Cittadinanza globale e scuola: quale rapporto possibile?
Sono diversi gli autori che accanto al termine di cittadinanza multiculturale (Kymlicka, 1995), cosmopolitica (Held, 1995), hanno avanzato il termine di cittadinanza globale (Benhabib, 2008), flessibile (Ong, 1999) o ancora planetaria (Annino, 2013). Nello specifico, queste tre ultime espressioni meglio sintetizzano il senso della cittadinanza in quanto riescono a coniugare il livello nazionale con quello internazionale, sottolineando le «identità multiple» che convivono in uno stesso soggetto. Dal punto di vista culturale e pedagogico, la cittadinanza globale rappresenta una sfida possibile. Con l’espressione cittadinanza globale si definisce quel livello di appartenenza che supera la dimensione locale e nazionale, in vista di un unico sistema-mondo che presuppone in ogni persona la coesistenza di una pluralità di identità e una molteplicità di appartenenze (familiare, sociale, religiosa, culturale, etnica, professionale): in questo senso, il cittadino globale è colui il quale esercita i suoi diritti non solo in quanto cittadino di uno stato, ma anche e soprattutto come persona. La cittadinanza globale e democratica attribuisce a ciascun individuo la libertà di occuparsi della comunità attraverso l’affermazione dei propri diritti, ma anche di quelli altrui e, dunque, di esercitare principi di responsabilità in uno spazio caratterizzato dalla solidarietà e dall’interesse comune. Per cittadinanza flessibile, invece, si intende la tensione costante tra locale e globale da parte di chi desidera mantenere una doppia cittadinanza, ovvero risiedere stabilmente in un paese senza rinunciare alla propria nazionalità d’origine.
Audigier (2002) situa tali tensioni al centro della riflessione sull’educazione alla cittadinanza e ne offre un ulteriore livello di problematizzazione che muove dal riconoscimento della scuola come luogo in cui le contraddizioni evidenziate trovano un’elaborazione ancora più radicale: per un verso, educare alla cittadinanza significa fare riferimento alla trasmissione di valori codificati da una comunità o da uno stato nazionale (anzitutto i valori della democrazia), per un altro, al contrario, la scelta dei valori risponde ad un principio di libertà e di autonomia che il soggetto che si educa è chiamato a esercitare. La scuola è, quindi, il luogo deputato a formare i cittadini e a promuovere i valori della democrazia, ma la scuola stessa non è una democrazia (Audigier, 2006), insegnanti e alunni, adulti e bambini hanno ruoli e funzioni diversi, anzitutto rispetto alla dimensione e distribuzione del potere. Queste contraddizioni, tutt’altro che eliminabili, dal momento che nascono dalle opposte tensioni che costituiscono l’agire educativo e dalle ambiguità proprie del sistema di diritti e doveri che qualificano lo status di cittadino, impongono all’educazione alla cittadinanza e, in senso più generale, alla scuola come istituzione educativa, la necessità di perseguire un principio di coerenza (Audigier, 2006) tra le scelte e le modalità di azione degli adulti e i valori di cittadinanza cui si dichiara di aderire.
L’indagine ICCS (International Civic and Citizenship Education Study), condotta nel 2009, ha proposto a un campione di docenti di scegliere tra dieci obiettivi di educazione civica e alla cittadinanza, i tre che consideravano più importanti. Da tale ricerca risulta che la promozione della conoscenza di diritti e doveri dei cittadini è considerata l’obiettivo più importante dell’educazione civica e alla cittadinanza (62,8%). Lo sviluppo del pensiero critico e autonomo si trova tra i primi tre obiettivi scelti da più della metà degli insegnanti coinvolti (57,9%). All’estremo opposto, una bassissima percentuale di insegnanti ha votato per la “preparazione degli studenti all’impegno politico”: solo un 4,4% lo ha considerato un obiettivo importante dell’educazione alla cittadinanza. Si tratta quindi di dati che rivelano ancora uno scarto presente nelle rappresentazioni dei docenti rispetto al pensare l’educazione alla cittadinanza come un insieme programmatico di conoscenze da trasmettere e non come un approccio all’educazione trasversale, che deve essere vissuto, sperimentato e agito da insegnanti e bambini (Santerini, 2010; Meirieu, 2015).
Tuttavia, analizzando i due rapporti di Eurydice del 2012 e del 2017 si nota un incremento dell’impegno generale delle istituzioni scolastiche nell’includere i bambini, sempre più piccoli, nel processo democratico e nell’integrare tale esperienza nella vita scolastica. È in quest’ottica che si sviluppano nelle scuole iniziative come “la città dei bambini” o i “consigli dei ragazzi”, dove gli alunni sono messi nelle condizioni di praticare il proprio diritto alla parola, il cui esercizio, come evidenziato dalle Indicazioni Nazionali (2012), deve essere prioritariamente tutelato ed incoraggiato in ogni contesto scolastico. È, infatti, attraverso la parola e il dialogo che si costruiscono significati condivisi, si opera per sanare le divergenze, per acquisire punti di vista nuovi, per negoziare e dare un senso positivo alle differenze, così come per prevenire e regolare i conflitti.
Dalle indagini emerge quindi come, a distanza di qualche anno, si stia diffondendo un approccio trasversale e diffuso all’educazione alla cittadinanza, tuttavia, per quanto riguarda la ricaduta didattica di tale impostazione, i dati risultano contrastanti e strettamente connessi alla soggettività del singolo docente. Specialmente a livello nazionale, non essendo prevista una formazione obbligatoria su temi legati all’intercultura, all’integrazione e alla cittadinanza, la preparazione di insegnanti e di educatori risulta essere spesso disomogenea (Pastori, 2015). Soprattutto nella scuola dell’infanzia e primaria vi è una disponibilità da parte degli insegnanti, un atteggiamento non di critica o rifiuto verso i riferimenti culturali altri: i limiti, tuttavia, in questi livelli del sistema scolastico, sono quelli di una valorizzazione ancora eccessivamente ingenua e legata ad elementi folcloristici delle differenze culturali e non impegnata ad affrontare in modo fondato e consapevole istanze e bisogni del percorso di crescita dei bambini, prescindendo dal fatto che l’educazione interculturale sia una prospettiva educativa oggi da proporre anche in assenza di alunni stranieri (Derman-Sparks, Ramsey, 2006).
La ricerca-azione descritta nel presente contributo si è quindi proposta di promuovere una rivalutazione dell’immagine della scuola rendendola luogo per l’elaborazione e la diffusione di una nuova cultura dello scambio, dell’incontro e della cittadinanza globale.
Il Progetto Fei “Le radici e le ali. Giovani identità in gioco si incontrano e si raccontano nella scuola del futuro”
La ricerca-azione presentata fa riferimento a un’indagine più ampia svolta, all’interno dell’azione 3-Progetti Giovanili, di un progetto FEI (Fondo Europeo per l’integrazione di cittadini di paesi terzi 2007-2013), dal titolo “Le radici e le ali. Giovani identità in gioco si incontrano e si raccontano nella scuola del futuro”, realizzato in tre Istituti Comprensivi della zona 7 del Comune di Milano, nell’anno scolastico 2013-2014. All’interno di questo contributo saranno descritti i risultati raggiunti in uno dei tre contesti coinvolti, nello specifico, nella scuola primaria Lombardo Radice, appartenente all’ I.C. Calasanzio.
L’obiettivo del progetto è stato quello di realizzare un percorso di ricerca e formazione con gli insegnanti, al fine di promuovere la co-progettazione di esperienze didattiche laboratoriali in classe sui temi dell’identità, delle differenze e della cittadinanza.
L’intento è stato quello di disegnare un percorso di ridefinizione della proposta educativa interculturale nella scuola, al fine di sostenere il percorso identitario e il successo formativo degli alunni, anche a partire dal forte pluralismo delle appartenenze di origine e dalla relazione con la famiglia.
La prospettiva adottata è stata quella di considerare l’intercultura come trama della vita scolastica e didattica, come oggetto che entra nei discorsi quotidiani con i bambini, come paradigma attraverso cui rivedere aspetti curricolari, metodologico-didattici e relazionali (Pastori, 2015). Tale prospettiva ha richiesto un ascolto attento dei vissuti e delle scelte dei bambini e delle loro famiglie, ha portato l’attenzione sul bisogno – spesso espresso esplicitamente – dei bambini di sentirsi appartenenti ad una società, una cultura, oltre che di recuperare e vivere come un’opportunità le origini culturali familiari e proprie (la dignità di tutte le lingue e culture, il vantaggio del plurilinguismo e pluriculturalità come versatilità, la consapevolezza di registri culturali diversi ecc.). Il progetto ha dunque ricercato un equilibrio possibile tra “le radici e le ali, il passato, il presente e il futuro di vita” aprendo lo sguardo verso una cittadinanza plurale e globale, in grado di riconoscere una cittadinanza comune nella diversità.
Nello specifico, il piano complessivo del progetto può essere sintetizzato in quattro fasi:
Fase 1: Mappatura delle attività esistenti nella scuola e esplorazione di idee e rappresentazioni degli insegnanti.
Fase 2: Co-progettazione con gli insegnanti di percorsi interculturali; realizzazione di seminari formativi per i docenti.
Fase 3: Implementazione dei percorsi didattici, osservazioni in aula da parte del ricercatore e incontri di supervisione con i docenti a partire dall’analisi delle documentazioni raccolte.
Fase 4: Costruzione di un evento finale e valutazione del percorso con gli insegnanti.
Durante la prima fase è stata realizzata una mappatura delle attività già presenti nella scuola, dedicate all’educazione interculturale e all’inclusione di alunni di diversa origine culturale. Successivamente, il team di ricerca ha condotto interviste e focus group con i docenti dei diversi istituti al fine di esplorare le rappresentazioni e le idee su alcune tematiche cruciali per l’educazione interculturale quali l’identità, l’accoglienza, l’integrazione, la cittadinanza.
Dopo questa prima fase di ricognizione, il progetto ha previsto una fase di co-progettazione di percorsi, dove le diverse progettazioni didattiche dei docenti sono state supportate e supervisionate da un ricercatore.
Inoltre, l’analisi dei dati raccolti attraverso i focus group e le interviste, ha evidenziato, da parte dei docenti, una esigenza di formazione in grado di coniugare assunti teorici relativi all’educazione interculturale e all’educazione alla cittadinanza con la didattica d’aula quotidiana. Quindi, oltre al supporto da parte dei ricercatori in fase di progettazione e di realizzazione delle proposte didattiche, sono state offerte agli insegnanti, partecipanti al progetto, delle esperienze laboratoriali (Zecca, 2016) sull’identità narrata, sulla valorizzazione e ricostruzione delle differenze come pilastro fondativo della cittadinanza globale e un seminario di tipo metodologico riguardante la ricerca-azione con i bambini.
Nella terza fase del progetto è stato chiesto ai docenti di realizzare con i bambini i diversi percorsi progettati e di documentarli attraverso trascrizioni di discussioni, raccolta di materiali prodotti, fotografie, video e diari di bordo. Le documentazioni sono divenute oggetto d’analisi a partire dalla predisposizione di setting di confronto e dialogo all’interno del gruppo di ricerca allargato (ricercatori- insegnanti) (Savoie‐Zajc, Descamps‐Bednarz, 2007).
La quarta fase ha previsto: la realizzazione di un evento finale all’interno del quale potesse essere reso visibile alla comunità il percorso svolto e l’elaborazione di un bilancio formativo con i docenti dell’esperienza vissuta, attraverso questionari di valutazione.
I materiali raccolti sono stati analizzati dal gruppo di ricerca allo scopo di individuare categorie descrittive dei cambiamenti avvenuti nelle pratiche durante l’indagine. Il team di ricerca ha operato quindi su diversi livelli:
- ha progettato il percorso formativo sperimentale dei docenti;
- ha condotto il monitoraggio e l’analisi sia del percorso formativo, sia delle documentazioni dei percorsi didattici svolti nelle classi.
Breve cronistoria della scuola primaria Lombardo Radice
La scuola primaria Lombardo Radice si trova al numero 83 di via Paravia, nel lato ovest del quadrilatero del quartiere San Siro. È stata più volte definita “laboratorio di integrazione”, grazie alla sua percentuale record di iscritti stranieri, il 95%. L’utenza di riferimento della scuola è quasi totalmente proveniente dalle case dell’A.L.E.R. di San Siro, ed è costituita da alunni socio-culturalmente svantaggiati, provenienti da famiglie straniere, per la maggior parte arabe, con problemi di immigrazione, di integrazione, di disoccupazione o di reddito al limite della soglia di sussistenza.
La scuola primaria Lombardo Radice è stata da tempo un luogo di incontro. Negli anni Sessanta e Settanta l’incontro avveniva fra bambini milanesi e bambini napoletani («i figli dei cavalli», li chiamavano, perché i loro padri facevano gli stallieri all’ippodromo di San Siro); da qualche anno a questa parte, l’incontro è fra bambini italiani e bambini stranieri; e perfino fra stranieri di diverse nazionalità. Nessuna scuola in Italia è infatti più multietnica di questa. Su 93 alunni, 80 sono stranieri, di ben sedici nazionalità diverse.
La scuola ha rischiato in diverse occasioni di essere chiusa: nell’anno scolastico 2011-2012, alla classe prima della scuola primaria si erano iscritti diciotto bambini, ma, essendo la percentuale di stranieri superiore al 30% degli iscritti, la classe non è stata avviata.[1] La notizia ha provocato diverse rimostranze e manifestazioni, la preoccupazione maggiore riguardava la chiusura di una scuola che per i bambini e le famiglie da anni rappresentava l’unica possibilità di un vero inserimento in Italia. La scuola soffre da tempo di carenze di investimenti e mostra l’esigenza di consolidare prassi già in essere, ma ancora deboli in termini di implementazione di progetti congiunti sia sul fronte delle attività interne alla scuola (in particolare in grado di valorizzare il protagonismo dei bambini, delle famiglie e degli insegnanti), sia su quello di un’azione più ampia a livello territoriale.
Le interviste e il focus group iniziale con i docenti
Dall’analisi effettuata attraverso una pluralità di strumenti qualitativi (Mantovani, 1998), quali interviste e focus group iniziali con i docenti della scuola primaria Lombardo Radice, sono emerse le seguenti rappresentazioni rispetto al quartiere e alla scuola: “è un quartiere di anziani, di case popolari, piccole, con un alto numero di casi psichiatrici, e non c’è un presidio.”
“Sono qui e da qua non se ne vanno mai, gli italiani che sono rimasti, sono qui da generazioni, sono quelli che non se ne sono mai potuti andare, (…), chi è rimasto, non ha mai immaginato di fare un salto di qualità; è un quartiere ai limiti della sussistenza”.
Il quartiere viene percepito dai docenti come “spazio senza presidio”, dove regna una condizione di povertà e degrado costante. Questa immagine è il riflesso della popolazione che abita il quartiere e si riverbera nella descrizione che gli insegnanti danno dei bambini della scuola: “questi sono bambini che non escono dal quartiere, non sono mai andati in piazza del duomo”.
“Alcuni bambini hanno visto gente a cui strappavano le braccia, loro sono molto attenti agli arrivi con le barche, magari conoscono qualcuno”.
“Venerdì prima di scuola natura, aveva dei tagli sul corpo, l’ha mostrato alla maestra, che ha chiamato il dirigente poi la mediatrice, abbiamo scoperto che la bambina era in età di sviluppo e l’avevano portata dal nonno di un altro bambino considerato un santone, che le aveva fatto questi tagli per far sgorgare il sangue impuro”.
La rappresentazione abbastanza diffusa che i docenti hanno degli alunni è quella di bambini “deprivati”, poco stimolati in famiglia, esposti a diverse tradizioni culturali spesso in contraddizione l’una con l’altra.
A tal proposito la preoccupazione degli insegnanti riguarda le caratteristiche di una proposta interculturale, didatticamente efficace e realisticamente attuabile, dal momento che in questa scuola “l’intercultura…è la normalità” . Gli insegnanti dichiarano di avvertire spesso il peso di dover conciliare due dimensioni principali dell’esperienza scolastica: la dimensione relazionale, dettata dall’alta densità delle relazioni del contesto, e la dimensione cognitiva, finalizzata alla costruzione di saperi: “devi essere una medaglia con due facce, in grado di guardare le cose sia con il tuo punto di vista, sia con quello degli altri, per arrivare ad un paragone costruttivo pure essendo consapevole che la diversità, spesso si trasforma in conflittualità”.
Rispetto alla didattica praticata nelle classi i docenti riferiscono che un approccio tradizionalmente inteso, in contesti come questo, non è possibile: “il libro (inteso come sussidiario) potrebbe non esistere. Il programma c’è… alla fine della quinta vorremmo che sapessero leggere, fare analisi grammaticale, ma meno si parla meglio è!”, “magari programmi una cosa, ma poi accade qualcosa, o qualcuno di loro ti porta un esempio.. e a quel punto si cambia, è molto modulata su di loro!”.
La didattica quotidiana deve essere necessariamente pensata e progettata a partire da quello che accade: “si è molto sensibili alle esigenze”, “spesso con loro si discute, sono loro a portare esempi e ogni volta diventa un’occasione di apprendimento”.
Si creano spesso diverse possibilità di apprendimento “interculturale” da aneddoti che i bambini raccontano: “le bambine di quinta mi dicevano – mi auguro di sposare un uomo italiano così lavora, oppure quando mi sposerò… questo è culturale! A 12 anni una bambina è stata promessa, e si è sposata, per molti è ancora così…alcuni bambini si chiedevano: se trovi una moglie che non si vuole mettere il velo?”.
“Una ragazza in quinta, una in gamba, di quelle che diceva il velo non lo metterò, l’abbiamo rivista dopo due anni, aveva il velo, lei ci ha detto che era stata una sua scelta indossarlo…”.
La criticità, per i docenti, consiste nell’essere preparati ad accogliere queste occasioni quotidiane e nel trasformarle in situazioni di apprendimento inclusivo e aperto alla pluralità, di esercizio e di acquisizione di competenze essenziali per la vita del mondo globalizzato.
I risultati della ricerca-azione a scuola
I risultati conseguiti dal progetto riguardano due livelli di apprendimento, quello dei docenti e quello degli alunni. Per quanto riguarda i docenti, attraverso i laboratori di formazione è stata messa a punto una proposta innovativa di didattica interculturale maggiormente efficace nel rispondere ai bisogni emergenti, evidenziati nelle interviste e nei focus group, di richiesta di aggiornamento in grado di coniugare teoria e pratica, di supporto riflessivo sulla pratica didattica e di sostegno.
Gli insegnanti dichiarano, a seguito dei diversi incontri di co-progettazione, di essere maggiormente consapevoli delle scelte didattiche intraprese, cogliendone più facilmente gli schemi d’azione, in particolare grazie all’uso di strumenti di documentazione dei processi di insegnamento e apprendimento: “ci hanno aiutato a mettere a fuoco e a documentare ciò che facciamo un pò spontaneamente”; “il confronto che si è venuto a creare tra colleghi è stato molto utile nella progettazione”; “abbiamo sperimentato la costruzione sistematica di un progetto, in termini motivanti e costruttivi”.
Gli insegnanti rilevano come principale cambiamento un diverso modo di documentare le attività svolte: “avere un’esigenza documentativa del percorso mi ha costretto a un’organizzazione più sistematica delle attività”. Questo progetto ha rappresentato la possibilità di “progettare qualcosa di diverso e innovativo con la collega”, ma anche di “constatare l’efficacia di alcune modalità di lavoro”. Si è registrata quindi una contaminazione “metodologica” rispetto all’uso di strumenti di documentazione e di osservazione più rigorosi (Bove, 2009) e un potenziamento della progettazione didattica.
La promozione degli apprendimenti dei bambini è stata favorita dall’impostazione metodologica adottata, orientata alla group investigation (Chiari, 2011) che ha assegnato ai bambini un ruolo attivo durante tutto il processo. In primo luogo i bambini sono stati interlocutori interessati e interessanti, nelle conversazioni esplorative di avvio per la scelta del tema su cui lavorare.
Si riportano a questo proposito alcune trascrizioni di discussioni avvenute con i bambini e alcuni disegni sul tema della paura, connesso a episodi avvenuti nei diversi Paesi d’origine.
B. riporta la sua paura della morte, ricordando quando sua madre era dovuta tornare in Eritrea e lei era rimasta qui con il papà. La mamma era ritornata al Paese perché doveva curare la nonna malata che poi è morta.
M. ricorda di aver visto una salma, il funerale, le preghiere.
F. ricorda la morte del nonno e il dolore di sua madre.
Si riporta inoltre l’affermazione di una bambina che ben testimonia un difficile percorso di narrazione polifonica delle sue origini: “a me piace la mia pelle. Se dovessi cambiarla, avrei un’altra mamma, ma io non voglio cambiare mamma”. Questa frase rivela l’ambiguità, comune a diversi bambini, di mostrarsi agli altri nella pluralità di appartenenze culturali, tra origini e paesi di vita. I bambini di questa scuola convivono giornalmente con storie di viaggi, ricongiungimenti e separazioni, spaesamenti e aspettative, insieme alla difficoltà di dialogare, di ambientarsi e di ricostruire la propria identità. In contesti ad alta intensità di bambini di origine migrante, l’esigenza principale dei docenti è quindi quella di dare strumenti agli alunni per ricomporre le loro esperienze di vita. In questo percorso la fiaba e la musica, sono stati scelti come linguaggi privilegiati per permettere ai bambini di congiungere trasversalmente le diverse culture di appartenenza e, nello stesso tempo, per permettere loro di raccontarne le specificità.
I bambini, inoltre, sono diventati ricercatori a scuola, in famiglia, sul territorio, rispetto ad elementi culturali autoctoni e di altri Paesi ed esperti nel lavoro di condivisione dei materiali raccolti, in piccolo e in grande gruppo. A titolo esemplificativo si riporta uno stralcio di discussione relativo ad una ricerca condotta dai bambini sui giochi dei loro genitori:
B.: la mia mamma, in Eritrea, costruiva bamboline con il fango, con i suoi amici.
D.: La mia mamma in Ucraina giocava con sassi e sabbia, la nonna costruiva oggetti che poi dipingeva.
M.: creava bambole con stoffe, bastoni e lana. La nonna cuciva con la macchina da cucire e insieme alla figlia costruivano burattini.
A seguire un grafico relativo ad un’indagine, effettuata dai bambini, riassuntiva di interviste ai genitori per raccogliere alcune informazioni relative al loro viaggio verso l’Italia:
I bambini hanno condiviso con i docenti il ruolo di documentatori delle esperienze e delle attività vissute.
Le documentazioni dei percorsi didattici, realizzati nelle classi, sono divenute oggetto di una mostra a scuola, durante la festa di fine anno. Questo ha rappresentato un’ulteriore cassa di risonanza del progetto nel quartiere, offrendo ai bambini la possibilità di raccontare alla comunità quanto avvenuto a scuola.
La documentazione raccolta ed esposta consisteva in: sbobinature di discussione, disegni e lavori dei bambini, trame delle diverse storie analizzate e lette da alcuni genitori in lingua originale, verbalizzazioni delle esperienze vissute nei laboratori.
È stato quindi promosso un coinvolgimento costante di bambini, italiani e di diversa origine culturale, come costruttori di conoscenza, attraverso passaggi culturali e linguistici plurimi (le lingue d’origine, il disegno, la musica, la danza). Si è verificato negli alunni un miglioramento nella capacità di elaborare e valorizzare la propria cultura di origine, attraverso l’acquisizione di tecniche e linguaggi espressivi, in grado di sostenere un percorso di narrazione e comunicazione dei vissuti personali e familiari. I bambini, attraverso l’esperienza del riconoscimento e della valorizzazione delle proprie culture di provenienza, sono inoltre stati rinforzati nella costruzione di un personale successo formativo e nel loro ruolo sociale.
Note:
[1] Questo episodio è ascrivibile al fenomeno di white flight che sta investendo Milano, nei suoi quartieri multietnici, da una decina d’anni e origina segregazione scolastica (Pacchi, Ranci, 2017). La segregazione risulta quindi essere l’esito di una “fuga degli italiani” verso scuole private o a forte dominanza italiana. Tale fenomeno si sta diffondendo in tutta la città soprattutto in quegli istituti che si trovano in quartieri multietnici come via Padova, via Vespri Siciliani al Giambellino, zona piazzale Cuoco, via Bodio (alla Bovisa), via Scialoia ad Affori, Quarto Oggiaro, Bruzzano.
Bibliografia
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Barbara Balconi, è ricercatrice presso il Dipartimento di Scienze Umane per la formazione “R. Massa” dell’Università degli studi di Milano Bicocca. Collabora al gruppo di ricerca “Didattica fra Scuola e Società” del medesimo Dipartimento per progetti di ricerca formazione nell’ambito della progettazione e valutazione per competenze. La sua attività di ricerca riguarda le metodologie di formazione iniziale e in servizio dei docenti, la valutazione degli apprendimenti e di sistema, l’educazione alla cittadinanza. Tra le sue pubblicazioni:“Saper stare al mondo. Progettare, documentare, valutare esperienze di cittadinanza”.
Luisa Zecca, è ricercatrice presso il Dipartimento di Scienze Umane per la formazione “R. Massa” dell’Università degli studi di Milano Bicocca. Insegna “Progettazione e valutazione dei servizi e degli interventi educativi” nel Corso di Laurea in Scienze Pedagogiche. La sua attività di ricerca riguarda le strategie di sviluppo professionale dei docenti, l’insegnamento e l’apprendimento metacognitivi, l’educazione alla cittadinanza. Tra le sue pubblicazioni:“Didattica laboratoriale. Bambini e insegnanti in ricerca” e “I pensieri del fare. Verso una didattica metacognitiva”.