Il testo intende approfondire il concetto di “cura” attraverso un reticolo di immaginari, esperienze autobiografiche, gesti, racconti e teorie per lo più materialiste impegnate ad argomentare un pensiero teso alla complessificazione e alla contraddizione. L’intenzione è quella di far luce su quanto i corpi, le interpretazioni e le pratiche articolano molto spesso processi causali mai del tutto neutrali.
In conclusione, si rapporterà tali riflessioni alle pratiche di grooming degli animali non umani. Il grooming è un comportamento di cura delle superfici del corpo adottato da numerose specie animali che può essere osservato per immaginare nuove forme di r-esistenza, immaginario e cura collettiva.
Quest’anno mia zia ha rovistato tra i cassetti di un mobile d’ordinanza posizionato nel corridoio d’ingresso a casa dei miei nonni, uno di quegli arredi che serve a marginare l’imbarazzo del vuoto di uno spazio non utilizzato e mal pensato, quella categoria di suppellettile in legno patinato con scanalature decorative che intendono far trasalire ricordi di un pensiero estetico, di qualche singhiozzo barocco, ma che in realtà, esattamente come la superficie del legno manierato, non fa altro che rabbrividire una inespressiva vanesia. Dentro questo cassetto dimenticato – come il gusto del mobilio della mia famiglia che di generazione in generazione è passato dalla cosiddetta “arte povera” al sedicente “shabby chic” – è stato trovato un esile e consumato taccuino di cuoio, un umile orologio rotto in ottone e dei referti medici sulla prostata malata del padre di mia zia. Nel frattempo, mia nonna, ama sempre ricordare incidentalmente un detto veneto che recita: “al tempo, ai culi e ai padroni non xe comanda” [1].
Questi tre tipi di oggetti possono essere considerati come episodi di cura, in quanto hanno in sé quelle caratteristiche che riproducono le asimmetrie di potere tipiche del dispositivo etero-capitalistico: il taccuino è l’inventario delle ambizioni e doveri sociali (padroni), l’orologio è la sincronizzazione per l’esperienza pubblica (tempo) e i referti, ovviamente, non sono altro che la fotografia di noi stessз (culi). Come un’amara scoperta archeologica, quindi di per sé insipida e senza rinvenimenti, sulle pagine del taccuino non c’è scritto nulla di particolarmente brillante; dopotutto mio nonno è morto analfabeta non avendo mai avuto la possibilità di studiare e di ri-conoscere la sua natura emotiva. Non ci sono segreti, bensì sono annotati conti, calcoli, addizioni e sottrazioni. Ci sono liste della spesa per l’attività agricola, ci sono debiti e ci sono crediti. Ad un certo punto, però, sulla piccola superficie di un foglio vi è descritta la nascita di mia madre. Un natale inaspettato in mezzo a questa incerta calligrafia. Le poche righe descrivono nel dettaglio bio-tecnico la data, il peso, il sesso prescritto e la cauta gioia di aver avuto una prima figlia. Dalla pagina successiva continuano gli appunti di perdite e guadagni legati all’attività lavorativa.
Trovo che questa immagine sia una profonda metafora della condizione di sopravvivenza contemporanea: quasi ogni essere umano è nato in un primo momento all’interno di uno schema discorsivo sessuale e poi è stato invischiato a condizionati sogni di modernizzazione, calcoli e progresso. L’economista e filosofo Serge Latouche definisce il termine di “sviluppismo” come: «il complesso delle credenze escatologiche [di] una prosperità materiale possibile per tutt[з]» (Latouche, 2005) e in continua crescita. Si tratta di una vera e propria rivoluzione semantica. Pertanto, è da chiedersi: in che modo ci stiamo prendendo cura del nostro sviluppo?
Mio nonno è stato un patriarca morbido nell’esercitare il proprio potere di genere verso gli altri corpi a lui subordinati: nonostante ciò, la vacca, ad esempio, una volta ingravidata a prescindere dal suo fisiologico desiderio, viveva tutta la gestazione legata con una catena al collo. D’altronde tutta la sua esistenza l’avrebbe comunque passata dentro la stalla senza mai camminare sopra un terreno diverso dalla lastra di cemento ricoperta di fieno ed escrementi. Il bovile però aveva una piccola finestra che dava sul campo di soia adiacente; mio nonno, amabile, offriva il desiderio. Durante il travaglio, nonno e zio, allora trentenne, come solerte opera il patriarcato, si prendevano cura dell’intero processo del parto, in quanto l’anatomia dei bovini è stata nei millenni talmente geneticamente selezionata per scopi di produzione di latte e carne da rendere l’animale debole e non autonomo per partorire. Quello che quindi i due uomini si apprestavano a fare non è altro che eredità neolitica. Per dare alla luce il/la cucciolə mio nonno alzava le maniche della sua camicia consumata, tastava la dilatazione della cervice tramite palpazione rettale e infilava letteralmente entrambe le braccia dentro la cavità vaginale della mucca.
Afferrava il piccolo animale dalle zampette anteriori che sbucavano dalla cervice e lo estraeva piano piano fuori. Essendo i fluidi viscosi e densi spesso questo processo risultava goffo e molto invasivo, tant’è che si optava per legare direttamente la zampa del* piccolə con una corda per estrarlo, tirandolo fuori con forza dalla vulva. Come succede a molti mammiferi, durante il parto il corpo espelle escrementi, urina e odori. Sul finire dell’estrazione, l’anatomia del* vitellə scivolava così sullo stesso pavimento in cui avrebbe passato tutta la sua artificiale vita. Seppur sembri un’immagine triviale, questa scena ha un certo ancestrale fascino batailliano.
Allo stesso tempo mio nonno si prese cura della sua specie: permise a sua moglie, infatti, una serie di libertà d’espressione che non erano al tempo così scontate, si assicurò in prima persona che i/le figlз avessero accesso all’istruzione primaria e amministrò le condizioni di vita della sua famiglia secondo politiche di austerità, sfruttamento medio intensivo e animoso indottrinamento cattolico.
Per disquisire in maniera originale sul concetto di “cura” è necessario prendere in esame temporalità plurali e punti di vista equivoci, abbracciando i migliaia di anni che ricamano le gesta dell’esistenza e le infinite possibilità non lineari, in cui autobiografia, storia e desideri parcellizzano un pattern purtroppo mai del tutto senza colpe. «Il progresso è una marcia in avanti, che attira nel suo ritmo altri tipi di tempo. Senza quel battito trainante potremmo accorgerci e osservare altri modelli temporali. Ogni essere vivente ricrea il mondo attraverso impulsi di crescita stagionali, modelli di riproduzione della vita e geografie di espansione. All’interno di una data specie poi, si individuano molteplici piani di composizione del tempo, in cui organismi si inseriscono e si coordinano nel modellare paesaggi» (Tsing, 2021: 49). Il concetto di cura che viene quindi articolato, segue le tracce di tali provvisorietà multiple (tempo), di dispositivi coercitivi e interpretazioni situate (padroni) e di corpi in agonia entusiasta (culi), che attraversano lo spazio senza controllo alla ricerca di modi diversi per descrivere e immaginare il mondo.
Quando ero bambino, come accade sovente agli individui all’inizio della vita, mi affezionai istintivamente a tutti gli animali non umani che venivano allevati in fattoria. La mia specie preferita erano le galline, per il loro piumaggio soffice e caldo, il loro stonato verso, il tremolio dei ramati bargigli e il loro modo buffo di inciampare e zampettare per salire gli scalini del pollaio. Abbracciavo e davo da mangiare con un secchio di latta con applicata una mammella di gomma il/la vitellinə che a fatica riusciva a reggersi in piedi; cercavo di non far spaventare le coniglie quando spiavo le loro cucce piene di soffice pelo bianco per tenere al caldo la prole appena nata; rimanevo incantato a vedere le rondini nel cortile all’inizio della primavera e, allo stesso tempo, ero molto affascinato dalle danze e le pratiche di accoppiamento dei colombi. Se da un lato la vicinanza di altri animali ti permette di costruire una prospettiva olistica sulla vita, dall’altro però, vivere in fattoria ti insegna a imparare a separare le cose. È un sistematico esercizio antropocentrico la vita rurale.
Queste specie sono vive, infatti, fino a quando non servono: se stanno ancora respirando rappresentano una spesa, mentre il guadagno della loro vita lo si lucra principalmente alla loro morte. Il legame che provi per tutti questi esseri senzienti, quindi, è aspramente svantaggioso. La stessa gallina che accarezzavo veniva presa da mia nonna, mentre lottava agitando le ali e urlando con tutta la sua voce, sbattuta con forza per terra a petto in giù, trattenuta, compressa e resa inerme come accade in uno stupro. Dopo di che le si schiacciava sul retro del collo il bastone della scopa. La morte era principalmente per asfissia. Questa modalità era seriale: ogni gallina sarebbe morta in quel modo e nessuna di loro sarebbe deceduta per morte naturale. Per essere precisi neanche le loro nascite erano naturali. Il problema, infatti, non è la macellazione di per sé che, tra l’altro, è regolamentata secondo standard specisti che si modificano nelle epoche per rientrare all’interno della vile burocratizzazione del “benessere animale”, ma la sua stessa ripetitività e riproducibilità ciclica.
Già il filosofo Karl Marx, nel Libro Primo (1867) de Il Capitale, aveva inquadrato l’animale domestico come un mero «mezzo di lavoro» (Marx, 2019: 148) ed effettivamente quello che insegna la fattoria è che tutte le specie viventi nel suo cortile sono inserite dentro un crono-programma esistenziale che non riguarda solo gli animali (umani e non), ma anche frutta e verdura. Si ha cura di pre-vedere, infatti, lo sviluppo della vita e della morte in maniera metodica: questa sua stessa circolarità dà l’impressione di seguire il corso naturale degli eventi, l’armonia ecologica ed esistenziale di ogni individuo senziente. Marx scriveva: «Animali e piante che generalmente riteniamo come prodotti naturali, non solo sono prodotto del lavoro, forse di quello dell’anno prima, ma, nella loro attuale forma, sono anche prodotti di trasformazione prodottasi per parecchie generazioni sotto il controllo [dell’umanità] e tramite il suo lavoro. E per quanto concerne specificamente i mezzi di lavoro una grande maggioranza di essi mostra, pure all’occhio più superficiale, segni di lavoro passato» (Marx, 2019: 149). Tale esimio passaggio ha qualcosa di molto prezioso e lo si può rintracciare in questo spettro temporale esteso e nell’orizzonte amplificato in cui i corpi non sono altro che l’eredità plastica di condotte estrattive basate sullo sfruttamento – o “cura” – da migliaia di anni e generazioni. Sempre Marx afferma categoricamente: «Quindi qualora i lavori presenti siano non solo risultati, ma pure condizioni d’esistenza del processo lavorativo, l’unico mezzo per conservare questi prodotti di lavoro passato e per realizzarli come valore d’uso è immetterli in quel processo, di conseguenza è il loro contatto con il vivo lavoro» (Marx, 2019: 150). Associare la parola “vita” al lavoro rende tutte le esistenze forme fabbricate e automatizzate per un progetto ricorsivo destinato a ripetersi: marketing sostanzialmente. Il capitalismo è dunque un ridondante rituale d’addio.
Si deve necessariamente analizzare il concetto di “cura” nel suo teatro di ammanicamenti con le maschere dello “sviluppo”, del “progresso” e del lavoro. Sono spiacevoli interconnessioni, ma d’altronde anche il benessere è un seducente equivoco: «L’abbondanza», dopotutto, «crea una superiorità solo dal punto di vista del bisogno; l’avere troppo e l’avere abbastanza in pratica si equivalgono» (de Beauvoir, 1999: 72). Mi viene spesso in mente la domanda retorica che pone il filosofo Luciano Parinetto in un discorso filo-marxista sulla corporeità e quindi anche sulle emozioni, una di quelle domande che rievoco come rifugio o come forma di difesa al dispositivo biopolitico che condiziona la sopravvivenza, un quesito sintetico, insoluto, e sempre puntale: «Essere felici, in simili società, non è il massimo segno dell’alienazione?» (Parinetto, 2015: 54).
La “cura” di cui disquisisco non è la ricerca di una serenità posticcia, ma è ciò che tenta di denunciare la sua immancabile doppia presenza. Come afferma la sociologa e politica Laura Balbo nel 1978, si tratta di un modello reso «ragionevolmente funzionante» (Balbo, 1978: 3) chiamato a svolgere determinate funzioni «specialistiche» (Balbo, 1978: 3) e prestazioni rituali asimmetriche su corpi marcati dal genere, dalla specie, dalla razza e dalla classe. Questo è il motivo per cui la cura è un concetto ambiguo, in quanto da un lato è un interessamento solerte d’animo verso l’esterno, dall’altro, all’interno di sistemi di dominio, ha la sinistra ambivalenza di rendere le vite «sovraccaricate, nevrotizzate, e “privatizzate”» e «comporta, perché la formula funzioni, assenza piena da tutto ciò che è altro da questo doppio lavoro, da ogni altro ambito di interesse e impegno» (Balbo, 1978: 60).
Crescere in un contesto agricolo moderno ti permette di osservare vis-à-vis questi elementari meccanismi di fabbricazione di realtà, progresso, “vita” e l’articolazione ibrida tra forme di sfruttamento e modalità di “cura”. Raccogliere per ore patate e pomodori sotto il sole tempra una forte militanza anticapitalista e, contemporaneamente, ti dà l’occasione di empatizzare con altri corpi senzienti e relazionarti con la storia di milioni di esseri viventi piegati dalla fatica e dalla morte che, come te in quel momento, hanno seminato il perverso rituale performativo e discorsivo dello sviluppo specista. L’umanità si è per millenni illusa che il contatto che ha creato con il pianeta sia la formula migliore per l’evoluzione [2] della sua stessa specie. Si tratta di una ottusa versione di prendersi cura dei propri e soli bisogni, ma che in realtà altro non è che una sofisticata prassi per rafforzare le fondamenta strutturali del capitalismo. Sagace, Marx ci ricorda che: «La terra non è solo il suo originario magazzino [dell’umanità], ma anche il suo originario arsenale di mezzi di lavoro» (Marx, 2019: 147) che respirino o meno. A questo discorso si legano perfettamente le illuminanti riflessioni dell’antropologa Anna L. Tsing: «In queste condizioni, i[/le] lavoratori [e lavoratrici] divennero a tutti gli effetti unità autonome e intercambiabili. Già considerat[з] come prodotto, furono loro assegnati lavori resi intercambiabili dalla regolarità e dai tempi coordinati della produzione. […] È da questi esperimenti della storia che emerse l’intercambiabilità relativa a un progetto che impiega manodopera umana [animali] e piante come materie prime» (Tsing, 2021: 73), e aggiunge: «Le loro componenti contingenti – coltivazioni clonate, lavoro coercitivo, terreni conquistati e quindi liberi – mostrarono come l’alienazione, l’intercambiabilità e l’espansione potevano condurre a profitti prima inimmaginabili. Questa formula modellò i sogni che siamo giunti a chiamare progresso e modernità» (Ivi: 74). Forse, è giunta l’ora di curarci.
La “cura”, data quindi la sua percezione ambigua, non solo ha un legame con la ri-produzione di servizi ma anche con l’opacità. Un’importante questione da sottolineare è che nel capitalismo solo il lavoro che viene legittimato socialmente (principalmente l’attività retribuita e fuori casa), costituisce una traiettoria obbligata attraverso cui gli individui possono raggiungere la pienezza della propria “umanità”. Il lavoro, infatti, rende la realtà sessuata, costruisce sistemi di subordinazione, forme di sfruttamento sia fisico che psicologico e, in particolare, sagoma le nostre capacità creative e immaginative per abitare il tempo, i nostri corpi e le relazioni intersoggettive, e in cambio dà legittimità, addirittura senso alle nostre vite. La filosofa Silvia Federici e le riflessioni sul Domestic Labour Debate [3] del Collettivo Internazionale Femminista (Padova 1972), fino alle successive teorie materialiste post-strutturaliste contemporanee, analizzano il tema nella sua connaturata propensione a coltivare multiple forme di disuguaglianza.
«L’accumulazione originaria non è stata quindi semplicemente un’accumulazione e concentrazione di forza-lavoro capitale. È stata anche un’accumulazione di differenze e di divisioni nella classe lavoratrice, così che gerarchie basate sul genere, come anche sulla “razza” e l’età, sono diventate un elemento costitutivo del dominio di classe e della formazione del proletariato moderno. […] il capitalismo ha creato forme di schiavitù ancor più brutali e insidiose, in quanto ha inciso nel corpo del proletariato [e proletaria] profonde divisioni sociali che sono servite a intensificare e nascondere il suo sfruttamento. Si deve in gran parte a queste divisioni […] se l’accumulazione capitalistica continua a devastare la vita in ogni angolo del pianeta» (Federici, 2015). Sull’argomento si sono sviluppate brillanti teorie e profonde critiche volte a decostruire la postura del dispositivo occidentale etero-capitalista. In tale cornice teorica di riferimento, si evidenzia in breve quanto l’economia della “cura” diventi un esercizio gratuito, subalterno e spesso discorsivamente inserito in forme naturalizzate che creano veri e propri ricatti emotivi e fisici. Tra i principali si rimarca la retorica che vede la cura come un’inclinazione femminilizzata, predestinata allo scambio non mutuale e resa un’ideologia privata e non emancipatoria. D’altronde il senso critico non si distribuisce mai sul mercato.
Tutto ciò che tendenzialmente è interpretato come naturale è sostanzialmente tutto ciò che materialmente è gratuito, ma in realtà non c’è nulla di scontato nell’assegnazione di “cura” all’interno del dispositivo capitalistico, in quanto non è altro che un mezzo ideologico dell’economia di mercato conveniente a invisibilizzare e precarizzare una determinata forza lavoro marcata. Un altro fattore da considerare per avere cura di questa modellazione dei corpi e dei desideri è il carattere profondamente legato alla rappresentazione. Infatti il lavoro non solo disciplina le membra, ma ha anche una sovranità di validazione nell’immaginario: su come, dove e cosa un individuo può fare, agire e stare. Il lavoro, quindi, non solo è un’ontologia capitalistica ma è anche un’escatologia antropocenica nella quale vere e proprie forme di immaginario sono fabbricate semioticamente come fenomeni di significazione.
Pertanto, si conclude che nel capitalismo il lavoro diventa “vivo”, il tempo acquista il “tempo libero”, l’immaginazione si fa corrotta e la cura guadagna “gratuità”. Come è possibile, quindi, decostruire l’immaginario dell’economia della “cura” in cui siamo immersз tramite la narrativa che articola i nostri stessi bisogni indotti? Una delle risposte possibili è senz’altro il grooming.
Procediamo con ordine: ciò che viene invisibilizzato nella cura non è solo il suo esercizio, tempo e sfruttamento, infatti non viene mai davvero considerato il dato che la cura è anche un prodotto emotivo. Mia nonna, grazie al latte prodotto dalla stessa vacca che era stata prima legata, ingravidata e sfruttata, produceva il burro in casa con il quale condiva la mia pasta preferita quando ritornavo da scuola sfinito. Essendo i miei genitori biologici proletari, solo mia nonna era disponibile a prendersi l’incarico di salvaguardare i miei bisogni primari durante il giorno. Questo gesto di cura, seppur esercitato all’interno di una matassa di sfruttamento dei corpi ben precisa, ha un valore profondamente politico. La cura, infatti, crea rettilinei di memorie condivise di cui ognunз di noi non solo ha bisogno, ma è anche profondamente condizionatз. Gran parte delle relazioni interpersonali è influenzata dall’impatto mnemonico che certe pratiche e rapporti hanno avuto nella nostra esistenza individuale. La pasta al burro di mia nonna, ad esempio, non può essere riprodotta meccanicamente in nessun modo poiché non è un pasto standardizzabile, è piuttosto un circuito integrato di intenzioni, stimoli sensoriali, ricordi e immagini. Dunque, la pasta al burro è un incontrovertibile fenomeno estetico. Sempre.
Elevando decisamente i riferimenti, consiglio di leggere le bellissime pagine del capitolo “Casa: un sito di resistenza” del saggio Elogio al margine. Scrivere al buio [Tamu 2020] della filosofa bell hooks. Non ho spazio né diritto qui per affrontare la critica sulla dominazione sessista e razzista che ha delegato le madri nere all’interno del focolare domestico durante il XIX-XX secolo. Mi interessa, tuttavia, mettere in luce un passaggio che l’autrice compie nel prendere in considerazione la biografia dell’abolizionista Frederick Douglass. Il politico racconta che nella sua infanzia ha potuto incontrare sua madre solo cinque volte prima che fosse uccisa dai suoi proprietari. La donna era schiava per una famiglia di ricchi bianchi e doveva compiere circa dodici miglia di notte per poter tenere in braccio suo figlio prima di iniziare a lavorare il giorno seguente. Un incredibile sforzo per una manciata di ore, l’epica commovente sul combattere le ostruzioni di dominio che assoggettano i corpi e i destini. Tale atto metteva a rischio la loro reciproca incolumità, ma ciò non fermava la donna dal poter fare addormentare suo figlio tra le sue braccia. hooks analizza l’episodio denunciando la superficialità di Douglass, il quale minimizza lo stesso «non registrando neppure la qualità della dedizione che faceva sì che la madre percorresse quelle dodici miglia per tenerlo tra le braccia. Nel pieno di un brutale sistema razzista […], il valore che ella dava alla vita del figlio era tale da permetterle di resistere a tutto, di recarsi da lui nel cuore della notte, solo per stringerlo» (hooks, 2020: 34). Questo toccante episodio è una profonda metafora di cura, tant’è che fu proprio l’eroismo emotivo della madre «a dare alla sua nascita [di Douglass] un valore che dotò di fondamenta, anche se fragili, l’adulto che egli sarebbe diventato più tardi» (Ibid).
Frederick Douglass è universalmente riconosciuto per il suo attivismo che l’ha reso un brillante politico e riformatore dedito alla lotta per l’uguaglianza dei diritti umani. D’altro canto però, quello che acutamente hooks non vuole far dimenticare è che la statura di Douglass è anche il frutto della cura: quel contatto in cui la madre gli ha trasmesso la sua tenacia politica, la sua attenzione, la sua sovversione e la sua dolcezza.
Per dare la possibilità di controvertire e ri-immaginare originali traiettorie epistemiche sulla cura è necessario far germinare nuovi modelli interpretativi e creativi. Si è visto come la cura possa essere una frammentata e premurosa epifania estetica. In altri termini, è pur vero che la cura è senza un regolare contratto ma è altresì prospera di desiderante contatto. L’invito ora è quello di comprenderla non solo nella sua qualità di scambio, ma anche nella sua anima emotiva, nel suo valore estetico e nella sua forza epidermica. Da inguaribile evoluzionista il mio criterio di immaginare alternative plausibili si definisce attraverso metodologie comparative; galvanizzante è la decostruzione attuata dal filosofo Timothy Morton nel percorrere un nuovo orizzonte epistemologico per poter comprendere la realtà.
Per l’autore è necessario: «abbandonare l’idea che il pensiero (umano) sia la modalità di accesso preferenziale al mondo e accettare l’idea che azioni come spazzolare, leccare, o irradiare siano modalità d’accesso altrettanto valide o non valide quanto lo è l’atto di pensare» (Morton, 2022: 22). Osservando le altre specie compagne, in particolare i/le primati, è possibile ammirare un comportamento di specie di rilevante ubiquità. Il grooming, in etologia, è il comportamento di cura delle superfici del corpo esercitato da molte specie animali; è a tutti gli effetti un adattamento evolutivo che rafforza i legami sociali senza discriminazione di genere, età e gerarchia [allogrooming]. Parallelamente in filosofia, percorrendo differenti traiettorie dialettiche, Jean-Luc Nancy lo definisce “con-tatto” (Nancy, 2020) in cui il “con” del con-tatto è lo stesso della con-divisione: «Il tatto è, però, soprattutto un’esperienza di apprendimento e d’orientamento vitale per il nostro stare-al-mondo; per di più esso presenta delle peculiarità rispetto agli altri sensi in quanto produce quella che si definisce percezione aptica, ovvero un processo di apprensione e riconoscimento tattile degli oggetti che è il risultato della combinazione tra l’esperienza epidermica della tastazione delle cose intorno a noi e la propriocezione generata dal posizionamento del corpo rispetto a ciascun oggetto tangibile. Questa riflessività tattile, che deriva dal toccare come esperienza concreta di autoaffezione, rende questo registro della sensibilità unico e speciale rispetto agli altri» (Recchia Luciani, 2022: 125-126).
Attraverso il grooming le scimmie puliscono se stesse, osservano il proprio corpo e quello dell’altrə, tolgono insetti, parassiti, sporcizia e pelle morta. È una forma di cura dai benefici diretti che struttura legami sociali che servono a mantenere alleanze e costruire comunità solidali, si riconciliano i conflitti o ci si scambiano favori sessuali o cibo.
Perciò, seguendo l’invito di Morton e le conclusioni di Nancy, dovremmo provare a immaginare di nuovo la cura attraverso una sensibilità e sensorialità non necessariamente razionale. Quando le scimmie si toccano agiscono per fare esperienza di apprendimento indispensabile alla loro sopravvivenza. Il grooming è un adattamento che definisce un vero e proprio criterio di stare al mondo, in uno spazio sia fisico che mnemonico, in cui i corpi entrano in con-tatto: si toccano, si sfiorano, si spulciano, si accarezzano e si penetrano. Quello che tali linguaggi animali ci rivelano è che si può sopravvivere attraverso comportamenti di cura che compongono una comunità inoperosa, che non ha né proprietà e né lavoro, ma che tende verso una sensibilità estetica.
A questo punto è legittimo chiedersi quale sia l’applicabilità di questa prospettiva, come renderla esercitabile e riproducibile per i nostri bisogni. Per rispondere a questo interrogativo, dobbiamo partire dal presupposto che noi umani non dobbiamo sempre emulare, impossessarci di altri modelli di vita senziente per completare e arricchire la nostra. Come afferma il primatologo Hans Kummer: «Ciò che fanno gli animali non serve per capire quello che gli esseri umani dovrebbero fare» (Kummer, 1995: XVIII); di fatto questa sarebbe un’ulteriore richiesta estrattiva: è finito il tempo in cui ci sentiamo sempre in diritto di appropriarci di culture umane e non umane altre da noi. La risposta, invece, va cercata in una vera e propria costruzione di pratiche di cura specificamente umane ancora da immaginare. Queste pratiche si traducono nell’accarezzare le nostre memorie, pretendere il loro riconoscimento, renderle condivisibili e attuare forme di protezione. Tuteliamo le cure ricevute e diffondiamole nei corpi accanto a noi.
Proprio nell’immaginario compartecipato, in sintesi, si configura e si crea quello specifico spazio nel quale è possibile con-tastare la nostra umanità, articolando sistemi di cura che delineano la nostra estetica sociale. La cura umana potrebbe essere in questa accezione una pratica di grooming dell’immaginario in cui le nostre esperienze si trasformano in un fregio rizomatico di estetiche da con-tatto.
Note
[1] Trad. mia: “sul tempo, sulla salute e sul lavoro non si può avere controllo”.
[2] Il termine “evoluzione” è stato utilizzato in maniera volutamente impropria per rimarcare la concezione illusoria di sviluppo materialistico della specie che viene spesso naturalizzato e associato a dinamiche confacenti alle pressioni bioculturali evoluzionistiche.
[3] Per un approfondimento si veda: M. Dalla Costa, Donne e sovversione sociale. Un metodo per il futuro (1974), ombre corte, Verona 2021; L. Fortunati, L’arcano della riproduzione. Casalinghe, prostitute, operai e capitale, Marsilio, Venezia 1981. Per una ricognizione storica: A. Feng, Revisting the Domestic Labor Debate: Toward a Critique of Workerist Feminism, CUNY Academic of New York, settembre 2015, LINK.
Bibliografia
Balbo L., La doppia presenza (1978), in “INCHIESTA”. Supplemento economico, nuova serie, n. 1, Edizioni Dedalo, Bari, maggio-giugno 1978.
de Beauvoir S., Il secondo sesso (1949), R. Cantini e M. Andreose [trad. it.], Il Saggiatore, Milano, 1999.
Federici S., Calibano e la strega. Le donne, il corpo e l’accumulazione originaria (2004), Mimesis, Milano-Udine, 2015.
hooks b., Elogio al margine. Scrivere al buio (1991-1994), M. Nadotti [t. it.], Tamu, Napoli, 2020.
Kummer H., In Quest of the Sacred Baboon: A Scientist’s Journey, Princeton University Press, Princeton, 1995.
Latouche S., Come sopravvivere allo sviluppo. Dalla decolonizzazione dell’immaginario economico alla costruzione di una società alternativa (2004), F. Grillenzoni [t. it.], Bollati Boringhieri, Torino, 2005.
Morton T., Humankind. Solidarietà ai non umani (2019), V. Santarcangelo [t. it.], NERO, Roma, 2022.
Nancy JL., Corpus (1992), A. Moscati [a cura di], Cronopio, Napoli, 2020.
Parinetto L., Corpo e rivoluzione in Marx. Morte diavolo analità, Mimesis, Milano-Udine, 2015.
Recchia Luciani F. R., Jean-Luc Nancy. Il corpo pensato, Feltrinelli, Milano, 2022.
Tsing A. L., Il fungo alla fine del mondo. La possibilità di vivere nelle rovine del capitalismo (2015), G. Tonoli [t. it.], Keller editore, Rovereto, 2021.
de Wall F., Diversi. La questione di genere viste con gli occhi di un primatologo (2022), Raffaello Cortina Editori, Milano, 2022.
Fabio Ranzolin è interessato di queer studies, visual cultures ed estetica evoluzionistica. Ha studiato all’Accademia di Belle Arti e allo IUAV di Venezia, ha approfondito poi gli studi di Teoria di Genere e Psicologia Evoluzionistica all’Università di Padova e nel 2023 ha conseguito la laurea magistrale in Visual Cultures e Pratiche Curatoriali all’Accademia di Brera di Milano.