Il Museo dell’arte contemporanea italiana in esilio è un progetto di Cesare Pietroiusti, in collaborazione con Alessandra Meo, Mattia Pellegrini e Davide Ricco, che intende raccogliere su tutto il territorio italiano opere realizzate da personalità singole o collettive che svolgono attività creative sorprendenti, eterodosse, fuori dai circuiti della comunicazione mediatica.
La ricerca si svolge nelle aree di disagio e di marginalità sociale, in istituzioni psichiatriche, penitenziarie e riabilitative in genere, ma indirizza la sua attenzione anche a personaggi isolati, eccentrici, border-line, che si dedicano ad attività bizzarre, indefinite, e che magari sono noti soltanto a piccole comunità (un villaggio, un quartiere, un gruppo sociale).
Particolare interesse viene poi rivolto ad artisti che, o per propria scelta o perché ne sono stati espulsi, operano fuori dai circuiti del sistema dell’arte contemporanea italiana. S’intendono esplorare anche le aree della ricerca scientifica o para-scientifica, dell’attivismo politico o della pratica simil-religiosa, specie quelle che si esprimono in forme non omologabili né definibili all’interno di paradigmi disciplinari, ideologici o rituali prefissati.
Il Museo avrà la sua sede fisica fuori dall’Italia. Piuttosto che fare capo a un unico luogo però, si configurerà come un’entità itinerante che potrebbe essere ospitata da diverse altre istituzioni museali, organizzazioni o associazioni. In ogni caso tutte le presentazioni pubbliche della collezione del Museo avverranno all’estero.
Museo dell’arte contemporanea in esilio al progetto l’Inadeguato di Dora Garcia
Padiglione Spagnolo 54ma Biennale di Venezia;
Andrea Lanini, Divino Pozzo; Fausto Delle Chiaie, Il carrello.
photo by Letizia Romeo
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Come pensare le pratiche espositive di un Museo nomade e senza pareti? Come relazionarsi con le istituzioni estere ospitanti? Quale forma e con quali criteri si forma una collezione di artisti in “esilio”? Come rendere le opere di un artista vive dentro a un museo? Queste sono alcune delle riflessioni che il gruppo del Museo in Esilio si è trovato ad affrontare.
Il Museo in Esilio non è un tentativo ironico o effimero di creare un museo da parte di un artista, è sì un’opera di Cesare Pietroiusti, che attraverso questo dispositivo mette in discussione e destabilizza le procedure del controllo culturale dei musei contemporanei, ma è anche un reale tentativo di scoprire quella produzione di senso che viene nascosta da tale controllo culturale.
Il primo elemento è forse quello che il Museo in Esilio, prima di esporre opere, espone ricerche, soggettività, modelli alternativi di collaborazione e produzione di senso.
Michel Foucault definisce il Museo uno spazio eterotopico: «quegli spazi che hanno la particolare caratteristica di essere connessi a tutti gli altri spazi, ma in modo tale da sospendere, neutralizzare o invertire l’insieme dei rapporti che essi stessi designano, riflettono o rispecchiano» collegandolo ad una dimensione eterocronica ovvero : luoghi di tutti i tempi e quindi fuori dal tempo. Se parliamo di modalità di esposizione (etimologicamente: espórre v.tr. [sec. XIII]~ mostrare, presentare. lat. expōnĕre ‘metter fuori, esporre; descrivere, narrare’, da pōnĕre ‘metter giù, posare’) trattiamo il tema della spazialità, del muover-si e muovere nello spazio persone e oggetti.
Cesare Pietroiusti ha sempre tentato di mettere in discussione le modalità di “utilizzazione” della struttura museale da parte dell’artista, tanto da un punto di vista spaziale (uso del luogo) quanto concettuale-sistematico (uso delle relazioni e delle strutture di potere).
In Essere un po’ fuori. L’artista e il Museo Cesare analizza, attraverso suoi lavori, il dispositivo “museo” attuando diverse modalità d’intervento: Museo come luogo adiacente (ai luoghi qualunque); Museo come luogo del discorso specialistico e delle storie qualunque; Il museo come luogo vivibile; Museo dislocato; Museo come distributore dell’opera.
Credo che il Museo in Esilio sia figlio di queste pratiche poiché molte le ritroviamo proprio all’interno di questo progetto.
Il nostro museo è vivibile in quanto è essenzialmente fatto di rapporti umani, il museo in esilio si sposta con noi nelle nostre pratiche, nei nostri incontri, è un museo nomade quindi dislocato e dislocante; ripensa il museo come distributore dell’opera: “Una possibilità che sposta l’estetica da fine a mezzo della ricerca artistica, e che fa diventare l’opera uno strumento per un gesto di libertà”1
Queste riflessioni sono strettamente legate alle pratiche dal Museo in Esilio che, viste le sue caratteristiche, attua esposizioni nomadi e parassitarie; nomadi in quanto è un museo senza muri che si muove e si sposta dove viene chiamato, parassitarie in quanto è un opera in sé che si colloca nelle istituzioni tentando di insinuarsi nelle contraddizioni, nelle pieghe dei luoghi che temporaneamente abita. Vi è anche un tentativo di ripensare la funzione di “protezione” che il museo si assume nei confronti dell’opera (funzione che, intendiamoci, è buona e giusta): sia quanto alla sua “immutabilità fisica” (restauri, protezione dagli agenti esterni ecc.) quanto alla sua “unicità” (impedire ogni forma di frammentazione di un’opera).
C’è un elemento determinante, di cui non è facile dare spiegazione, che è il rapporto con chi vi partecipa: l’Es-porsi come esseri umani, il continuo travalicare i ruoli, i legami profondi che si creano con persone che vivono il margine.
Non crediamo che un simile rapporto sia comune ad altri musei istituzionali caratterizzati da budget, scadenze, burocrazia. Non è retorica di museo buono o sociale, è una pratica quotidiana di lavoro che riesce a creare una produzione di senso circolare.
La curatela (etimologicamente proviene da cūra(m) ‘trattamento, cura; preoccupazione; sollecitudine, premura; amministrazione’) diventa cura tra persone che entrano in relazione; si instaura un rapporto di collaborazione liquida che si modifica a seconda delle esigenze dell’artista verso il museo e non viceversa.
In un periodo storico di relazioni mediatiche il rapporto in prima persona, spesso dovuto anche al fatto che molti artisti con cui lavoriamo non utilizzano le nuove tecnologie di comunicazione, attua una sorta di ri-sensibilizzazione, un tentativo di riattivare le nostre sensibilità come atto eversivo.
Aldo Piromalli, Pacchi
photo by Giulia Girardello
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Così il fine del Museo in esilio, che è esporre una collezione all’estero, diventa un mezzo per conoscersi, mezzi e fini si scambiano continuamente.
Oltre alla riflessione stessa del museo in relazione all’esposizione, ci sembra quindi interessante trattare le modalità di displaying di artisti che fanno parte del Museo in esilio.
Le strategie di Fausto Delle Chiaie e Aldo Piromalli affrontano in modo radicale l’idea di museo, le modalità di presentazione dell’opera, della loro fruibilità e della loro conservazione.
Fausto Delle Chiaie con il suo Museo a cielo aperto (Piazza Augusto imperatore, Roma) da vent’anni, quotidianamente, allestisce le sue opere “rubbish”, proponendo un’esposizione che dialoga con lo spazio circostante, con l’Ara Pacis, con la quotidianità dei moltissimi passanti; un museo che Cesare Pietroiusti definisce il migliore di Roma per visione artistico-curatoriale, funzionalità e costo economico (zero per la collettività).
Fausto Delle Chiaie, Museo a cielo aperto
photo by Letizia Romeo
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Aldo Piromalli, da oltre vent’anni auto-esiliato in Olanda, spedisce con regolarità settimanale in giro per il mondo dei pacchi con all’interno disegni, collage, poesie, riflessioni creando in questo modo un museo che si disperde nel mondo e la cui esposizione è nella mani di chi utilizza l’opera.
Andrea Lanini, un altro degli artisti esuli, destabilizza la percezione quotidiana del paesaggio urbano realizzando oggetti quasi-normali che sistema di notte per le strade di Roma. Ironico e provocatorio, quello che vuole ottenere è l’effetto di una specie di apparizione.
“L’idea che un’opera si consumi e muoia, abbandonata nella città, e torni nell’oscurità da cui è stata partorita è una bella metafora dell’esistenza…” dice l’artista, invertendo approcci e pratiche del consueto mostrare, creando oggetti per un occhio attento che si consuma nella sua invisibilità contrapponendosi al tempo e alla museificazione.
Tre modalità di messa in discussione da cui noi cerchiamo di imparare sempre tenendo conto dell’importanza dell’uso, ovvero l’usare e l’essere utilizzati, come pratica di collaborazione.
Andrea Lanini, Tramonto di Roma
courtesy the artist
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Gli artisti e le opere – segnalati al Museo da artisti, curatori, critici, studenti, operatori culturali – rappresentano, in un’accezione piuttosto ampia dell’arte come linguaggio, ciò che per Paolo Virno rappresenta il motto di spirito: “il diagramma logico-linguistico delle intraprese che, in occasione di una crisi storica o biografica, interrompono il flusso circolare dell’esperienza. Esso è il microcosmo nel quale si danno nitidamente a vedere quei mutamenti di direzione argomentativa e quegli spostamenti di significato che, nel macrocosmo della prassi umana, provocano la variazione di una forma di vita”2.
Nelle continue deviazioni di percorso a cui si apre il progetto e le stesse produzioni degli artisti “esuli” o “esiliati” è implicita l’esibizione della “trasformabilità di tutti i giochi linguistici”3. Attenzione però a non considerare ciò un assunto tautologico: l’azione dei nostri artisti quasi sempre avviene in uno stato d’eccezione – psichica, sociale, artistica – e non è quindi riconducibile a quella “creatività” che viene spesso considerata innata nella natura umana e che non spiega né uno stato di equilibrio né l’esilio (o l’autoesilio) da esso.
Le stesse modalità di esposizione delle opere e dei risultati della ricerca condotta dal Museo in esilio divagano e divergono su strade secondarie o su sentieri paralleli andando a inserirsi (o meglio a “ES-serirsi”) in esìli che nelle intenzioni iniziali del progetto dovevano essere geografici, ma che hanno finito per divenire contingenti.
La stessa esposizione – e i diversi pubblici a cui si rivolge di volta in volta – del Museo in Esilio (idea e collezione) torna quindi ad essere funzionale all’esibizione di quei meccanismi che consentono, divergendo dalla logica di un’idea, di variarla nella forma e nella sostanza e di produrre da essa nuovi significanti e nuovi significati.
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1 Cesare Pietroiusti, Essere un po’ fuori. L’artista e il Museo, 2009
2 Paolo Virno, Motto di spirito e azione innovativa. Per una logica del cambiamento. Bollati Bolinghieri, Torino, 2005 (pp 10-11)
3 Ibidem
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Mattia Pellegrini (Lucca, 1986) Laureando in Storia dell’arte contemporanea a La Sapienza di Roma. Artista e curatore indipendente, collabora al progetto del Museo dell’arte contemporanea italiana in esilio e del Maam (museo dell’altro e dell’altrove di Metropoliz_città meticcia). Ha pubblicato Il museo dell’arte contemporanea italiana in esilio in Dora Garcia, L’Inadeguato, Cahier #2 – Mad Marginal, per la 54a Biennale d’Arte di Venezia. In uscita il libro, curato insieme a Giulia Girardello, “Aldo Piromalli, un esilio” edito da Sensibili alle Foglie, testo che farà parte del progetto “Exile” di Dora Garcia per la mostra “Host and Guest Exhibition” nel Museo di Tel Aviv (Israele).
Davide Ricco (Maglie 1979). Curatore indipendente. Laureato in Conservazione dei Beni Culturali presso l’Università del Salento, ha conseguito un master di II livello per Curatore d’arte contemporanea presso l’Università di Roma La Sapienza. Collabora al progetto di Cesare Pietroiusti Museo dell’arte contemporanea italiana in esilio. Ha pubblicato Il museo dell’arte contemporanea italiana in esilio in Dora Garcia, L’Inadeguato, Cahier #2 – Mad Marginal, per la 54a Biennale d’Arte di Venezia.
Alessandra Meo ( Cosenza, 1981) Laureata in architettura e ricercatrice indipendente. Dal 2011 collabora al progetto del Museo dell’arte contemporanea italiana in esilio.