo sfruttamento e l’oppressione imposta alle lavoratrici/lavoratori della conoscenza, contro il razzismo, l’islamofobia e il pinkwashing. Ma se scioperiamo contro queste cose è perché hanno delle conseguenze materiali sulle nostre vite di persone queer, trans, precarie ben oltre l’università.
Grazie alla solidarietà e alla creatività che ci hanno permesso di trasformare almeno in parte l’esasperazione, la rabbia e il dolore in un momento di resistenza, le nostre ferite stanno guarendo […] Il pensiero queer (o frocio, lesbico, ricchione..) e trans dentro e fuori dall’accademia è radicato nelle vite froce, nasce dai movimenti, e deve essere a supporto delle nostre vite e delle nostre lotte.Non possono fermarci: resistiamo, scioperiamo, cospiriamo. Il patriarcato cis-sessista-abilista-capitalista-bianco-maschio-eterosessuale cadrà a pezzi e morirà e al suo posto sorgerà un meraviglioso mondo transfemminista queer».
LINK COMUNICATO
#Fase 2: modificare la planimetria o della necessità di liberare spazi di parola
Nel 2016 studenti/e e insegnati/e hanno vissuto una situazione conflittuale al primo anno del corso di laurea di geografia. Il primo semestre è stato caratterizzato da numerose assenze degli studenti/e, da disattenzione e rumori persistenti nelle aule e in anfiteatro e con risultati di fine semestre che erano lo specchio di condizioni di apprendimento critiche. Il secondo semestre si è poi aperto con episodi di alterco che hanno portato la direzione del dipartimento a proporre “punizioni esemplari”.
Se la sorveglianza permette ai rapporti di potere di perennizzarsi, la punizione è lo strumento da attivare in caso di pericolo o anche solo di messa in discussione del sistema. Quando una studenta insulta uno/a insegnante in un anfiteatro, è il sistema nel suo complesso che è toccato. L’episodio è stato classificato come “atto di violenza” e problema da risolvere e mai come una potenziale reazione alla violenza del sistema di funzionamento dell’università. Mettere l’accento solo sulla violenza dello/a studente permette di cancellare la violenza intrinseca nel sistema universitario, esercitata in particolare verso gli studente che appartengono a minoranze. Tale operazione decontestualizza l’evento e invisibilizza la complessità dei rapporti di potere che si materializzano nei luoghi e nei corpi.
In Se Défendre, une philosophie de la violence Elsa Dorlin (2017) spiega come l’applicazione del discorso coloniale e patriarcale abbia portato a una strumentalizzazione della nozione di violenza che viene sistematicamente attribuita agli oppresse. La violenza sistemica, infatti, non può essere esercitata senza costruire la violenza delle oppressi. In questo modo la prima viene legittimata e rafforzata dalla seconda.
Di fronte all’incapacità del nostro dipartimento di interrogarsi sulle cause della situazione e di mettersi in discussione, ci siamo opposte alla “punizione esemplare” proponendo di sostituire una lezione di ogni corso al primo anno con un atelier che avrebbe condotto Rachele insieme ad Emilie. Il fine era di costruire uno spazio per liberare la parola a partire da un collage sull’esperienza all’università. Siamo entrate in classe portando in mano colori, cartoncini, glitter, colla e adesivi invece di fogli di presenza e liste d’iscrizione. Ciò ha inizialmente destabilizzato le studenti e creato delle resistenze. Queste hanno cominciato a venir meno quando abbiamo formato con i banchi un unico spazio di lavoro collettivo e facilitato la circolazione dei corpi nella sala, il tutto accompagnato da musiche di sottofondo che abbiamo poi chiesto agli studente di scegliere. La creazione di un paesaggio sonoro a loro familiare e inatteso ha favorito lo sviluppo di uno spazio di fiducia. Il gioco di “mi piace”, in cui tutte le persone dovevano camminare nell’aula e avvicinarsi o allontanarsi dalla persona che a turno diceva ciò che le piaceva, ha permesso di rompere con la divisione tra vissuto pubblico e privato, tra ciò che ha posto in quello spazio e ciò che non lo ha e favorito la socialità. Il collage “Il mio primo semestre all’università” o, a scelta, “La mia università ideale” ha permesso di esprimersi al di là delle parole e di rappresentare il proprio malcontento e le proprie ispirazioni e aspettative. Abbiamo poi appeso i disegni e circolato in classe come in una galleria d’arte per poi sederci in cerchio per terra e discutere a partire dal commento al proprio collage.
In tutti i gruppi c’è stato un coinvolgimento pressoché totale nell’attività proposta, nonostante la riluttanza iniziale. Ciò che ci ha toccate è stata la fiducia che tutti le studenti hanno riposto in noi. Perché, condividere la tua playlist (“Prof, ma questa è la sua playlist? Ascolta RnB e rap?!”), esplicitare le tue preferenze (“Mi piacciono le fragole”, “Mi piace il giallo”, “Mi piace guardare le serie in TV”), portare il proprio corpo dove non ce lo si aspetta aspetta (“Ci sediamo per terra? Ma anche lei?”) significa mostrare che anche tu, come insegnante, sei pronta ad uscire dalla zona di comfort, per scendere (in senso proprio e figurato) dal piedistallo.
Alcune studenti hanno potuto condividere le proprie frustrazioni su percorsi scolastici difficili, dando testimonianza delle discriminazione subite, basate sul luogo di residenza e sulle origini.
Abbiamo infine appeso dei post-it sulla parete dell’aula. È stato un modo per “far parlare i muri” al proprio posto e lasciare messaggi diretti al corpo insegnante. L’esperienza, molto positiva per le studenti e per noi che l’abbiamo fatta, si è conclusa dopo una settimana con la direzione che ci ha intimate di “tornare alle cose serie”.
#Fase 3: Iniettare i metodi del contesto militante nello spazio universitario
Dagli appunti di Emilie:
Rachele ha proposto un seminario di arpentage[6]. È salita sui banchi in classe e da lì ha lanciato i fogli dei testi da studiare nel corso di epistemologia della geografia: gli studente hanno quindi iniziato a leggere le pagine dove queste erano cadute, sopra o sotto i tavoli, sulle sedie o per terra. Io avevo appena letto un articolo che mi aveva colpita molto sull’approccio decoloniale e che mi ha insegnato che le idee circolano e le teorie viaggiano (Boulbina, 2013). Così ho avuto l’idea di prendere i testi fotocopiati su cui dovevamo lavorare, trasformarli in aeroplanini di carta, lanciarli e poi andare a leggerli dove fossero atterrati: le teorie viaggiano, la carta vola”. LINK ARTICOLO
Nel 2016, in alcuni corsi di “Geografia nelle scienze umane e sociali” e di “Epistemologia della geografia” abbiamo proposto di creare un fumetto che rispondesse alla sfida di diffondere in modo diverso la conoscenza scientifica e combattere la frustrazione che certi linguaggi e supporti provocano tra le persone che non possiedono determinati codici come pure la noia che spesso accompagna l’incomprensione.
Inizialmente abbiamo lavorato su testi che permettessero alle studenti di leggere in maniera critica il sapere geografico. Abbiamo utilizzato il metodo dell’arpentage rivisitato per dissacrare i testi, rivelare possibili letture polifoniche, facilitare l’approccio al testo e favorire la sua appropriazione.
Dopo aver letto la pagina, la studente doveva sottolinearne i passaggi che l’avevano colpita e scrivere su un post-it le parole chiave. La studente che l’avrebbe seguito, si sarebbe approcciato a quel testo su cui era visibile la traccia (post-it) del precedente lettora. Successivalmente i passaggi interessanti potevano essere ritagliati per poi essere incollati insieme ad i post-it su una striscia di carta appesa lungo la parete. Gli studente potevano circolare nell’aula e scrivere commenti o disegnare, rispondendo alle frasi che man mano andavano a ri-scrivere il testo. Lo spazio dell’aula è stato così riconfigurato come il testo è stato riscritto, attraverso un’appropriazione e rielaborazione collettiva dello spazio-aula e dello spazio-testo. Da questo collage gli studente sono poi partite per elaborare il proprio fumetto.
Un gruppo ha scelto di presentare il “dietro le quinte del fumetto”: fare il “making of” dei lavori in corso e ricordare così le difficoltà incontrate. Per poter realizzare questo fumetto, infatti, avevamo bisogno di materiali (pennarelli, fogli, matite). La nostra richiesta di finanziamento è stata rifiutata dalla direzione, abbiamo, studenti e noi insegnanti insieme, fatto appello al crowdfunding che ha avuto un successo inaspettato e ci ha permesso di lavorare con questi metodi per altri due anni in maniera indipendente dalla direzione. Il fumetto ha ripercorso questi eventi ed è circolato tra studenti dei diversi anni.
Dagli appunti di Julie:
Dottoranda in geografia, ho avuto il mio primo incarico di insegnamento durante il primo semestre. Nel corso di “Geografia nelle scienze umane e sociali” abbiamo creato fumetti sul pensiero geografico. Non avevo esperienza di insegnamento all’epoca, era la prima volta che andavo dall’altra parte della cattedra. Facevo fatica a sentirmi “legittima” in questo nuovo ruolo.
Convinta della necessità di introdurre una pedagogia alternativa e militante all’università, ho cercato di far fronte al mio disagio. Fin dalla prima lezione, ho insistito sulla necessità di creare uno spazio di condivisione in classe. Ho parlato con gli studenti dell’orizzontalità e della costruzione collettiva della conoscenza. Le ho invitati a presentare le proprie definizioni di geografia in modo che potessimo discutere le diverse prospettive sulla disciplina che avevano scelto. Questa prima discussione non ha funzionato, poiché pochi studenti volevano parlare. Ho capito allora che non bastava parlare di uno spazio di liberazione della parola perché l’aula diventasse tale, ma esso doveva essere co-costruito e poteva anche volerci del tempo. Per tutto il semestre abbiamo seguito questo percorso insieme, con gli studente che mi hanno insegnato nel corso delle settimane come essere una insegnante. Ho cercato questa orizzontalità ancora astratta a settembre, prima di comprenderne le dinamiche e coglierne la ricchezza una volta terminato il semestre.
Durante la seconda lezione, le studenti hanno creato le loro “cassette degli attrezzi”, delle cartelline da loro stessi decorate con la propria visione della geografia, in cui inserire lezione per lezione delle schede fatte in classe, non solo di riassunto dei contenuti ma di critica del sapere trasmesso e di come era avvenuto il processo di trasmissione e di recezione.
Gli studente hanno trasformato la classe modificando la disposizione dei tavoli e delle sedie per creare il proprio spazio di lavoro. I cambiamenti dello spazio interno favoriscono la riapprorpiazione dello spazio-aula e contribuiscono a trasformarlo in un potenziale sito di resistenza. Per questo nelle nostre aule l’amministrazione ha poco dopo legato i banchi l’uno con l’altro per impedire che li spostassimo. Il potere si era materializzato nello spazio, ricordandoci che non era nostro. Compreso il loro potenziale sovversivo, abbiamo trovato le maniere di aggirare l’ingiunzione a fare e seguire la lezione in maniera frontale. Abbiamo trovato una strategia per allineare due file di banchi e creare uno spazio favorevole alla discussione e alla condivisione. Fare di un luogo istituzionale un luogo di resistenza implica una capacità di adattamento e un rimodellamento permanente dello spazio.
Le lezioni seguenti sono state dedicate allo studio di concetti e nozioni essenziali per un approccio critico al sapere. I concetti discussi, come intersezionalità, norme, privilegi, decolonialità, hanno permesso di avviare un processo di messa in discussione dei discorsi dominanti attraverso lo studio di testi e supporti audiovisuali, ma anche soprattutto attraverso gli scambi tra le persone nel corso.
Rendere un testo scientifico un fumetto all’interno di un contesto conservatore e ancora di impronta positivista come il nostro, significa portare l’attenzione sul valore politico del ‘farsi capire’. Questa presa di coscienza ha permesso di lavorare collettivamente ad un progetto che potesse andare al di là dell’obbligo al voto finale, altra ingiunzione violenta del sistema che abbiamo decostruito. I fumetti sono allora diventati qualcosa di ‘reale’ e non un esercizio limitato allo spazio universitario.
Molti studenti all’inizio erano riluttanti, per alcuni la produzione visuale avrebbe sminuito il valore di un testo scritto, altri vivevano con angoscia la mancanza di istruzioni rigorose su ciò che veniva loro chiesto. La libertà, o almeno l’assenza di un quadro rigido, ha destabilizzato chi aveva dovuto fino a quel momento rispondere senza troppe domande alle richieste del sistema scolastico.
Di laboratorio in laboratorio, le studenti hanno cominciato ad appassionarsi al lavoro, ai fumetti ma anche alla lettura dei testi. Il lavoro di lettura e di sintesi dell’articolo scelto, infatti, ha permesso loro di appropriarsi del testo e di rielaborlarlo attraverso la sua riproduzione illustrata. Gli studente hanno così acquisito conoscenze, mobilitato le loro competenze e usato il loro pensiero critico per trasmettere un sapere scientifico in una forma alternativa a quella dominante, rivendicandone la legittimità.
Dalle autovalutazioni delle studenti:
“Di questo corso mi è piaciuto l’aspetto partecipativo […]. Riguardo all’ambiente generale di apprendimento, prendendo pezzi di testo mi sembrava di amputare il testo, di renderlo meno comprensibile. Non è forse un sacrilegio tagliare un testo scientifico? In realtà si tratta di un modo di desacralizzare un sapere. Ma è un buon modo di imparare? Non mi ricordo di aver assimilato i testi trattati durante le lezioni, ma le immagini sì. La creazione del fumetto con i miei compagni mi ha per- messo di usare le mie competenze. Voler spiegare un concetto significa rimettersi in questione e chiedere a se stessi se lo si ha veramente ben assimilato. Ho anche scoperto il lavoro che fanno i professori prima di venire in classe, il modo in cui un corso è costruito è alla fine simile ad una riflessione personale”.
“Cambiare l’uso della classe per capire i rapporti di dominazione che porta con sé è stato molto importante. Il fatto di stare in classe ma di non usarla come siamo abituati mi ha spinto a chiedermi come normalmente occupo lo spazio. Ho sentito una specie di disagio nel gruppo perché gli studenti non sono abituati a farsi avanti. Fin dall’inizio tutti abbiamo capito che questa classe sarebbe stata uno spazio di libertà unico nel programma del corso di laurea”.
“Mi è piaciuta la diffusione della musica durante il corso. Ho potuto dimenticare per un momento di essere all’università con l’impressione di essere in uno spazio di lavoro più dinamico”.
“Il fatto è che essere incoraggiati a tessere delle relazioni, sia tra studenti che con il proprio professore permette senza dubbio di rompere questa ‘barriera’ psicologica che spesso ci sembra insormontabile”.
“L’implicazione quasi personale del professore in questo corso e il suo metodo di insegnamento mi ha permesso di sentirmi davvero bene mentre facevo il lavoro in classe, cosa che mi era successa raramente durante il mio percorso scolastico”.
“Una delle frasi che mi è rimasta più impressa è quella di bell hooks quando dice: ‘Se è difficile per i professori prendere la distanza dai loro paradigmi, questo vale anche per gli studenti’. Inoltre questa autrice spiega bene il principio di ‘comunità di apprendimento critico’ lavorando allo schema di concezione del suo corso. Il suo obiettivo è l’acquisizione di fiducia dell’individuo e lo sviluppo della sensazione di sta- re in un ambiente protetto”.
“All’inizio mi sono detto che il metodo della nostra prof era un po’ strano. Ma dopo ho capito che ogni gesto contava, ogni parola o segno influenza davvero la maniera in cui il sapere e la legittimità passa da un individuo ad un altro”.
“Per quanto mi riguarda, come uomo nero, sono stato particolarmente interessato, e mi sono sentito chiamato in causa, alla lezione in cui si parlava della questione dei privilegi per- ché ho imparato grazie al fumetto [che abbiamo letto] che le persone beneficiano di questi privilegi senza per forza dirlo. Certi non sanno nemmeno che questi privilegi esistono”.
“Adesso quando penso all’accessibilità del sapere, mi ricordo il momento in cui lei è saltata su tutti i banchi in calzini per sparpagliare i testi nella sala; cosa che tra parentesi mi ha fatto molto ridere. Ho poi saputo che il gruppo di Emilie Viney aveva lanciato degli aeroplanini fatti con i fogli dei testi. Ho trovato anche quello un buon metodo”.
“In questo corso, mi sembra che abbiamo potuto a par- tire da metodi non accademici (appropriarsi della classe, disegnare sui muri, ritagliare i testi scientifici, trasmettersi il ‘sapere’ tra studenti, ascoltare musica…) sottolineare che non c’è un solo modo di trasmettere il sapere, che la maniera tradizionale di farlo tiene fuori lo studente da quella miniera di informazioni che sono i suoi compagni, a causa della trasmissione unilaterale del professore in classe”.
“Dal punto di vista personale, lo svolgimento del corso è stata per me una vera e propria fonte di riflessione. Il fatto di rovesciare le norme associate all’autorità insegnante, tra- mite l’appropriazione dello spazio (salire sui banchi, mettere gli studenti in cattedra al posto dell’insegnante) mi ha fatto capire che nessuno dei nostri rapporti con gli altri è neutro, come non lo è il nostro rapporto allo spazio. Questo mi ha permesso anche di prendere coscienza del fatto che molte cose che facciamo abitualmente, senza rendercene conto, possono rappresentare una partecipazione passiva a principi in cui non crediamo e che la maniera in cui il sapere è rappresentato e trasmesso non è mai imparziale”.
“Trovo lodevole la sua intenzione di creare una comunità di lavoro attenta, in adeguamento alla nozione di ‘classe trasformatrice’. Sappia che sono d’accordo con lei nel voler creare un ambiente accogliente e rispettoso di tutti. Però non sono d’accordo con lei né sulla scrittura inclusiva, né sulla nozione di ‘privilegio di essere bianco’. […] Per concludere, voglio sottolineare l’interesse per il lavoro dei fumetti. L’avrà capito, molto spesso non sono d’accordo con le sue opinioni”.
“Una lezione senza scarpe, post-it sui muri, esercizi con la musica, altri professori che intervengono, fare un fumetto! La sorpresa di ogni lezione è stata per me motivo di emozione e di interesse”.
“Il processo creativo, per trovare un tema [su cui lavorare] come per risolvere i diversi ‘challenges’ durante il percorso, ci ha permesso di vedere le qualità di ciascuno di noi; eravamo un’Algerina, tre Francesi e io. Abbiamo tutte un nostro modo di pensare, personalità, punti forti e deboli. Dato che è la prima volta che studio in Francia, questo dinamismo e questi scambi con gli altri studenti mi hanno aiutato a capire il loro modo di pensare e di vedere le cose come anche la maniera di farmi capire nel contesto francese”.
#Una specie di conclusione: riflessioni (giù) dalla cattedra
Voix off 6. Collectif, 2016, p. 137: «nous revendiquons la production d’un savoir qui libère, et permet l’émancipation de tou.te.s parce qu’il est le fruit de l’analyse de nos conditions matérielles respectives, de nos trajectoires, de nos histoires sociales et politiques ainsi que des oppressions que l’on a subies ou dont nous avons été témoins».
Parlare di sé in classe assomiglia sempre ad un coming out. Ma sebbene possa fare paura, è una delle poche possibilità che ha l’insegnante di scendere dalla cattedra e di convertire il senso di vulnerabilità in un’interazione parresiastica. Perché quando sei tu ad esporti, quando sei tu a esplicitare i tuoi posizionamenti, le tue scelte minoritarie, qualunque esse siano, questo crea un effetto incantesimo: la diffusione dell’impoteramento di tutte quegli studenti che non si riconoscono nei gruppi maggioritari e non si ritrovano nei discorsi e negli approcci dominanti. Di fatto, dire la verità, non solo ti permette di r-esistere in quel contesto ma di legittimare l’esistenza di tutte le studenti minorizzati per classe, razza, genere, sessualità, religione, norme corporali, difficoltà di apprendimento. Di fronte a un corpo insegnante che appartiene sempre alle categorie dominanti, vedere un corpo insegnante minoritario che si esplicita, a suo agio dietro la cattedra, facilita il proiettarsi.
Queste sono le basi da cui partiamo per provare a rispondere alla proposta decoloniale e co-costruire uno spazio di liberazione e circolazione della parola. Questo non significa cancellare i rapporti di dominazione ma renderli visibili. Infatti esplicitarli, spiegare i meccanismi che li reggono e li riproducono, permette di sfumarli, di rendere meno spesse le pareti del fortino costruito intorno al corpo insegnante e, anche, a volte, di trovare le azioni per sovvertirli. Vincere la reticenza, sviluppare la fiducia passa da un processo di vulnerabilizzazione volontaria che, magicamente, non porta debolezza ma produce potenza.
In questa prospettiva abbiamo pensato la pedagogia Brigata SCRUM.
La brigata SCRUM è un tentativo di aprire un percorso di alleanze (studenti/e-insegnanti) all’interno di uno spazio di oppressione (istituzione universitaria), di coscientizzazione delle persone studenti razzializzate e minorizzate riguardo alla violenza interiorizzata del sistema scolastico, di coscientizzazione dell’insegnante sul rischio di diventare in qualsiasi momento agente di oppressione. Non si tratta di cancellare il potere che l’istituzione ci assegna; piuttosto di visibilizzarlo, di metterlo in discussione, di aprire uno spazio di parola collettivo per capire insieme come usarlo e non agirlo.
È anche un modo per noi insegnanti di sentirci meno sole, una maniera di reagire alla frustrazione che il lavoro nelle istituzioni di insegnamento provoca in molte persone femministe, militanti, impegnate nel cambiamento sociale. È un modo per continuare a pensare collettivamente che un’altra università è possibile. Il nostro lavoro passa anche dal mutualismo, dal sostegno e dalla condivisione dei nostri privilegi.
Portare in aula l’etica della cura, le pratiche militanti, rendere visibili i rapporti di dominazione, cominciando da quelli che si manifestano all’interno della classe, parlare di razza, di genere, di classe sociale, di orientamento sessuale integrando i propri vissuti sono azioni che contribuiscono a contrastare la produzione di soggettività basate sull’idea del successo e della competizione, l’educazione all’assoggettamento e ad hackerare il sistema di riproduzione neoliberale che è insito nell’università oggi.
Il nostro lavoro negli interstizi vuole contribuire a costruire una comunità immaginata di insegnanti militanti per una trasmissione del sapere centrata sull’ipoteramento delle studenti piuttosto che sul potere, sulla cura reciproca piuttosto che sull’autorità.
Per fare ciò, oltre al lavoro in classe, abbiamo cominciato a tradurre le nostre esperienze e riflessioni in conferenze performative e a inserire elementi performativi nelle lezioni. Portare i codici della performance e dell’arte all’interno dei dispositivi universitari classici significa creare dei supporti di trasmissione del sapere che si rivendicano come ibridi e spuri.
Ascoltare in sottofondo la musica, spostare i nostri corpi nello spazio-aula, raccontare i nostri vissuti è una forma di hackeraggio dell’istituzione a partire dall’hacking dei dispositivi che la riproducono. È anche per noi un modo di portare avanti un processo continuo di impoteramento, reagendo alle ingiunzioni a restituire e trasmettere il sapere solo attraverso dispositivi considerati ‘legittimi’. Infine, è per noi anche un modo di sentirci meno sole, di provare ad uscire dalla frustrazione che il lavoro in un’istituzione produce in molte persone femministe, libertarie, militanti, per continuare a sognare collettivamente che un’altra università è possibile (o, in alternativa, che possiamo distruggerla definitivamente…).
Manifesto SCRUM – Sorcières pour un Changement Radical de l’Université Merdique
Da circa quattro anni, siamo un piccolissimo gruppo di insegnanti femministe alla Sorbona di Parigi che cerca di creare e mantenere uno spazio di resistenza e di creazione in un contesto ostile al cambiamento, reazionario, che rivendica il suo conservatorismo. Non siamo sempre le stesse ma ci siamo sempre. Abbiamo imparato a non avere paura di unire personale e professionale, di integrare le nostre emozioni, di mobilitare e condividere i nostri privilegi.
Crediamo che, come insegna bell hooks “Stare ai margini significa fare parte di un tutto ma fuori dall’elemento principale”.
Rivendichiamo il nostro posizionamento negli interstizi. Viviamo la libertà e la creatività dell’abitare il margine. Ci siamo sottratte all’ingiunzione alla pedagogia tradizionale che riproduce i rapporti di dominazione, rivendichiamo una pedagogia antioppressiva, una pedagogia guerrigliera. Non abbiamo più paura di mescolare gli elementi. Ci siamo sottratte alla paura fragilizzante che sviluppa paura. Vogliamo contaminare. Contaminiamo contesti, iniettiamo virus, la performance è compagna di classe, la postpornografia maestra. Rivendichiamo la violenza dell’autodifesa. Ci difendiamo tessendo la tela della cura.
Creiamo spazi di sospensione della norma all’interno degli spazi dell’istituzione.
Ci sottraiamo al senso di vertigine che provoca la consapevolezza dei propri privilegi. Nel privilegio ci entriamo dentro, per imparare a mobilitarlo, ad usarlo, a condividerlo. Perché se non puoi distruggere la casa del padrone con gli strumenti del padrone, glieli puoi tirare in faccia. Stiamo anche imparando ad accettare che la tela può rompersi. Riconfigurarsi senza indebolirsi è una condizione necessaria alla complessità e alla fatica delle relazioni. Impariamo di volta in volta a non lasciarci andare allo sconforto della delusione, della rimessa in questione, della tristezza, e non vogliamo permettere alla disillusione di trasformarsi in cinismo. Ci appelliamo a sbaglieranza per ripensarci. Davanti alla frustrazione e allo sconforto che la violenza dominante porta con sé, noi non abbandoniamo la pista ma rivediamo il percorso.
Note
(1) Il tema di questo articolo nasce come risposta ad una richiesta da parte di un gruppo dell’Università di Rennes di declinare in senso esteso le pratiche hacker nell’insegnamento. Abbiamo scritto un articolo in francese tradotto anche in inglese che sarà pubblicato on line in data non definita. L’articolo che stai per leggere è una traduzione in italiano. Ma siccome tradurre è tradire, in realtà nella traduzione c’è stata riscrittura. Il testo è quindi una traduzione senza originale anche se il tema in generale e la conclusione in particolare riprendono un capitolo contenuto in “Decolonialità e privilegio” (Borghi 2020).
(2) SCRUM è l’acronimo di Sorcières pour un Changement Radical de l’Université Merdique (Streghe per un cambiamento radicale dell’università merdosa)
[3] In accordo con la proposta di Cha Prieur (2015), preferiamo non utilizzare il termine safe space e nemmeno safer, perché questi termini alimentano l’illusione che ci possano essere spazi che possono essere esenti da tutti i meccanismi di potere e dominio che governano le relazioni sociali. Cha Prieur parla di spazi bienveillantes per ridare loro la dimensione di co-costruzione dei luoghi da parte delle persone che ne entrano in contatto. La consapevolezza della dimensione relazionale e temporale degli spazi permette di pensare ai luoghi come risignificati “temporaneamente” dalle persone che li attraversano.
[4] Pendant Durante il movimento di protesta degli studenti nella primavera del 2018, noi insegnanti abbiamo ricevuto numerosi messaggi della direzione e di colleghi che ci invitavano a mantenere una compatezza e solidarizzare con quegli insegnanti che avevano chiamato l’intervento della polizia per reprimere le proteste. Ci veniva chiesto di prendere le distanze dagli studenti e di desolidarizzare per costruire l’immagine di un corpo insegnante compatto qualunque cosa succeda.
[5] In attesa che esca tra qualche settimana la traduzione di femminoska di Teaching to transgress nella collana Culture radicali di Meltemi, abbiamo tradotto noi in italiano da un articolo francese.
[6] Metodo dell’educazione popolare di lettura e appropriazione collettiva dei testi che viene dalla tradizione operaia.
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Rachele Borghi è geografa femminista. È professora di geografia all’Università Sorbona a Parigi. Il suo spazio del quotidiano è l’università quindi per lei è lo spazio privilegiato per micropolitiche di contropotere. Studia il rapporto tra spazio, genere e sessualità a partire da una prospettiva intersezionale e decoloniale. Lavora attualmente sul rapporto tra ricerca e militanza e sulla violenza istituzionale nei processi di produzione/trasmissione del sapere. Ha scritto nella collana “Culture radicali” curata da Ippolita, Decolonialità e privilegio. Pratiche femmniste e critica del sistema-mondo (Meltemi, 2020). Fa parte della brigata SCRUM.
Julie Coumau è dottoranda in geografia all’Università Sorbona a Parigi. Militante antispecista, lavora attualmente sugli spazi di lotta risultato delle alleanze tra persone umane e animalizzate. Dagli spazi di oppressione oggetto dell’azione diretta agli spazi di resistenza come i santuari, studia anche il ruolo delle emozioni in tali spazi e la loro portata politica. Fa parte della brigata SCRUM.
Emilie Viney è professora all’Università Sorbona a Parigi. La pedagogia critica e l’epistemologia femminista decoloniale in geografia sono attualmente i suoi campi di riflessione e di pratiche. Fa parte della brigata SCRUM.