Museo (Muzeum – 1962)
Ci sono i piatti, ma non l’appetito.
Le fedi, ma non scambievole amore
[…]
C’è il ventaglio – e i rossori?
C’è la spada – dov’è l’ira?
E il liuto , ma non un suono all’imbrunire
[…]
La corona è durata più della testa.
La mano ha perso contro il guanto.
La scarpa destra ha sconfitto il piede.
[…]
( Wislawa Szymborska)1
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Quanto sono etnografici i nostri musei d’etnografia, ovvero, quanto aderiscono a quello statuto epistemologico che fa dell’etnografia innanzitutto lo studio delle relazione e dei processi umani? Vorrei rispondere al quesito iniziando, per necessità di sintesi, col chiedere aiuto alla prospettiva dei tre mondi di Karl Popper – il Mondo 1, quello dei corpi fisici e degli oggetti; il Mondo 2, quello dei processi mentali, delle decisioni, delle esperienze soggettive; il Mondo 3, il mondo dei prodotti della mente umana – per sostenere che una criticità sostanziale della museografia etnografica sta nell’adesione al Mondo 1, quello dei corpi fisici, al fine di sostenere l’esistenza del Mondo 3, quello dei prodotti della mente, tralasciando spesso il Mondo 2, quello dei processi e delle relazioni, difficilmente catalogabili e di certo più sfuggenti.2 Credo che una criticità di molta museografia etnografica stia nell’assenza o nella bassa densità delle espressioni del Mondo 2, quello in cui abitano le negoziazioni e i dialoghi relazionali, i processi collaborativi che realizzano e sostengono i tratti culturali delle espressioni umane.
In relazione a tale considerazione voglio sostenere due idee-forza: la prima legata ad una critica al museo etnografico, come lo conosciamo nelle diverse espressioni della sua recente storia, quale progetto bisognoso di una prospettiva etnografica che lo interroghi sulle sua stessa ragion d’essere, la seconda che vuole difendere l’expografia etnografica quale spazio di scrittura attiva e quindi riluttante al museo quale luogo della “dimostrazione” e spazio della perentorietà delle forme allestitive (spesso l’esposizione si presenta come la gamba zoppicante delle intenzioni etnografiche del museo stesso).
Vetrina nell’atrio di accoglienza – Museo degli sguardi (Rimini)
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Patrimonio
Nell’incontro fra museo ed etnografia, cosa interessa a quest’ultima? E cosa interessa al museo? Nel contemporaneo, l’abbraccio sarà mortale o prolifico? Di certo congiunti in un abbraccio con gli sguardi rivolti al mondo contemporaneo, l’etnografia e il museo si giocano, oggi più che mai, il senso ultimo della loro missione.
Per il museo l’impegno statutario (la sua missione sostanziale) sarà nella valorizzazione del patrimonio, transitandolo da uno stato passivo (la raccolta e la conservazione) ad uno stato attivo (di restituzione negoziale), per l’etnografia l’impegno sarà sul campo di una doppia prova: la prima, quella, assunta, di una sua scrittura, capace di concorrere al progetto di “patrimonializzazione attiva” attraverso la narratività del patrimonio etnografico stesso; ed una seconda, la prova a cui l’etnografia invita il museo quando questo, dicendosi etnografico, deve dimostrare la sua capacità di rendere “socialmente disponibile” il patrimonio che conserva, cioè di passare da una gestione patrimoniale esclusivamente passiva ad una gestione patrimoniale attiva, sostanzialmente la capacità di socializzare (restituendole in termini sociali) le risorse patrimoniali conservate.
Di tale scambio, attività e restituzione, voglio proporre alcuni quesiti, che ritengo sostanziali, proposti in occasione di un incontro del recente laboratorio “S-oggetti migranti” svolto al Museo Pigorini nell’ambito del progetto READ-ME, e cioè: Dove abita il patrimonio? Nell’oggetto o nel processo che lo ha determinato e abilitato all’esistenza? Quindi il patrimonio è nel contenuto dell’oggetto (piano del Mondo 3) o nelle pratiche relazionali che lo hanno fatto, e lo fanno stare al mondo (piano del Mondo 2)?
Ed ancora un quesito: alla luce dell’abbraccio delle scritture etnografiche con il progetto narrativo del museo: il patrimonio se non è narrabile, è patrimonio? Ed in maniera ancor più sostanziale: Il patrimonio è veicolato nello scambio narrativo o è lo scambio narrativo stesso ad essere patrimonio? Ed ancora più radicalmente: Se affidiamo al patrimonio il significato di “risorsa del presente” capace di permetterci di costruire un “presente del futuro”, la casa del patrimonio sarà nell’effetto fisico e documentale dei nostri musei o nell’effetto negoziale delle narrazioni che sapremo tentare? C’è da chiedersi quindi dove stia il museo. Nei suoi spazi allestiti o nei luoghi delle pratiche negoziali e narrative abitati dai testi interpretativi delle comunità della diaspora o di qualunque altro soggetto impegnato in un processo partecipativo?
Credo che buona parte delle pretese etnografiche del museo si misurino, oggi, nel rapporto fra patrimonio e narrazione, scrittura e narratività. (Con il termine narratività si intendono i fenomeni di formulazione narrativa, di scambio, di interpretazione e di ricerca del senso che si determinano e si animano attorno alle conoscenze, nonché l’assunzione, all’interno degli apparati identitari individuali e di comunità, dei paradigmi, delle figure, dei tòpoi generati dal processo narrativo-interpretativo).3
Cosa certa è che il patrimonio può attivarsi attraverso la sua narrazione. Narrazione che trae espressione nella scrittura etnografica, quando questa si presenta come costruzione fluida, partecipata, mai definita d’autorità, sempre in corso di definizione e pertanto inclusiva e attenta alle forme del dialogo ed ai valori della sua precarietà. In tal senso il patrimonio attivo è nelle azioni di restituzione partecipativa, nelle biografie e autobiografie individuali e collettive dense d’esistenze narrabili.
Installazione cortina/varsavia ’39 ’49 15.000 (particolare) – Museo Ettore Guatelli (Ozzano Taro – Parma)
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Bagagli patrimoniali
I bagagli patrimoniali sono portati a spalla. Ogni comunità, nella percezione della condizione e vicenda esistenziale dei suoi membri, può averne coscienza, ma il peso (grave o leggero) è del singolo, è individuale. Il bagaglio è individuale come individuale è il viaggio ed ogni esperienza, anche se condivisa, così come l’incontro e il dialogo.
Se incontro e dialogo sono sostanzialmente fra individui; se il dialogo è sostanzialmente nello scambio, interpretazione e negoziazione delle visioni del mondo e della realtà; se le visioni del mondo e della realtà sono quindi sostanzialmente “personali”, cioè condizionate prevalentemente dall’originale esperienza esistenziale individuale; il dialogo sarà fra individui o fra culture? Il confronto sarà fra le individuali visioni della realtà, influenzate dal provenire soggettivo o fra ciò che è chiamata cultura di provenienza (categoria facile da pensare, ma spesso ingannevole)?.
Se un dialogo concreto è possibile solo fra individui portatori d’esperienza, espressione di:
– una dimensione di provenienza
– una dimensione legata ad un immaginario condiviso
– una dimensione legata ad un immaginario individuale
– una dimensione esistenziale
– una dimensione familiare
– una dimensione migrante
– una dimensione meticcia
– e cosi via ….
quale, fra queste, denoterà l’individuo nel suo portato culturale al punto di assumerlo come testimone/rappresentante della tale o tal altra cultura? Forse che all’individuo vada lasciata l’opzione per una definizione del suo portato culturale facendo scegliere a lui quella più “abitabile”? Forse che questo ci possa aiutare a fare del museo il luogo per una etnografia dell’etnografia? E che questo possa avvenire attraverso una decostruzione partecipata del suo statuto e dei suoi assunti, storicamente e scientificamente determinati?
Temo che i musei prevalentemente impegnati a “presentare” e illustrare contenuti (Mondo 3) abbiano la tendenza a tradire la cittadinanza dei processi individuali e soggettivi che concorrono alla evidenza dei processi culturali. Il museo, nella forma che conosciamo, ha difficoltà ad ospitare l’evidenza dei processi individuali e quindi ad aderire pienamente all’etnografia quale pratica interpretativa delle espressioni culturali delle visioni del mondo e della realtà. Forse l’etnografia può offrire oggi al museo etnografico contemporaneo una occasione per porre a critica la sua stessa forma, per decostruirsi e smaterializzarsi in forme fluide, dialogiche, partecipate.
Museo dell’immigrazione – Ellis Island (New York)
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Le sfide del bagaglio. Una digressione, ma non del tutto
Alcune domande e due minuti per decidere (pensando a Ellis Island e ad ogni migrante)
Come si chiama?
Da dove viene?
Perché viene negli Stati Uniti?
Quanti anni ha?
Quanti soldi ha?
Dove li tiene?
Me li faccia vedere.
Chi ha pagato la sua traversata?
Ha firmato in Europa un contratto per venire a lavorare qui?
Ha degli amici qui?
Parenti?
Qualcuno può garantire per lei?
Che mestiere fa?
Lei è anarchico?
Cos’ha con lei?
ecc.4
Pensiamo che un bagaglio sia sempre un bagaglio e lo sia per ogni sguardo, che esso esista in quanto presente alla vista? Crediamo, inoltre, che esso possa essere “se stesso” per ognuno, sincero e schietto per ogni sguardo, nel suo presentarsi? Ma che pensa il bagaglio di tutto ciò?
Che pensa il bagaglio dell’ansia della partenza, o dell’insistenza a volerlo riempire? Cosa pensa dell’investimento nel viaggio, della capacità o goffaggine nel trascinarlo. Poi che pensa, ogni bagaglio, degli altri bagagli?
Composizione parietale – Museo Ettore Guatelli (Ozzano Taro – Parma)
Il bagaglio, come ogni altro oggetto, ha vissuto un periodo della propria esistenza in cui tutto era proteso alla sua realizzazione. Prima di entrare sui binari della relazione, ha vissuto una preistoria in cui la realtà della sua presenza è stata sostenuta della produzione e in molti casi dall’avvio nella rete dello scambio. Nella sua preistoria, è stato un bagaglio come tanti, indagabile nella forma, funzione e utilità, commerciabilità, evidenza di contenitore utile. Una volta scelto ha avuto inizio la sua storia. Se la sua vicenda, nel caso ad esempio che il bagaglio fosse mio, lo portasse ad incontrare un ricercatore impegnato in una possibile “etnografia del bagaglio”, credo che questi sarebbe interessato al mio bagaglio non in quanto oggetto emblematico e rappresentante della categoria materiale dei bagagli da viaggio, ma piuttosto al viaggio stesso, o meglio, ai miei viaggi ed al mio bagaglio attraverso la mia visione del viaggio, attraverso i miei pensieri, al punto che il bagaglio potrebbe essere assunto come una delle forme plastiche del mio viaggiare. Una mia protesi capace di offrirmi tutta una serie di opportunità nello spostamento e quindi nell’organizzazione del tempo. Ma se sarà possibile assumere il mio bagaglio quale protesi del mio corpo, la sua consistenza etnografica sarà sondabile a partire dal mio modo di viaggiare con lui, a partire dai miei pensieri di viaggio, dalle nostre testimonianze e narrazioni. Se poi il nostro etnografo fosse chiamato a partecipare ad una impresa museale cosa ammetterebbe del mio bagaglio nel museo? La sua fisicità? Il richiamo al viaggio e al viaggiare? Il fenomeno che accumuna quel bagaglio a tanti altri? A cosa sarebbe interessato, il museo bisognoso d’etnografia, se non a quel pensiero del bagaglio fatto di relazioni, processi individuali e collettivi, scelte, investimenti: l’umanità, quindi, del bagaglio.
Se il nostro ricercatore, invece che al museo etnografico di documentazione della ricerca etnografica e dell’esistenza delle cose e dei fenomeni, preferisse aderire ad un museo quale cantiere laboratoriale di produzione partecipata di patrimoni attivi? Confesso che sarei felice che il mio bagaglio fosse scambiato in un gioco biografico e autobiografico di negoziazione di esperienze, pensieri, relazioni, processi di viaggio. Sarei felice di questa sua nuova vita.
Giacimenti di oggetti – Museo Ettore Guatelli (Ozzano Taro – Parma)
Scrittura
Possiamo immaginare una etnografia museale che, emancipandosi dai fattori della “prova” dell’esistenza degli oggetti e dei prodotti, privilegi le sostanze di quella densità degli oggetti che li rende “interessanti” perché forme plastiche del pensiero, prima individuale poi collettivo?
Possiamo pensare a musei in cui lo sguardo etnografico si realizzi in scritture espositive capaci di emanciparsi dall’effetto “prova” (la cui natura è sempre storica) per offrire narrazioni e testimonianze sulle visioni del mondo, che scaturiscono da quella percezione della realtà condizionata dall’universo esperienziale individuale e collettivo? Condizionata dall’universo degli oggetti, protesi di corpi protesi a giocarsi buona parte della loro presenza al mondo, nella gestione della percezione, attraverso di essi, dello spazio e del tempo, categorie del loro stare al mondo?
Incisa nelle cose, negli oggetti, è la nostra presenza individuale e, in quanto individuale, non assimilabile ai processi della prova bensì a quelli della testimonianza, il cui carattere espressivo è nella narrazione e la sua evidenza nel racconto. Possiamo quindi far finta di nulla nel rilevare che molti dei nostri musei etnografici sono sostanzialmente “musei della prova” e quindi atti a servire il “catalogo” piuttosto che la scrittura figlia delle ricerca etnografica?
Il museo contemporaneo nasce per il pubblico, ponendo al centro della propria ragion d’essere il carattere sociale della missione culturale. In tal senso l’etnografia, che tenta di averne cittadinanza, è interrogata insistentemente in termini di scrittura e quindi sulla sua capacità di comunicare e rendere esplicito il gioco della negoziazione dei piani di realtà.
In tal senso museo ed etnografia, cosa scrivono? E come scrivono? Ma innanzitutto qual è la percezione da parte del pubblico dei significati veicolati da tale scrittura? Qual è quindi il carattere comunicativo (d’applicazione sociale) dell’etnografia nel museo?
Nel museo etnografico, in cui politica e poetica tentano di confondere il gioco dell’autorità etnografica, la scrittura dialogica a carattere partecipativo può conquistare un proprio spazio attraverso la negoziazione stessa della natura etnografica del museo. In questo caso è il museo a mettere a prova l’etnografia, chiedendole di prodursi in testi aperti e negoziabili.
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Processi
Se per l’etnografia sono significativi innanzitutto i processi (Mondo 2) e non solo i contenuti (Mondo 3) e gli oggetti fisici (Mondo 1), questa abita il museo provocandolo al cambiamento, chiedendogli di destrutturare la sua consistenza (propria del catalogo) a favore di quella precarietà dialogica che si esprime come apertura (precarietà) e critica ad ogni autorità interpretativa e quindi a favore di scritture provvisorie. Credo che la sfida dell’etnografia al museo sia sostanzialmente nel costringerlo ad assumere una natura orientata alla precarietà di ogni definizione. Nel costringerlo a partecipare a quelle logiche che fanno della negoziazione delle visioni della realtà la vera concretezza dei fenomeni di dialogo.
Spesso la perentorietà dell’esposizione etnografica permanente pare entrare in una sorta di contraddizione con l’etnografia stessa. La permanenza smorza l’originale potenzialità dialogica del progetto etnografico museale tendendo, per il carattere della sua rigidità, a fargli assumere sempre più una natura dimostrativa, quasi che permanenza e missione etnografica del museo etnografico possano entrare in conflitto di missione. Diversamente il temporaneo, il provvisorio e il precario sostengono la capacità dialogica e di negoziazione interpretativa del museo che fa della missione etnografica la propria ragion d’essere.
Sono sempre più convinto che nella forma dell’istallazione provvisoria, quando questa si dà il valore di scrittura aperta, il museo etnografico possa riconnettersi con la natura etnografica che insegue. La forma installazione può presentarsi quale occasione di riflessione sulle cose quando queste sono scelte ed esposte per farle partecipare ad una sorta di azioni istantanee di scrittura (appunto la forma installazione).
Che sia giunto il tempo per una critica radicale all’esposizione etnografica quando questa si realizza in allestimenti permanenti? Che la natura etnografica dell’esposizione non possa più sottrarsi dal dover fare concretamente i conti con la scrittura etnografica e con il valore della sua provvisorietà? Che l’esporre etnografie possa ricondurre la missione etnografica del museo alla ragion d’essere sostanziale del suo statuto di sguardo sulle umanità, che per loro natura sono fluide, mai date, in divenire, interlocutorie?
Se il museo contemporaneo d’antropologia è chiamato sempre più ad ospitare pratiche di negoziatore di significati, ne segue che l’etnografia che lo abita, più che una “disciplina al museo” debba essere un’arte (spesso artigianale): l’arte del permettere tessiture di dialoghi interpretativi, che richiede non solo rigore, ma una buona dose d’immaginazione e creatività.A conclusione voglio chiedere aiuto a quella prospettiva, presentata ai visitatori da Jacques Hainard e Marc-Olivier Gonseth nel Museé d’ Ethnographie di Neuchatel (www.men.ch) quale “manifesto” delle strategie espositive del museo, che credo possa sintetizzare il senso ultimo di questa mia riflessione:
. Esporre è turbare l’armonia
. Esporre è disturbare i visitatori nella loro tranquillità intellettuale
. Esporre è suscitare emozioni, collera, voglia di saperne di più
. Esporre è costruire un discorso specifico al museo, fatto di oggetti, di testi e d’iconografia
. Esporre è mettere gli oggetti al servizio di un proposito teorica, di un discorso e di una storia e non il contrario
. Esporre è suggerire l’essenziale attraverso la distanza critica, marcata dall’umorismo, e dall’ ironia
. Esporre è lottare contro le idee preconcette, gli stereotipi e l’ignoranza
Ma innanzitutto, mi permetto di sottolineare,
. Esporre è vivere intensamente un’esperienza collettiva ..
Il testo scaturisce dai temi trattati nell’intervento di Mario Turci al Colloquio Internazionale RIME (Réseau Internationqal de Musèes d’ Ethnographie) “Oltre la modernità. I musei etnografici hanno bisogno d’etnografia?” 18-20 aprile 2012 – Museo Nazionale Preistorico Etnografico “Luigi Pigorini”.
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1 W. Szymborska, La gioia di scrivere. Tutte le poesie (1945-2009), Milano, Adelphi, 2012, p. 109.
2 Vedi K.R. Popper, I tre mondi. Corpi, opinioni e oggetti del pensieri, Bologna, il Mulino, 2012.
3 Da Laboratorio della Comunicazione e della narratività – Dipartimento Scienze della Cognizione e della Formazione – Università degli Studi di Trento.
4 In G. Perec, Ellis Island. Storie di erranza e di speranza, Milano, Archinto, 1996, pp.14-16.
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Mario Turci. Antropologo, Architetto e Museologo. Direttore del Museo Etnografico di Romagna (Santarcangelo di Romagna), del Museo Ettore Guatelli (Ozzano Taro – Parma) e della Fondazione “Culture” (Santarcangelo di Romagna – Rimini); docente di “Scenografia e allestimento museale” presso la scuola di specializzazione Beni DEA di Perugia e di “Expografia etnografica” presso la scuola di specializzazione Beni DEA di Roma-La Sapienza. E’ stato docente di “Storia delle cultura materiale” e di “Antropologia Museale” presso l’ Università di Parma. Coordinatore del Sistema Museale della Provincia di Parma.