POPOLGIOST, Movimenti di un Rito[1] scaturisce dalla necessità di entrare in una forma di cura con l’altra/o utilizzando le molteplici esperienze vissute nello scambio con l’artista. Con i mezzi a disposizione e a seconda del contesto, la ricerca ci ha condotte alla scoperta delle radici e dell’identità delle comunità attraverso la cura e la condivisione.
Il titolo (Popolgiost significa popolo giusto) prende spunto dalla storia di via Roma, un quartiere popolare e resistente di Reggio Emilia, con una forte componente aggregativa, così povero che invocava la neve per poter lavorare ripulendo le strade: da qui la celebre frase scritta sui muri “Il popolo giusto vuole la neve”. Ancora oggi via Roma è un quartiere popolare con una forte identità multietnica e culturalmente viva, una piccola città nella città.
Questa “chiamata all’arte” ha innescato l’interesse della comunità nei confronti della propria struttura identitaria e dei mezzi per esprimerla.
Il processo ha coinvolto gli abitanti di ogni genere ed età e ha avuto come protagoniste le classi del primo anno del liceo artistico Chierici di Reggio Emilia che, con più di mille student*, rappresenta un grande potenziale umano e culturale per la regione ma soprattutto per il quartiere che lo ospita.
Abbiamo messo in comunicazione i corpi fisici con lo spazio scolastico e urbano di via Roma, i suoi abitanti e i negozianti, per realizzare un’azione che racchiudesse l’esperienza del “movimento attraverso”, in cammino per le strade, fino alla porta, elemento architettonico simbolo della città, uno dei monumenti più antichi della città e centro nevralgico del quartiere.
La situazione pandemica ha rallentato la realizzazione del progetto e gli incontri con le classi sono iniziati online; con la curatrice Maria Rosa Sossai, abbiamo condiviso una riflessione sull’idea di studio, partendo dalla definizione di studio come azione sociale, data dagli autori del saggio Undercommons, pianificazione fuggitiva e studio nero per i quali l’attività di studio è già in atto in maniera clandestina, prima e dopo la lezione, spesso nei luoghi non istituzionali.
Abbiamo chiesto alle classi di scegliere una parola e di tradurla in azione. Le parole agite, attraverso i movimenti e le voci dei corpi, hanno espresso le necessità emotive di adolescenti nell’attuale situazione di emergenza, cambiando il rapporto con lo spazio scolastico e gli arredi.
Come si crea comunità anche quando sembra impossibile poterlo fare? Come si dialoga intersecando i corpi negli spazi chiusi e negli spazi urbani?
Ecco alcune delle domande che ci siamo poste dopo aver lavorato al chiuso, prima di trasferire l’azione all’esterno, allargando l’esperienza all’altro/a e portando un messaggio comune e itinerante lungo la via Roma sino alla porta, simbolo dello scambio e del passaggio.
Le parole scaturite durante gli incontri, insieme a molte altre riflessioni, sono state scritte su cartelli appesi lungo uno spago distanziatore durante la parata che ha attraversato il quartiere. Volevamo in questo modo colmare il vuoto generato dalla pandemia, con le parole e altri elementi tessili colorati, come le bandierine e gli oggetti dialoganti, fili dalla doppia funzione.
Mentre realizzavamo il filo, riflettevamo sul concetto di maschera che cela ma al tempo stesso evidenzia un aspetto estetico ancora sconosciuto, traveste, fa cadere la struttura estetica che indossiamo nella vita ordinaria.
Il rituale ha posto l’attenzione su ciò che possono diventare, o forse già sono, le radici e l’identità. Partendo da un’esperienza per le prime classi del liceo totalmente nuova e inaspettata, la parata nel quartiere ha permesso loro di conoscersi per la prima volta e di vivere momenti di attenzione reciproca, di comprendere il valore e il potere dell’azione collettiva, in relazione con lo spazio urbano. Acquisire sicurezza attraverso la conoscenza del proprio territorio, la storia, le persone, la ritualità di un attraversamento, i momenti della preparazione, i conflitti, le paure, per arrivare infine alla conoscenza di sé.
Abbiamo raccolto alcuni estratti di tante testimonianze degli studenti e delle studentesse, dai quali emerge un Popolgiost che ha bisogno di essere ascoltato, perché portatore di nuove speranze, gioie appena scoperte ma anche di blocchi e paure, in un’infinita delicatezza di sentimenti che abbiamo urgenza di condividere e conoscere.
Laura Cionci
Azione Finale. Popolgiost movimenti di un rito
L’educazione dei corpi nello spazio educativo istituzionale
Il corpo è il risultato di una pluralità di variabili, come il colore della pelle, la latitudine geografica, il sesso, il genere di appartenenza, il background sociale e culturale in cui si è cresciut*. E tutto questo, in modi ogni volta diversi, diventa lo spazio di sperimentazione all’interno del quale si definisce il corpo nella sua specificità. Per questo il termine corpo è da intendersi non in senso astratto ma nella sua accezione reale.
Nel progetto dell’artista Laura Cionci con le classi 1°A e 1°B del liceo artistico statale “Gaetano Chierici” di Reggio Emilia, il corpo è stato senza dubbio il luogo delle possibilità esperienziali per eccellenza, in linea con quanto è avvenuto anche nella ricerca artistica che ha lavorato con il corpo sin dai tempi delle avanguardie e continua a farlo.
Le azioni svolte in classe hanno dimostrato che parliamo e pensiamo a partire dal nostro corpo e al tempo stesso abbiamo bisogno di trascendere la realtà nella quale ci troviamo, per poterla pensare, immaginare, ricreare. Ecco la funzione dell’arte, sin dai tempi dei graffiti sulle pareti delle grotte. Non si può parlare al posto del corpo degli altri, così come i ragazzi non possono parlare al posto delle ragazze, gli occidentali non possono farlo al posto delle persone provenienti da altri continenti e culture, dal momento che il nostro immaginario si è costruito non solo grazie alle esperienze vissute ma anche attraverso quello che la società ha edificato su di noi e attorno a noi.
Nella prima parte del progetto è stato chiesto alle classi di immaginare una diversa posizione dei corpi nella classe, in una relazione consapevole ed empatica con la parola da loro scelta.
Le composizioni dei corpi sulle sedie e sui banchi sono diventate sculture che, di colpo, mettevano in scena il conflitto presente nella trasmissione della conoscenza quando è condizionata, come afferma Donna Haraway nel suo saggio Situated Knowledges: The Science Question in Feminism and the Privilege of Partial Perspective (1988), in quanto incorpora la posizione sociale e i vantaggi contestuali di colui che la detiene. Contro un sapere apparentemente neutro, la studiosa sviluppa l’idea di un sapere incarnato che attinge a una descrizione dell’occhio e della visione, in senso reale e metaforico. Non esiste quindi l’osservazione incondizionata, sostiene la studiosa, perché ogni “acquisizione di conoscenza” avviene all’interno di “un apparato dinamico di produzione corporea”.
Quando la seconda parte del progetto è continuata lungo la via Roma, includendo la comunità che lì vive, i corpi, le maschere sceniche, i segni del distanziamento e tutti i dispositivi di protezione individuale sono diventati simboli liberatori che hanno permesso alle studentesse e agli studenti di vivere con gioia un’esperienza di condivisione insieme alla gente del quartiere. In questo modo la mascherina è diventata una maschera, il distanziamento si è trasformato in fili colorati che collegano.
I rimandi all’arte contemporanea, basti citare il caso della performance Legarsi alla montagna (1981) di Maria Lai, sono la premessa indispensabile per suggellare il ricongiungimento con il corpo sociale della comunità di appartenenza, preservando il valore unico e prezioso della propria soggettività.
Maria Rosa Sossai
VETRO
Abbiamo scelto questa parola perché è come se tra la scuola (noi) e il mondo reale ci fosse un vetro, perché la scuola cerca di insegnarci come si vive nel mondo reale però non riesce a spiegarci veramente come funziona, quindi con questa azione vogliamo rompere la barriera. Un giorno comunque dovremmo finire la scuola e dovremmo imparare a stare fuori dall’ambiente scolastico.
CAOS
La parola che noi abbiamo scelto è Caos, e abbiamo voluto figurarla mettendo dei banchi e delle sedie a caso, spostati da come sono normalmente, rovesciati o messi di lato, insomma abbiamo voluto creare della confusione.
Però l’azione fatta da Veronika alla fine ha contato forse più di tutto il resto, cioè buttare il libro per terra.
Perchè normalmente è una cosa che non si dovrebbe fare, i libri devono essere tenuti bene, non bisogna trattarli male, strapparli, figuriamoci lanciarli per terra. E invece attraverso quell’azione abbiamo sconvolto tutto, abbiamo creato confusione, Caos.
CONFRONTO
“Possibilità di paragone, esporre se stessi e altri alla forza e al rigore del ragionamento, per poi indicare una superiorità indiscutibile o avere pari merito”.
Con la parola “confronto” si intende un paragone che bisogna affrontare quasi sempre nella vita, imparare a scegliere senza paura di farsi condizionare da altre persone, imparare a ragionare correttamente.
CLASSE SOCIALE
Il mio gruppo ha rappresentato il modo in cui vengono classificate le persone ancora oggi. Abbiamo costruito una sorta di piramide:
– in alto seduti su una sedia sopra il banco si trovano gli uomini, nel nostro caso rappresentati da Cristian. Hanno più diritti delle donne, ad esempio economicamente.
– sopra il banco ci siamo posizionate io e Katia, come donne che hanno meno privilegi degli uomini,
– infine in basso, per terra, Federico che rappresenta gli immigrati, i gay o le lesbiche, che vengono discriminati solo per quello che sono. Non dobbiamo avere paura di essere quello che siamo.
LIBERTÀ
La libertà noi la intendiamo come qualcosa che può andare anche oltre la soglia, dando un pensiero di felicità e di libertà.
La sua mancanza potrebbe anche portare all’oppressione delle persone che comunque mantengono sempre un passaggio nascosto per liberarsi.
IL BRADIPO
Abbiamo scelto la parola “Bradipo” perché nel nostro immaginario il bradipo è un animale stanco, lento e svogliato. Questo animale ricorda la situazione che stiamo vivendo. Siamo tutti stanchi e vorremmo trovare qualcosa che ci dia di nuovo la voglia di uscire, di divertirci e di essere, dopo quasi un anno e mezzo, di nuovo liberi.
Siamo fortemente convinti che il bradipo esprima alla lettera tutto quello che abbiamo vissuto in questi due ultimi anni.
PODIO
Io e il mio gruppo abbiamo scelto la parola “Podio”; con questa parola volevamo rappresentare il modo in cui la società, ma anche la scuola in generale, ci insegnano che solo persone che ottengono certi risultati vanno avanti e fanno qualcosa di importante nella vita. Se non si riesce ad arrivare a questi risultati verremo considerati un fallimento.
TRAVEL (VIAGGIO)
Ci è stato chiesto di inventare il nostro spazio, di capovolgerlo, di farne qualcosa di nuovo. Abbiamo deciso di prendere una cartina, abbiamo posizionato delle puntine e dei libri/quaderni sui luoghi che più ci ispirano e che vorremmo visitare. La nostra parola guida è “Travel” (viaggio), ci dà la possibilità di uscire da un ambiente chiuso e limitato come la nostra aula e ampliare la nostra immaginazione viaggiando con la mente in qualsiasi luogo del mondo. Soprattutto in questo periodo siamo costretti a passare la maggior parte del tempo chiusi in casa, senza avere la possibilità di uscire fuori dai nostri ambienti quotidiani, come la scuola.
La generazione che ha vissuto e sta vivendo la pandemia si è scoperta addosso una gran voglia di scuola. Sarebbe il caso di chiedersi di quale scuola si tratti, di quale progetto. Non è solo una questione di spazi, e spesso facciamo fatica ad accorgercene: la logica un po’ manichea del dentro e del fuori ci imprigiona in un’aporia e non è sempre chiaro in che cosa consista la posta in gioco. L’assetto organizzativo ci mette il carico, privilegiando la separazione dei saperi più che la loro interdipendenza.
Per che cosa siamo qui? Crediamo ancora che come scriveva Gramsci nei Quaderni «lo studio o la parte maggiore dello studio deve essere (o apparire ai discenti) disinteressato, non avere cioè scopi pratici immediati»?
Pensare con Laura Cionci a un’azione pubblica collettiva è stato un modo per cominciare – o ricominciare – a porci e a porre queste domande.
È stato necessario per prima cosa cercare le parole. Osservarle bene, spenderci del tempo, smontarle e ricostruirle mentre lo spazio classe veniva smontato e ricostruito. Traghettare le parole e i testi da una dimensione statica a una dimensione reticolare, in via di costituzione e costruzione. Decidere cosa fare delle parole, se scegliere un genere o non sceglierlo affatto.
Poi è arrivato il momento di mettersi in gioco in un’identità differente ma non meno propria. E di trovare un posto, uno spazio separato e intrecciato a quello altrui. Chi avrebbe voluto una guida puntuale e sicura, chi più “contenuti” o una maggiore organizzazione, chi è stato felice di fluttuare nella possibilità.
L’informale si è rivelato problematico almeno quanto la formalità, sottrarsi alla norma è apparso faticoso almeno quanto soggiacerle. Non male come punto di partenza per un “approccio indisciplinato” a un sapere frammentato da mettere in discussione e comporre di volta in volta in forme plurali e differenti.
Silvia La Ferrara
Riflessioni finali
Sofia
“Durante la performance mi sono divertita molto insieme ai miei compagni e mi è interessato molto tutto il lavoro, anche se il primo incontro con l’artista l’ho trovato un po’ spiazzante, perché era una cosa nuova e caratterialmente le cose nuove spesso le giudico in modo sbagliato, però alla fine mi portano a riflettere e mi divertono. Ho trovato il messaggio che volevo trasmettere solo durante la manifestazione, ovvero che la donna può uscire di casa vestita come vuole, senza essere insultata o presa di mira. Il tema mi è molto caro, perché è stato vissuto in maniera diretta da una mia conoscente”.
Sara
“Devo dire di avere sottovalutato molto questa parata, perché pensavo fosse qualcosa di infantile e inutile, invece è stata un’esperienza nuova che mi ha lasciato qualcosa dentro. Inizialmente non capivo bene cosa dovessimo fare con i fili, sapevo solo che servivano a distanziarci. In effetti ci hanno distanziato ma ci hanno anche tenuti tutti uniti. È stato strano vedere la reazione di alcune persone in strada: alcune sorridevano e sembravano incuriosite, altre però hanno reagito male, penso non abbiano capito cosa stessimo facendo e perché. Credo di avere contribuito abbastanza a farci notare mentre sfilavamo, era proprio questo l’obiettivo! Siamo stati capaci di trasmettere alle persone il messaggio: LIBERTÀ. Se potessi cambiare qualcosa di questa parata il prossimo anno, andrei prima dalle persone in piazza a spiegare il progetto e le inviterei a unirsi a noi”.
Emma
“Eravamo vestiti in modo originale, questa cosa per me è stata molto bella, con un bel messaggio dietro, ovvero, che non dobbiamo preoccuparci di cosa dicono o pensano gli altri ma dobbiamo fare quello che più ci piace. In questo caso ci siamo vestiti come volevamo, senza vergogna, anche se per gli altri poteva sembrare strano. Inoltre mi è piaciuto il fatto di esserci legati tra di noi con dei fili decorati, un modo originale e divertente di mantenere anche le distanze in questa situazione”.
Riccardo
“La prima volta che abbiamo incontrato Laura Cionci, ero sorpreso dal fatto che le frasi che diceva erano al femminile: io e i miei compagni ci guardavamo allibiti, pensando che fosse un po’ femminista.
La performance di sabato 29 maggio ci ha aiutati a superare l’imbarazzo, perché vedevo delle persone che ci dicevano: “Ma non vi vergognate a fare ‘ste cose?”. Ho capito allora che avremmo bisogno di un po’ più di libertà e di godercela. Anche se è stato stancante perchè c’era caldo, con i costumi addosso, questa esperienza la rifarei ancora!”.
Rebecca
“La parata ha aiutato noi studenti e professori a riunirci e a manifestare a favore della LIBERTÀ, passando dei bei momenti insieme. Il prossimo anno mi piacerebbe fare una parata con vestiti e trucchi ancora più creativi. Molta gente infatti aveva iniziato a seguirci ed era interessata a quello che stavamo facendo, mentre altri non lo erano affatto e da questi abbiamo preso anche degli insulti. Mi ha colpito un signore che continuava a fare foto con il suo cellulare, non mi era mai successo di avere la ‘telecamera puntata in faccia’. Se questo progetto si rifarà, sarebbe bello coinvolgere più persone e fare un giro più lungo, motivando di più i ragazzi che non sono stati molto collaborativi, perché si sentono a disagio se mettono un po’ di trucco sul viso”.
Matilde
“È stata una bellissima manifestazione che ha permesso a noi adolescenti e studenti di uscire dagli schemi. Ci siamo vestiti in modo stravagante, abbiamo gridato e insieme ci siamo uniti a favore di tante cause differenti ma che allo stesso tempo erano sentimenti condivisi. Per una volta eravamo noi stessi e almeno per un giorno felici di essere considerati strani e fuori dal comune”.
Maria Giulia
“È stato tutto affrettato e non ho avuto quindi il tempo di realizzare che quel sabato mattina avrei urlato per strada, esprimendo ai passanti la mia opinione. In realtà credo di averlo urlato più a me stessa che agli altri… Spero seriamente un giorno di venire ascoltata da qualcuno, come io cerco di dare spazio agli altri. La pecca dell’attività è forse stata quella di non avere un obiettivo comune. Ognuno cercava di dare un senso a quei minuti durante i quali si camminava seguendo la massa e alla fine altro che libertà di espressione! Davamo a chi ci osservava l’impressione contraria di quello che era il significato. Confusionaria e scomposta, nei limiti del possibile, durante una pandemia. Se veramente avessimo preso in considerazione tutti i rischi (dal contagio, sino al povero sfigato che inciampa e muore sull’asfalto fermando tutto), con un briciolo di buonsenso non ci saremmo mai fatti passare per l’anticamera del cervello un’idea simile. Fermiamoci un attimo a pensare a questo progetto avviato in tutt’altra situazione, senza covid, senza mascherine di conseguenza, con più preavviso e con un’eccitazione che si coltiva con il tempo. Sarebbe stato più divertente, più di quanto effettivamente risultava agli occhi dei passanti. Ciò non toglie che sia stata comunque una situazione interessante e simpatica”.
Lucia
“La metafora di questo progetto è la vita stessa con i suoi alti e bassi che la rendono speciale. Ovviamente non si parla di futuro, cos’è il futuro… niente… un emerito nulla, il futuro è tra un secondo? tra un minuto? O sono proprio i momenti in cui sto scrivendo queste parole? Per me il futuro non esiste, essendo ormai già passato; per me tutto quello che è e che sarà, non è altro che passato; per la mia vita futura mi aspetto solo l’inaspettato, la vita va vissuta e non ho intenzione di perdere tempo a programmare ogni singolo momento. Al terzo incontro ci siamo ritrovati con un’altra classe, di questa mi ha colpito un gruppo capitanato da una ragazza che è andata dritto al sodo, parlando di tematiche che di solito molti cercano di evitare o non condividono: la politica, la discriminazione femminile che esiste da migliaia di anni. Siamo nati e cresciuti in un mondo in cui la rivoluzione sta avendo vita. Fin da piccola sono stata chiamata con pronomi maschili e se il mio sesso non è quello della nascita? Cosa fare se nessuno mi ascolta? E se mi riconoscessi proprio nel sesso maschile pur avendo organi femminili, perchè dovrei sentirmi dire che essendo nata donna, sono donna o viceversa… prima di tutto sono una persona e il mio genere lo decido io. In futuro contribuirò alle battaglie contro omofobia, violenza domestica, femminicidio, razzismo… il mondo è fin troppo pieno di ingiustizie, disagi e cattiverie che vanno affrontate. Punto a questo nella vita!”.
Cecilia
“Un’esperienza mai fatta prima, lavorare con un’artista, capire e conoscere una nuova forma d’arte e esprimerla in un giorno, dopo una lunga progettazione. Ognuno si poteva vestire e truccare come voleva, esprimendo un significato per lui/lei importante, portando un messaggio che in gran parte è stato portato dalle strisce su cui sono state scritte frasi significative per noi e per la situazione attuale. Eseguendo un’azione pianificata in gruppo in un particolare luogo e lasso temporale, poter costruire la propria opera, usando il proprio corpo come tela e come pennello. Ogni persona era vestita in modo diverso, ricoperta di colori e glitter, per essere irriconoscibili ma anche per esprimere la propria creatività, soprattutto fregandosene dei pareri della gente e camminando a testa alta. Io mi sono presentata in stile hippie anni ‘70, per mostrare il massimo della creatività interna, importante per frequentare un liceo artistico, cosa che all’esterno è difficile da vedere, dato che mi vesto sempre con colori scuri. Ricoperta di brillantini e sbizzarrendomi insieme ai miei compagni e a Laura, siamo scesi in piazza pronti a mostrare a tutti in nostro lavoro e andarne fieri. Molte persone sembravano infastidite dato che facevamo anche molto ridere, noi comunque abbiamo continuato la nostra passeggiata, l’arte è soggettiva e può non piacere a tutti”.
Andrea
“All’inizio ero molto confuso e non capivo cosa bisognasse fare e neanche quale fosse il progetto finale. Quando ho iniziato a capire che era una performance, pensavo di esprimere le mie emozioni attraverso il mio vestiario, poi è arrivato l’invito a trovare delle parole chiave. La più grande difficoltà era la confusione di idee, per cui, oltre alla performance, sono subentrati altri argomenti che mi hanno messo molto in difficoltà. L’unica cosa che cambierei è l’interazione con gli altri partecipanti, visto che ho parlato esclusivamente con i miei amici durante la parata; quando sfilavamo per via Roma, una cosa che mi dava fastidio erano le persone adulte che ci filmavano senza il consenso di nessuno, la privacy è una cosa importantissima e non mi voglio trovare su Facebook con un titolo scandalistico. La cosa che mi ha stupito di più è stato quando siamo entrati dentro la scuola e abbiamo fatto casino, l’ho trovato un segno di mancanza di rispetto verso chi era in classe. Se dovessi riproporre la stessa attività, non la organizzerei come performance, ma come street art, che piace di più a noi giovani”.
Leonardo
“Non ho mai fatto cose del genere e quindi credo che sia normale sentirsi un pesce fuor d’acqua. Dipende sempre dal mood che ognuna delle persone al di fuori dell’evento ha.
È sempre bello comunque che le persone non siano tutte uguali, a volte ascoltare delle critiche fa bene, senza arrivare agli insulti ovviamente”.
Alissa
Io ero alla prima fila e molte persone hanno applaudito, ho visto gli occhi delle persone illuminarsi e i sorrisi accendersi, altre persone invece erano un po’ in sulle loro, infatti i tamburi i vestiti e il trucco non sono tanto piaciuti. Abbiamo collaborato tutti, chi di più e chi di meno, io ad esempio mi ero truccata e vestita da fata che secondo me rappresenta le mie qualità e il mio carattere, la mia dolcezza e timidezza. Una difficoltà è stata quella di non poter mettere una parte di abbigliamento per il caldo.
Mi ha stupito vedere anche gli altri compagni/e e le prof, tutti riuniti anche nelle foto in un gesto di affetto e unione. Se questo progetto si riproponesse, vorrei contribuire di più con l’abbigliamento e il trucco, metterei più suoni e strumenti musicali e farei anche un giro più lungo di Reggio per farci notare in modo che più persone leggano i pensieri scritti che vorremmo donare agli altri ma anche a noi stessi.
Volevo trasmettere un messaggio positivo, in questi momenti difficili: non mollare ma ragiona sul perchè è successo e come si può andare avanti essendo felici”.
Note
[1] Dal progetto di Laura Cionci POPOLGIOST, Movimenti di un Rito
con Maria Rosa Sossai – Curatrice
Silvia La Ferrara – Docente del liceo artistico «G. Chierici» di Reggio Emilia
Le classi 1°A e 1°B del liceo artistico «G. Chierici» di Reggio Emilia
Maria Rosa Sossai è ricercatrice nel campo delle pratiche artistiche partecipative, delle politiche dell’educazione e del video e film d’artista. E’ Responsabile Scientifica del Dipartimento Progetti Partecipativi del Museo Civico di Castelbuono (PA). Nel 2018 ha co- fondato ‘fuoriregistro quaderno di pedagogia e arte contemporanea’, Boîte Editions; nel 2012 Accademia Libera delle Arti, www.alagroup.org, piattaforma indipendente di educazione e arte contemporanea. Ha curato mostre e progetti in musei, fondazioni, gallerie in Italia e all’estero. E’ autrice di numerose pubblicazioni, tra le quali Vivere insieme l’arte come azione educativa, Torri del vento, 2017; Arte video, storie e culture del video d’artista in Italia, Silvana Editoriale, 2002; Film d’artista, percorsi e confronti tra arte e cinema, Silvana Editoriale, 2009.
Laura Cionci (Roma, 1980) è un’artista e performer. La sua ricerca esperienziale coltiva pratiche relazionali per lo sviluppo di processi creativi volti a riarticolare le potenzialità energetiche umane in relazione alla biodiversità e al territorio.
Il suo lavoro è stato presentato in FRAGILE, Galleria Monitor, Roma (2021) PROVE DI R(I)ESISTENZA, Fondazione Baruchello, Roma (2020), State of Grace, Darebin Art Centre, Melbourne (2020); Vi.Vedo/Viu.Vos, Museu de Arte Contemporânea de Campinas, Saõ Paulo (2019); BienNolo, Milano (2019); 101, the beginning of infinity, MIM, Museum of Innocence, Mildura (2019); Paisaje Privado, Museo Casa de la Memoria, Medellín (2018); Una Mirada al Bosque Vertical, Museo de Arquitectura Leopoldo Rother, Universidad Nacional, Bogotà (2018); Fremantle Biennale (2017), Australia; Bienal de Arte Público, Cali (2016); Teatrum Botanicum, Parco Arte Vivente, Torino (2016); Proyecto H, Museo del Carnaval e Teatro de Verano, Montevideo (2014); Carnevalma, Centro Cultural Borges, Buenos Aires (2013).
Il suo primo libro, Stato di Grazia, è stato pubblicato nel 2020 da postmedia books.
https://lauracionci.wixsite.com/lauracionci
Silvia La Ferrara ha scelto da più di vent’anni di condividere con allegria la sorte di chi frequenta la scuola pubblica, al presente insegnando al Liceo artistico “G. Chierici” di Reggio Emilia. È editor della rivista Erodoto108.