«La polvere è un velo, uno strato, una sottile superficie che mentre copre rivela, mentre si deposita dà corpo,
mentre è se stessa è anche altro, immagine d’altro».
(Elio Grazioli, La polvere nell’arte).
«Non penso sia possibile restituire a una città un suo luogo simbolico, scomparso per trent’anni, semplicemente aprendo una porta. […]
Quel che dunque intendo fare non è solo far entrare le persone nell’edificio, ma creare un incontro fra dimenticanze. Da una parte quella dei Novaresi per Casa Bossi, dall’altra quella di Casa Bossi per il resto del mondo. Vorrei creare l’incidente che permetta a queste due dimenticanze di guardarsi l’una nell’altra come dentro uno specchio e di contro dunque tornare a riconoscersi reciprocamente».
(Gian Maria Tosatti)
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Le parole di Gian Maria Tosatti si riferiscono alla sua installazione ambientale Tetralogia della polvere, progetto a cura di Julia Draganović e Alessandro Facente, realizzato in co-produzione dal Comitato d’Amore di Casa Bossi e da Associazione Culturale Rest-Art, in collaborazione con LaRete Art Projects e con il patrocinio del Comune di Novara.
Si tratta di un intervento eseguito dall’artista all’interno di Casa Bossi, un palazzo di 500mq su sette livelli, costruito da Alessandro Antonelli nel 1859, divenuto uno dei luoghi più importanti della storia di Novara e chiuso per oltre trenta anni, all’inizio degli anni ’80.
In occasione della ri-apertura e restituzione dell’edificio ai cittadini, alla città di Novara e al pubblico, Gian Maria Tosatti ha deciso di raccontarne la storia dell’abbandono intervenendo sullo spazio senza aggiungere nulla, ma, al contrario, togliendo in alcuni punti delle varie stanze l’unica testimone degli anni trascorsi, l’unica depositaria della memoria di quel luogo chiuso.
La polvere.
Tetralogia della polvere è infatti un grande disegno realizzato togliendo la polvere dal pavimento, esattamente nei punti in cui la luce, entrando dalle finestre, si ritagliava il suo spazio nel presente, in quell’esatto momento in cui le porte dell’edificio si stavano riaprendo al mondo.
Hai scelto di affrontare tempo e storia attraverso i suoi spazi. Una sorta di esplorazione architettonica della memoria.
Il lavoro su Casa Bossi è stato un lavoro complesso, perché l’opera si è trovata al centro di uno snodo particolarmente ricco di implicazioni per quel che riguardava il contesto sociale, storico, architettonico e poi artistico. Il 23 aprile 2012, giorno di inaugurazione della mostra, coincideva con l’esordio di quello che voleva presentarsi come il nuovo Centro Culturale della città, con l’apertura di una mostra di livello museale in una città in cui non c’è nemmeno un piccolo spazio no-profit, con la riconsegna ai novaresi di quello che per 120 anni era stato il loro più importante edificio e che per trent’anni era stato abbandonato, e infine con la riapertura di un monumento straordinario dell’architettura antonelliana. Con così tante questioni sul piatto il rischio di fare un pasticcio è molto alto. Ci sono due modi di affrontare un groviglio di significati come questo, il primo è cercare di fare il compitino, tenere ben presente tutti i significati e far contenti tutti. Non riesco ad immaginare una cosa peggiore e più degradante. L’altro modo è di trascendere, alzando il livello della discussione. L’obiettivo è portarla ad un’altezza in cui tutte quelle implicazioni diventano “secondarie” (non irrilevanti attenzione, ma “secondarie”, come nella sintassi: proposizioni subordinate). Per far questo abbiamo introdotto nella sintassi del discorso una proposizione principale forte, che parlasse dell’uomo, che trasformasse la casa in una analogia dell’anima dell’uomo. E così ogni altro significato si è subordinato, disciplinatamente, ha preso posizione diventando non più significativo di per sé, ma in relazione al grande specchio che assieme andavamo costruendo e che abbatteva così ogni distanza che il tempo, poteva aver creato fra la storia di una città e il presente individuale di ogni singolo cittadino, o ancor di più, ogni singolo visitatore, se si considera che l’obiettivo del lavoro alla fine era stato proprio quello di dare la sensazione anche a chi veniva da fuori, che c’era una casa, in un determinato posto della terra, che conosceva la tua storia, un luogo verso cui, anche quando fossi stato lontano, avresti provato nostalgia. Come per il triangolo tracciato a terra da Gino De Dominicis..
Gian Maria Tosatti, Tetralogia della polvere, istallazione ambientale,
Casa Bossi, Novara, aprile 2012
a cura di Julia Draganovic e Alessandro Facente,
in collaborazione con Comitato d’Amore per Casa Bossi e Rest-Art
Courtesy dell’artista
Si pensa che non sia sempre facile “mostrare” lo scorrere del tempo, vista la sua presunta invisibilità. Eppure questo spesso si mostra da solo, negli effetti che produce sulle cose, nelle alterazioni che determina. Tu ci sei riuscito “mettendo in luce” un tempo dell’abbandono.
Il lavoro su Casa Bossi è stato molto lungo. Un anno di preparazione che tuttavia non è stato semplice. Sono rimasto per mesi appeso all’enigma che nascondevano i due soli elementi presenti nella casa: il vuoto e la luce. Ho condotto degli studi sulla luce. Poi sono entrato in un edificio molto simile a Casa Bossi, nel Bronx a New York. Era anche quello un palazzo enorme abbandonato da 30 anni. Una coincidenza incredibile. E anche lì ero il primo artista a mettere piede dentro lo spazio (anche se poi la mostra che venne realizzata era una collettiva a cura di No Longer Empty). Stando in quell’edificio sviluppai l’idea di lavorare sull’aspetto fisico del tempo. E così, l’idea prese corpo anche a Novara, dove bisognava lavorare su qualcosa di estremamente delicato, per realizzare nell’immagine, un bilanciamento di pesi che potesse rendere visibile il tempo come fosse una materia. E se è vero che ciò che noi vediamo è il risultato dell’interazione tra la luce e la materia, ho radicalizzato questo concetto e ho cercato di far sì che il tempo si scoprisse fisicamente visibile, proprio nella complessa declinazione di quella interazione. Quel che dunque poteva essere monolivello, nella dicotomia “illuminato-buio”, è stato squadernato. Quella che poteva essere una osservazione è diventata una spettrografia, e nello spettro che abbiamo mostrato, il tempo vi compariva appunto come una traccia concreta, una evidenza. Ecco, è per questo che considero l’arte come una sorta di magia. Essa può curvare lo spazio, rendere visibile ciò che è invisibile, azzerare distanze secolari. L’arte non è decorazione. E’ uno degli strumenti principali di stimolazione della cosa più potente che ci sia in natura, la mente dell’uomo. Che da secoli è già in grado di fare tutto quello che molti pensano vada ancora conquistato, l’immortalità, la possibilità di viaggiare nel tempo… eccetera eccetera.
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Gli edifici non sono mai delle semplici strutture statiche, ma sono delle costruzioni caratterizzate ininterrottamente da storie, da persone, da emozioni che vi abitano e che ne continuano a cambiare in modo anche pratico la fisionomia. Gli edifici sono luoghi pieni di storia e di storie, ma allo stesso tempo sono le storie che fanno e narrano luoghi.
Nel momento in cui una porta viene chiusa verso l’esterno, l’edificio al suo interno continua a costruirsi; coloro rimasti fuori possono credere che, fino al momento della sua riapertura, all’interno non succeda nulla. Ma è proprio in questo frattempo che succedono un sacco di cose. La gente dimentica, gli edifici si svuotano e cominciano a perdere pezzi, a perdere importanza, diventando presenze fantasma.
Man mano che Casa Bossi scompariva dalla memoria delle persone, la struttura dell’edificio subiva lo stesso svuotamento; dapprima sono sparite le persone che lo abitavano, poi gli arredi. Al loro posto si accumulava polvere, strato dopo strato, anno dopo anno, a riempire un vuoto imponente.
Io ho studiato teatro. Un teatro in cui però lo spazio non era contemplato come quadro. Il teatro che ho studiato risiedeva solo nel corpo dell’attore. Non c’erano scenografie. Lo spazio era una semplice pedana. Non c’erano musiche registrate e le luci erano fisse. L’obiettivo di quel teatro, che fa capo alla ricerca di Jerzy Grotowski, è quello di usare l’attore come tramite. Il corpo dell’attore, diventa il luogo umano attraverso cui per induzione, lo spettatore riesce a connettersi con delle regioni del sé verso cui il performer, come fosse uno speleologo si va calando. Ho abbandonato il teatro da molti anni. E a dir la verità l’ho sempre praticato come uno strumento di ricerca piuttosto che come un’arte. Ma quella ricerca me la sono portata dietro anche quando ho iniziato a fare le mie installazioni ambientali. Ho iniziato a relazionarmi allo spazio come fosse qualcosa di vivo, come fosse un attore e dunque un medium. Ho condotto con gli edifici dei corpo a corpo estenuanti. Ogni parete, pavimento, volume architettonico non l’ho mai considerato materia inerte. A Casa Bossi, ho riaperto le tubature dell’acqua, ho riattivato le linee elettriche o quelle del telefono, come si ripompa sangue dentro le vene di un organismo. E così ho fatto sempre. L’acqua è sempre stata un elemento essenziale nei miei lavori. Nella maggior parte delle opere non si vede neppure. Ho ricostruito i circuiti idraulici di interi edifici senza che il visitatore vedesse una sola goccia d’acqua, ma mi era necessario per riportare in vita quell’edificio, perché non fosse solo un corpo, ma un corpo vivente. Molto di quello che attiene alla percezione è invisibile. L’acqua che scorre nei tubi la puoi percepire, senza rendertene conto, senza vederla, né sentirla. Te la sentirai comunque addosso stando dentro il corpo dell’edificio. E così ho trattato Casa Bossi come un corpo umano, ne ho riportato alla luce tutti quei segni di vita propria che uno spazio ha, le fioriture che il tempo mette sul suo corpo proprio come fa con gli uomini, con le rughe del viso, con la crescita di certe forme, il cambio di colore dei capelli… In questo modo entrare dentro Casa Bossi diventava un fatto umano, un rapporto di reciproco rispecchiamento, in cui il confine tra il visitatore e la mostra era annullato. Non c’era niente da vedere a Casa Bossi, come non c’è niente da vedere dentro uno specchio se non ci sei tu davanti.
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Tu hai introdotto in questo discorso una storia contemporanea, la tua. Hai mostrato il tuo modo di raccontare l’abbandono, l’incuria, la solitudine, attraverso una volontà di riscatto, di mettere in luce un palazzo fino ad oggi rimasto nell’ombra. Non a caso è proprio la luce che determina una serie di percorsi, delle nuove “strade”.
Quello che con le tue parole cerchi di dire è che il tuo lavoro non è consistito solo nell’aprire una porta per mostrare uno spazio, ma hai mostrato il tempo intervenuto in quello spazio.
Spesso si crede che il passato riguardi solamente lo scorrere del tempo. In realtà il passato riguarda soprattutto lo spazio. Cioè il luogo dove il tempo è stato vissuto, dove è stato definito.
Il discorso che tu fai avviene in un luogo, è una narrazione situata la tua.
Il luogo lo considero un piano comune. Non puoi mettere persone nello stesso tempo (il tempo è un concetto esistenziale prima ancora che lineare), ma puoi metterle nello stesso spazio. Eccolo dunque il piano condiviso in su cui poter iniziare a disegnare la curva del tempo che possa funzionare per tutti. Non puoi toccare il tempo. Non puoi plasmarlo. E’ una calibrazione indiretta. Operi sullo spazio, che è il luogo in cui si muovono i corpi, per produrre un effetto sul tempo, che è dove agiscono le anime.
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Gian Maria Tosatti (1980) è un artista visivo.
Dopo gli studi in campo performativo, intraprende un percorso nel territorio di connessione tra architettura e arti visive, realizzando grandi installazioni ambientali.
Sono frutto di questa ricerca i progetti: “Devozioni” (2005-2011), dieci installazioni per dieci edifici a Roma, “Landscapes” (2006- ), un percorso di arte pubblica in luoghi di conflitto urbano, “Fondamenta” (2011 – ), basato sull’identificazione degli archetipi dell’era contemporanea, e le “Le considerazioni…” (2010- ), ciclo dedicato agli enigmi della memoria personale.