In un passo tratto da La camera chiara – quel toccante omaggio alle immagini, al cuore e alla caducità umana che Roland Barthes scrisse nel 1980 pochi mesi prima di morire – si legge: «Ogni fotografia è un certificato di presenza. Questo certificato è il nuovo gene che l’invenzione della Fotografia ha introdotto nella famiglia delle immagini. L’uomo che contemplò le prime foto (per esempio Niepce davanti a La tavola apparecchiata) dovette pensare che esse somigliassero come due gocce d’acqua a dei dipinti […]; egli sapeva tuttavia di trovarsi faccia a faccia con un mutante (un Marziano può assomigliare a un uomo); la sua coscienza poneva l’oggetto incontrato al di fuori di ogni analogia, come l’ectoplasma di “quel che era stato”: né immagine né reale, ma un essere nuovo in tutto e per tutto; un reale che non si può più toccare». (Barthes, 2003, p.87).
Fotografia come messa in sicurezza del passato, o meglio, come atto di nascita di un passato che, d’ora in avanti, continua ad esistere e interrogare riguardo la sua ossimorica natura. La superficie fotografica è infatti tanto chiara, evidente, quanto paradossale, e a tal proposito Barthes continua definendola «un medium bizzarro, una nuova forma di allucinazione: falsa a livello della percezione, vera a livello del tempo». È in questo limbo che, davanti ad ogni fotografia, si innesca una piccola e istantanea crisi interiore: una tensione in cui il bisogno antropologico di conservare si intreccia inesorabilmente all’ambiguità di un “ectoplasma” che non fa altro che confondere. Il sottotitolo del testo di Barthes è Nota sulla fotografia: il tentativo di definire quello che l’autore chiama il noema del medium, la sua stessa essenza che si ripropone ad ogni incontro, e che prescinde dal contenuto specifico.
Cosa succede invece se il contenuto diventa punto di partenza, quando più fotografie diventano un archivio che le inserisca in una narrazione e dia loro una traiettoria e un senso più ampio? Forse che la pulsione archivistica serva proprio a dimenticarsi dell’incertezza percettiva di ogni singola fotografia, per cercare in essa un significato e da lì costruire un pezzo di Storia? Con la costituzione di un archivio si aggiunge un livello ulteriore di senso: la singola fotografia cede il passo al montaggio narrativo, e la sua matassa di ambiguità si scioglie, posta accanto ad altre immagini, nella linearità di un arco temporale, della storia di uno Stato, di un canone, di un’idea.
Silvia Bigi, artista nata a Ravenna nel 1985, entra nelle pieghe di questo processo – che forse è un bisogno di sopravvivenza – di codificazione, e con il suo progetto From dust you came and to dust you shall return (2018 – 2021) passa dalla “Famiglia delle immagini” del passo di Barthes alle immagini della famiglia: la sua. L’artista si confronta con le fotografie del proprio archivio famigliare, ne scandaglia la meccanica, si interroga sulla ritualità sottesa ad ogni posa, ad ogni contesto, ad ogni momento. L’archivio è qui inteso come terreno critico in cui in ogni immagine si sancisce l’intreccio sottile e complesso tra l’immediatezza del privato e la costruzione di una narrazione collettiva.
Bigi va oltre la contemplazione, “apre” metaforicamente il suo deposito memoriale installando il suo sguardo in un interstizio che ne mina le fondamenta: una fessura critica inedita in cui la reminiscenza di una memoria personale innesca il confronto serrato con la codificazione implicita della stessa. Il suo è un atto coraggioso: uno squarcio che fa vedere quello che c’è dietro ogni immagine, oltre la languida tranquillità instillata dai ricordi. Quanto c’è di culturalmente codificato, in questi ricordi? È nel solco tracciato da questo profondo interrogativo che diventa urgente il gesto, allo stesso tempo intimo e iconoclasta, dell’artista: il raschiamento della superficie di queste immagini con lo scopo di ricavarne un pigmento nuovo, ulteriore.
L’archivio famigliare è messo a nudo. Scompaiono le figure e anche tutte le individualità codificate, mentre le immagini ritornano alla loro materialità primaria: di nuovo superfici che assorbono violentemente, nella loro matassa di ambiguità, tutte le linearità narrative in cui prima erano inserite. From dust you came and to dust you shall return scardina il codice di ogni immagine, le loro semiotiche personali, i frammenti di realtà da cui un tempo si staccarono cedendo all’illusione di immortalità. Attraverso la processualità lenta, paziente e consapevole del raschiamento l’archivio di famiglia ritorna ad essere mortale, mentre lo sguardo critico di Bigi sembra ritornare a quegli ectoplasmi di cui parla Barthes. Il filosofo arrivava alla conclusione che l’essenza della fotografia risiedesse nell’ “è stato”; l’artista riprende questo enigma ancorandolo tuttavia ad un interrogativo ancora più profondo: cosa, in realtà, “è stato”? Il raschiamento diventa una disciplina in cui, simultaneamente, la retrospezione biografica si unisce alla riflessione estetica e ad una precisa volontà politica: quella di una necessaria decolonizzazione dello sguardo. Altro rapporto cruciale, quello che lega le immagini dell’archivio famigliare alle proiezioni culturali di cui, quelle stesse immagini, sono inconsapevole espressione: occorre quindi azzerare tutto per ritornare, metodicamente e metaforicamente, a ciò che si cela dietro a quella catena di “certificati di esistenza” che nel corso di una vita si consolida come unica genealogia possibile.
In From dust you came and to dust you shall return il punto zero è raggiunto nelle silhouettes svuotate che non hanno più volto né corpo, e che in questo loro nascondersi sembrano, ora, più presenti che mai. Il raschiamento non è uniforme: rimangono gli accenni delle fisionomie, dei vestiti, delle pose e dei luoghi di partenza, eppure ciò che si trova davanti è un archivio muto. Lo scavo decostruttivo di Bigi, che fisicamente si risolve in qualche decina di micrométri (l’unità di riferimento per misurare il diametro di un granello di polvere), esprime in sé tutta la potenza tellurica di questo svuotamento, attraverso cui l’archivio inizia a vivere in una dimensione di presenza/assenza, dividendosi tra la traccia di ciò che era e ipotesi di ciò che potrebbe diventare.
Le immagini ritornano ad essere ostacolo – impongono che venga guardato il loro ritrovato silenzio – ma diventano anche una soglia da attraversare per scrostarsi definitivamente dalle narrazioni culturali in cui erano emerse in un primo momento. Dalla realtà si passa al reale, seguendo la distinzione Lacaniana, centrale nella poetica di Bigi, che vede il primo termine come una costruzione codificata volta a neutralizzare il trauma evocato dal secondo: il reale è infatti “inemendabile”, ciò che resiste al potere dell’interpretazione. Allo stesso modo le fotografie svuotate dell’archivio famigliare di Bigi non solo decostruiscono tutte le codificazioni di partenza – decolonizzazione dello sguardo come incursione critica – ma ne negano a priori qualsiasi possibilità – decolonizzazione dello sguardo come paradigma – rimanendo cosi così fluttuare in uno stato ontologico perennemente indefinito: quello della materia.
La materia è ciò che rimane: nello specifico, la testimonianza di tutto questo processo è affidata alla polvere, il corpo microscopico che resta dopo il raschiamento della propria memoria. Bigi la riutilizza per creare dei nuovi pigmenti, oppure la condensa insieme a della polvere di marmo per dare vita a delle pietre (là dove prima c’erano solo superfici). La polvere diventa quindi l’innesco di un nuovo inizio – o di molteplici nuovi inizi – in cui la sostanza delle immagini di partenza rimane la stessa, pur adottando nuove forme.
È questo il paradossale cortocircuito in cui si muove From dust you came and to dust you shall return: distruzione e preservazione, azzeramento e sopravvivenza. Bigi polverizza le genealogie interne del suo archivio – della sua memoria – e così facendo lo libera da ogni cristallizzazione fittizia, rendendolo invece pura, e antica, potenzialità.
C’è un che di originario nella polvere. Memento, homo, quia pulvis es, et in pulverem reverteris si legge in Genesi 3, 19, e proprio l’essere umano, nel tentativo di dare una forma al mondo di fuori, utilizzò la polvere dei pigmenti naturali per realizzare le prime immagini nelle pareti di Lascaux, Chauvet e Altamira. Nella polvere non c’è distacco; nessuna separazione tra immagine e realtà. A rimanere è solo il reale indefinibile che – a differenza di Barthes – Bigi tocca, raschia, riformula, condensa.
Quella evocata dalla polvere è un’origine che non si propone come fonte di una genealogia – non è l’inizio di un nuovo archivio – ma è un’energia che continua a riproporsi in ogni momento, come l’origine-vortice di cui parla lo storico dell’arte Georges Didi-Huberman in relazione all’opera del pittore Barnett Newman (altro riferimento teorico di From dust you came and to dust you shall return).
Si tratta di un’origine dialettica, una collisione di temporalità: l’allontanamento definitivo ma necessario rispetto ai binari codificati dell’archivio di partenza. L’interrogativo di Didi-Huberman è il seguente: «Che cos’è originarsi nel vortice di una pratica artistica, se non fare appello a una certa memoria del Già-Stato per decomporre il presente – vale a dire il passato immediato, il passato recente, il passato ancora imperante – respingendo fermamente ogni nostalgia revivalista?» (Didi-Huberman, 2007, p. 231).
From dust you came and to dust you shall return è una riflessione in cui l’archivio non è solo decomposto, ma letteralmente polverizzato: la decolonizzazione dello sguardo di Bigi parte dal proprio codice famigliare e arriva a costeggiare questa origine che oltrepassa ogni pulsione di catalogazione, ogni incasellamento. Le immagini tornano ad essere materia e l’archivio diventa, infine, spettro di sé stesso: basta solo ricordarsi che questo spettro, nella sua indefinitezza di ectoplasma, è anche, e soprattutto, un insieme ancora inesplorato di possibilità.
Bibliografia
Barthes R., La camera chiara, 1980, Einaudi, Torino 2003
Didi-Huberman G., Storia dell’arte e anacronismo delle immagini, 2000, Bollati Boringhieri, Torino 2007
Piermario De Angelis è nato a Pescara il 06/10/1997. Dopo aver conseguito una laurea triennale in Arti, Design e Spettacolo presso l’università IULM, è attualmente studente al secondo anno del biennio di Visual Cultures e Pratiche Curatoriali presso l’Accademia di Belle Arti di Brera. Nel 2021 co-fonda, con altri studenti e studentesse, l’associazione culturale no profit Genealogie Del Futuro. Scrive per ‘Kabul Magazine’, ‘Juliet Art Magazine’ e ‘Forme Uniche’.