Harlem on my mind. Cultural Capital of Black America. 1900 – 1968.
Vista sulla “1940 – 1949. War, Hope and Opportunity”
<< It was not a story to pass on>>1, scrive Toni Morrison in “Beloved” utilizzando un’espressione inglese traducibile come <<Non era una storia da tramandare>> o anche <<Non era una storia da ignorare>>. Assumerò entrambi i significati di questa locuzione per introdurre Harlem on my mind. Cultural Capital of Black America 1900 – 1968, la grande mostra promossa dal Metropolitan Museum of Art nel 1969 e pensata, con le parole di Thomas P. F. Hoving, allora direttore del museo, come spazio di discussione, confronto e dialogo << between people, and particularly between black people and white people>>2.
Al centro di una delle più controverse esposizioni di quegli anni – dalle quale ebbe origine l’esperienza del Black Emergency Cultural Coalition (1969-70) – fu la scelta del curatore, Allon Schoener, di documentare la storia del quartiere e dei suoi abitanti attraverso la selezione di un nutrito corpo di immagini fotografiche, più di duemila, rigettando le istanze di partecipazione all’organizzazione ed elaborazione del progetto avanzate dai residenti e decretando l’esclusione di opere prodotte dalla stessa comunità di artisti afro-americani.
<<The ethnographic turn toward African American culture in the art museum comes into focus through this exhibition. As if they were unable to represent themselves, Harlem residents were interpreted through the Met and packaged as cultural object. By considering all people of Harlem as artists, and the geographic space of Harlem as an artwork, the exhibition prohibited any sense of diversity within the Harlem community>>3. Tornano in mente le parole di James Clifford che nel 1997, mettendo in guardia dalla deriva astratta di termini come autenticità ed ibridismo, scriveva << Il più delle volte, ciò che conta politicamente è chi mette in scena la nazionalità o la transnazionalità, l’autenticità o l’ibridismo, e contro chi lo fa, con quale potere relativo e capacità di sostenere un’egemonia.>>4 La scelta del MET, orientata con questa mostra ad una politica espositiva forse consolatoria, di certo pacificatrice, non risolveva ma, al contrario, contribuì a dilatare le numerose problematicità del contesto sociale, politico e culturale afro -americano, in un decennio fortemente connotato prima dall’azione del civil rights movement, il movimento di liberazione nero sviluppatosi nelle zone urbane e rurali del Sud a cavallo tra gli anni ’50 e ’60 in opposizione alla struttura segregazionista vigente, poi dall’emergere del Black Power, che diede preminenza al freedom struggle ormai definito in termini di coscienza e autonomia nera5. Il Black Power rappresentò di fatto una delle facce del movimento per i diritti civili: se Martin Luther King aveva predicato la piena integrazione dei neri nella società “bianca” americana, da realizzare attraverso un’azione congiunta tra i due “gruppi” ed il ricorso ad una politica non violenta ispirata da Gandhi, il Black Power invece, movimento composto esclusivamente da neri, legittimò il ricorso alla protesta violenta e rivendicò una propria autonomia culturale individuata nella comune matrice africana.
Quali furono allora gli elementi di novità e le criticità introdotte da Harlem on My Mind, all’interno di un così complesso quadro di riferimento? La mostra curata da Allon Schoener, inaugurata nel gennaio del 1969 e destinata ad inasprire criticità già sollevate l’anno precedente dal Whitney Museum con The 1930s: Painting and Sculpture in America – dove la radicale omissione di artisti afro-americani aveva immediatamente provocato la reazione della comunità nera e prodotto come risultato l’allestimento di una contro – esposizione dal titolo inequivocabile, Invisible Artists: 19306 – riportò l’attenzione sull’identità e la funzione dello spazio espositivo in quanto dispositivo di assoggettamento che definisce e regola ciò che può essere visto, i suoi modi di condizionamento, il tipo di discorsività che mette in atto, la divisione dei ruoli che conserva etc.
La mostra si snodava lungo tredici sale, attraverso un allestimento cronologico articolato per decenni: 1900 – 1919: From White to Black Harlem; 1920 – 1929: An Urban Black Culture; 1930 – 1939: Depression and Hard Times; 1940 -1949: War, Hope and Opportunity; 1950 – 1959: Frustration and Ambivalence; 1960 – 1968: Militancy and Identity. Il materiale selezionato consisteva principalmente di immagini fotografiche tutte rigorosamente in bianco e nero, alcune tratte dai quotidiani e dalle riviste più famose dell’epoca, altre provenienti da archivi fotografici cittadini messi a disposizione dello staff di ricercatori di Schoener, altre ancora opere di artisti come James Van Der Zee – una delle figure più carismatiche dell’Harlem Renaissance, conosciuto soprattutto come ritrattista della comunità afroamericana newyorkese – Gordon Parks e Lloyd Yearwood.
Copertina di “Life”, marzo 1968. Foto di Gordon Parks
Fin dall’inizio il lavoro di selezione ed ordinamento dei materiali si rivelò estremamente problematico. Così nella sala dedicata al decennio 1950 – 1959, la questione sul come rappresentare il confronto tra Malcom X da un lato e Martin Luther King J. dall’altro, comportò immediatamente una decisione di tipo politico : << Should you emphasize the early or the late Malcolm? Malcolm the uncompromising Black Nationalist or Malcolm the man who ended his life edging toward a new position? The exhibit settles these questions in a manner that will not be to everyone’s taste, but the real problem lies elsewhere: Who is making the decision to interpret Malcolm?>>.7 La soluzione adottata da Schoener consistette nel rappresentare i due leader alla stregua di ideologie binarie, complementari e contrapposte, permettendogli quest’ interpretazione di superare l’ostacolo di una restituzione molto più articolata, e realistica, dei loro rapporti. L’assenza di potenziale critico e trasformativo della mostra fu il risultato del controllo totale esercitato dal MET, che non permise ad alcuna delle istituzioni di Harlem – con le quali pure entrò in una dimensione (fittizia) di dialogo – di prendere parte al lavoro curatoriale. In questo senso è da leggere l’azione dell’Harlem Cultural Council che nel corso del 1968 ritirò il suo supporto in segno di dissenso e di protesta, rendendo ancora più evidente quanto la rappresentazione di Harlem all’interno della mostra fosse il risultato esclusivo della sola visione di Schoener, la sua opera d’arte, concepita e formalizzata in modo tale da contenere le istanze di autorappresentazione promosse dalla comunità, e neutralizzare gli elementi potenzialmente conflittuali o comunque inassimilabili dal suo modello discorsivo.
Un’eccezione significativa destinata ad avere esiti paradossali venne fatta da Hoving quando decise di inserire un terzo testo all’interno del catalogo della mostra, accanto alla sua prefazione e all’introduzione di Schoener. Si trattò di fatto dell’unico contributo testuale elaborato da un residente di Harlem e venne scritto da Candice Van Ellison, da poco laureatasi alla Theodore Roosevelt High School, nel Bronx. Il saggio ricostruì i rapporti esistenti tra la comunità nera, irlandese, ebraica e portoricana di New York, descrivendone la storia a partire dagli inizi del Novecento ed ampliando notevolmente il quadro di riferimenti politici e sociali fin li utilizzati dal curatore. Questa una parte del brano che venne successivamente “incriminato”: << It is true that only a small portion of Harlem’s population is Irish, yet a strong Irish influence is exerted on Harlem through the city’s police force. As early as 1900, when the city’s main poverty concentration was in the Tenderloin, a bloody three-day riot was sparked when an Afro-American named Arthur Harris knifed and killed an Irish policeman who was manhandling his girl. This incident was just the spark needed to set off the already strained Irish–Afro-American relations. The numerous tales of police brutality in the riot ranged from policemen merely looking the other way while mobs attacked Blacks, to the arresting of Negroes and beating them senseless inside the precinct. . . . Anti-Jewish feeling is a natural result of the black Northern migration. Afro-Americans in Northeastern industrial cities are constantly coming in contact with Jews. Pouring into lower-income areas in the city, the Afro-American pushes out the Jew. Behind every hurdle that the Afro-American has yet to jump stands the Jew who has already cleared it. Jewish shopkeepers are the only remaining “survivors” in the expanding Black ghettoes. This is especially true in Harlem, where almost all of the high-priced delicatessens or other small food stores are run by Jews. . . The lack of competition in this area allows the already badly exploited Black to be further exploited by Jews. One other important factor worth noting is that, psychologically, Blacks may find anti-Jewish sentiments place them for once, within a majority. Thus, our contempt for the Jew makes us feel more completely American in sharing a national prejudice.>>. Il saggio ebbe l’effetto di sospendere, con le parole di Roland Barthes, quel <<mito ambiguo della comunità umana>>8 che Harlem on My Mind aveva messo in scena, e sollevò numerose accuse di antisemitismo. Il 17 gennaio del 1969 il sindaco Lindsay definì il catalogo “razzista” e chiese che non venisse più venduto. Il 18 gennaio Dore Schary, presidente dell’Anti-Defamation League, affermò che nel catalogo c’era qualcosa di simile ad una delle peggiori forme di odio rigurgitate dai nazisti. Pochi giorni dopo il consiglio della città di New York minacciò il MET di ritirare i propri fondi fin quando non avesse interrotto la vendita del volume etc.
Parallelamente le scelte operate da Schoener lungo tutto il corso di progettazione della mostra e del suo allestimento, furono tali da trasformare Harlem on my mind in un punto di avvio necessario alle trasformazioni che di li a poco avrebbero interessato il rapporto tra artisti e istituzioni museali.
La non inclusione di opere d’arte prodotte dalla comunità afroamericana e la scelta di allestire una mostra a carattere socio-documentario, fu il primo elemento ad essere recepito come insolito e problematico, tanto più in riferimento al MET, un museo conosciuto in tutto il mondo per il prestigio delle sue collezioni. << In short, the Harlem individual as artist would have disturbed the symbolic value of Blackness needed to reinscribe the Met’s Whiteness. This investment in Whiteness defined the museum’s identity as privileged, racially pure, and therefore entitled to define what art could and could not be along aesthetic and cultural lines. Eliminating art from the Harlem community confirmed a hierarchy of cultural production in the art world.>>9. L’artista William T. Williams dichiarò apertamente la sua posizione nel corso di un simposio intitolato “The Black Artist in America”: << One of the things that’s happening is that every show that concerns Black artists is really a sociological show. The Harlem on My Mind show is a pointing example of total rejection on the part of the establishment, of saying “Well, you’re really not doing art,” or of not dealing with the artists that may exist or do exist in Harlem. These shows deal with the sociological aspects of a community, a historical thing.>>10.
Nel 1968 due noti artisti della comunità afro-americana di Harlem, Romare Bearden and Norman Lewis, si incontrarono con Schoener per esprimere le loro perplessità circa l’adozione di immagini fotografiche come strumento principale di rappresentazione, sostenendo che se il MET avesse voluto aprire le porte ad Harlem, avrebbe dovuto includere necessariamente i suoi artisti. Ripetuti incontri si succedettero inutilmente lungo tutto il corso dell’anno culminando in una dimostrazione contro la mostra organizzata da Bearden, Hutson, e Benny Andrews. Dopo mesi di discussione con gli amministratori del museo, Andrews formò il Black Emergency Cultural Coalition allo scopo di continuare a sostenere la protesta contro il MET attraverso una serie continua di azioni di picchettaggio e contro-informazione. Le criticità sollevate dagli artisti del gruppo – che si ponevano all’interno di una cornice discorsiva rappresentata dalla controcultura americana di quegli anni, all’incrocio tra attivismo ed Institutional Critique – erano finalizzate a porre in evidenza l’eredità assunta dall’istituzione museale nel perpetrare un sistema egemonico, razzista e patriarcale. Il loro impegno è andato di pari passo ad un periodo di conquiste caratterizzate dalla fondazione di numerosi centri dedicati alla storia e all’arte delle comunità afroamericane: l’International Afro -American Museum, Detroit (1965); Anacostia Museum of Culture and History, Washington, DC (1967); Museum of the National Center for Afro -American Art, Boston (1968); Museum of African American Art, Los Angeles (1976), Afro-American Historical and Cultural Museum, Philadelphia (1976) California; African American Museum of Culture and History, Los Angeles (1979).
Così, scrive Bridget Cooks << Harlem on My Mind forced the Black visual arts community to organize against unfair representations of Black culture, the exclusion of Black artists from exhibitions, and discrimination in the hiring of Black museum professionals.>>11
Oggi che le modalità di rapporto tra rappresentanza e potere risultano profondamente mutate, facciamo riferimento a questi eventi come alternativa fondamentale all’interpretazione avanguardistica del Novecento. La critica istituzionale del museo è ciò che accomuna artisti come Broodthaers, Haacke, il gruppo degli Art Worker’s Coalition o ancora quelli del Black Emergency Cultural Coalition. Nell’epoca del Late Capitalist Museum, secondo la famosa definizione della Krauss, li guardiamo con la consapevolezza che se la modernità è andata in polvere una volta per tutte, come ha già detto Appudurai, con lei è andato il polvere anche il modernismo e la funzione attribuita ai luoghi ad esso legati.
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1 Morrison Toni, Amatissima, Frassinelli, Milano 1996
2 Hoving Thomas, “Preface”, in Harlem on my mind. Cultural Capital of Black America 1900 – 1968, catalogo della mostra, Random House, New York 1968
3 Bridget R. Cooks, Black Artists and Activism: Harlem on My Mind, 1969, in “American Studies”, Vol.48, No.1, Spring 2007, p.21
4 Clifford James, Strade. Viaggio e traduzione alla fine del XX secolo, Bollati Boringhieri, Torino 1999 (ed. orig. 1997), p.17
5 Venturini Nadia, Con gli occhi fissi alla meta. Il movimento afroamericano per i diritti civili 1940 – 1965, Franco Angeli, Milano 2010
6 Ault Julie (a cura di), Alternative Art New York 1965 – 1985, University of Minnesota Press, Minneapolis – London 2002
7 Genovese Eugene, An Historian Looks at Hoving’s Harlem: Harlem on His Back, in “Artforum” n.7, February 1969, p. 35
8 Barthes Roland, La grande famiglia degli uomini, in Miti d’oggi, Einaudi, Torino 1994, (ed. orig. 1957), p. 172
9 Bridget R. Cooks, op. cit., p. 22
10 Bearden Romare, Gilliam Sam Jr., Hunt Richard, Lawrence Jacob, Lloyd Tom, Williams William and Woodruff Hale, The Black Artist in America: A Symposium, in “The Metropolitan Museum of Art Bulletin”, new series, Vol. 27, No. 5 (Jan., 1969), p. 246
11 Bridget R. Cooks, op. cit., p. 34
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Michela Gulia è storica dell’arte e curatrice indipendente. Ha lavorato presso la Fondazione Baruchello (Roma) e per UnDo.net, dove ha curato un focus sulle realtà no profit attive nel campo dell’arte contemporanea. Recentemente si è occupata del coordinamento scientifico del convegno “Mappe e linguaggi del contemporaneo” svoltosi a Matera in occasione del Festival dell’Arte, dell’Antropologia e delle Scienze, e di “Rupextre”, residenza per artisti ed antropologi. Scrive per Arte e Critica.