La presenza di Stuart Hall all’Università degli Studi di Napoli ‘L’Orientale’ negli anni sessanta è stata importante per creare e rafforzare il collegamento con gli studi culturali, originato dal mio soggiorno di studio e ricerca al Centre for Contemporary Culral Studies (CCCS) dell’Università di Birmingham nel 1964-65: in ambedue le istituzioni si sentiva, all’interno di strutture universitarie in crisi, la necessità di modificare l’assetto degli studi umanistici. Hall era venuto poco prima del ‘68 (c’era stato anche Raymond Williams), ed era tornato nel pieno del movimento studentesco ad affrontare maoisti e marxisti-leninisti; da allora ha visitato l’Orientale abbastanza regolarmente e vi ha anche tenuto un corso intensivo di Cultural Studies – tenendo vivo il collegamento tra il nostro gruppo di anglisti e il Centro, un’osmosi rafforzata dallo scambio di docenti e allievi tra Napoli e Birminghan. La Laurea honoris causa conferitagli dall’ateneo nel 2008 ha segnato anche il riconoscimento di questo legame intellettuale.
Ha tenuto conferenze e seminari ai convegni annuali dell’Associazione Italiana di Anglistica dove alla fine degli anni ‘70 è nato l’ambito di ricerca culturalista accanto a quello letterario e linguistico, una tripartizione che ancora esiste, cominciata tra le diffidenze di letterati e teorici (allora in gran parte strutturalisti): gli studi culturali erano visti come campo che opponeva lo studio del contesto a quello testuale, una sottospecie di sociologia della letteratura, ancor oggi visione difficile da estirpare; meno diffidente fu l’accoglienza dei linguisti ma anch’essa fondata su un fraintendimento. Di un simile sospetto parla Hall per gli inizi del centro di cui dopo Hoggart era divenuto direttore, ricordando l’ostilità di letterati e sociologi dell’università di Birmingham. E pur tuttavia sia lì che qui iniziava un rimescolamento delle carte, l’insicurezza degli steccati troppo rigidi e inamovibili, una rottura epistemologica che in particolare nel canone italiano avrà tempi lunghi.
Di questa attività sono testimonianza i suoi scritti pubblicati sulla rivista Anglistica1, negli atti dei convegni dell’associazione, fino alla raccolta The Postcolonial Question, Common skies, divided horizons (Routledge, 1996; Liguori, 1997), contenente saggi di vari studiosi (tra essi Homi Bhabha, Paul Gilroy, Larry Grossberg, Catherine Hall, Angela McRobbie, Trinh Minh-ha, Vron Ware and others) e che si concludeva con il suo importante saggio, “Quando è stato il postcoloniale? Pensando al limite”, un titolo derridiano che in parte segnalava una svolta nel suo rapporto con la teoria francese e quella postcoloniale. Non va dimenticata la traduzione in italiano, avvenuta sin dal 1970 di The Popular Arts, primo studio in volume di Stuart Hall (con Paddy Whannell), con il titolo di Arti per il popolo2.
Questa presenza è rimasta per qualche tempo limitata agli studi di anglistica forse per eccessivo rigore ‘scientifico’ – si trattava agli inizi di un campo precipuamente britannico – ma resistenze e indifferenze hanno avuto la loro parte. Le enclaves accademiche sono pericolose, chiuse per definizione, ma non va dimenticato che i dipartimenti di lingue e letterature straniere sono spesso stati fruttuosi corridoi di incontri interculturali, come per la teoria femminista francese negli Stati Uniti o gli studi di italianistica all’estero. Oggi la situazione è per molti aspetti diversa per sviluppi recenti che nell’ambito di un interesse crescente, anche se talora ancora diffidente, per gli studi culturali, hanno rotto il silenzio su questo nostro compagno di strada. Un contributo decisivo è venuto dalle due raccolte di suoi saggi pubblicate nel 2006 ad opera rispettivamente di Giuseppe Leghissa e di Miguel Mellino3.
I due volumi raccolgono saggi per lo più pubblicati tra il 1980 e il 1996, in parte coincidenti, che ricostruiscono le linee salienti dello sviluppo del suo pensiero, fermandosi alla vigilia del periodo in cui si accentua l’interesse di Hall per la fotografia e l’arte visiva nera e inizia la sua attività per la costruzione, assieme a Iniva e a Autograph ABP, di ‘Rivington Place’, una galleria dell’arte della diaspora nella Londra del duemila4. Nei rispettivi saggi introduttivi, Leghissa e Mellino pongono in modi diversi il problema della traducibilità dell’opera di Hall in un contesto altro da quello anglosassone. Mellino attribuisce il ritardo nella traduzione della sua opera al suo carattere ‘a-tipico’, ‘eclettico’, ‘originale’, “difficile da afferrare nella sua totalità.” (2006, p. 10). Nota che di lui non esiste un intero testo monografico ma una produzione frammentaria, volutamente legata a fenomeni congiunturali o a momenti storici. Anche Giorgio Baratta, in “Stuart Hall. La politica della cultura”, il saggio che fa da prefazione al volume di Leghissa, dice “Hall non mai scritto un libro unicamente suo” (p. 9), e lo definisce ‘pensatore occasionale’, come Gramsci. Più felicemente Mellino lo descrive come pensatore congiunturale, nell’ambito della sua accurata elaborazione del legame con Gramsci.
In “Tradurre Stuart Hall”, Leghissa menziona i precedenti che hanno preparato la diffusione degli studi culturali in Italia: Fortini, De Martino, Rossi Landi, Eco, Bosio, Lanternari, Panzieri e alcune riviste legate all’ambito operaista. A parte Gramsci, su cui tornerò più avanti, si può aggiungere l’opera saggistica e artistica di Pasolini e, dagli anni settanta in poi, l’attenzione alla questione meridionale e più in generale all’area della marginalità, oltre che a quella della cultura popolare, ad esempio nell’antropologia culturale5. La diffusione successiva di tali campi di interesse, che sia per effetto della migliore conoscenza dei Cultural Studies o parallelamente ad essa, non è stata seguita, come nota Leghissa, da un’analoga diffusione della svolta postcoloniale in Italia. E pur tuttavia, in modo più chiaro che già nel 2006, si è verificata un’espansione degli studi su problematiche diasporiche e transculturali, su cittadinanza e migrazione, su culture del confine nell’ambito delle scienze politiche, sociologiche e antropologiche oltre che nei gruppi di ricerca all’interno del dottorato di studi culturali e postcoloniali in particolare, ma non solo, all’Orientale di Napoli. È accaduto quello che sulla scia dell’insegnamento di Gramsci si poteva auspicare e cioè che gli studi culturali e postcoloniali si volgessero alla specificità italiana: un’unità nazionale mai veramente raggiunta con un paese diviso in due, come era descritta in La questione meridionale di Gramsci nel 1926 (cui Leghissa aggiungerebbe l’attenzione alla tormentata vicenda dei confini orientali); un passato coloniale nascosto e dimenticato anche nella storiografia ufficiale – si può parlare di un inconscio italiano; un’identità nazionale fortemente segnata dalla massiccia emigrazione esterna e interna dal punto di vista culturale ed economico; una immigrazione di data recente affrontata in modo negativo e approssimativo senza riferimenti al passato coloniale; la nascita conseguente di nuove soggettività, delle questioni connesse alle differenze etniche e di colore (la ‘colour line’), centrale negli studi postcoloniali anglosassoni ma problematica in un paese che si ritiene ‘uniformemente bianco’6.
Da alcuni dei saggi emergono commenti sulla nascita degli studi culturali e la crisi degli studi umanistici, delineando il ruolo cruciale avuto da Richard Hoggart, Raymond Williams, e più indietro da F. R. Leavis alla cui scuola si erano formati tutti e tre pur nelle divergenze successive; utilmente Hall ricorda che proprio dalla lettura testuale leavisiana era nata l’attenzione testuale al fenomeno culturale di cui Williams è stato sottile e sofisticato maestro, e che trova esito oggi nell’importante contributo di Edward Said e Homi Bhabha. Già Hoggart aveva insistito nel leggere i fenomeni culturali come una pagina letteraria (‘reading for tone’), tentando di rivitalizzare il campo della critica letteraria, pur aprendo nuovi scenari; nel suo The Uses of Literacy, si trattava in particolare di usi e costumi della classe operaia britannica. È chiaro che sia Leavis che Hoggart offrivano un possibile aggancio con l’anglistica italiana, con analoghi successivi sviluppi7.
La descrizione e la demistificazione della ‘scuola di Birmingham’, sottolineata in vari saggi, non è priva di umorismo – liti ‘teoriche’, discussioni accese, porte sbattute, rischi, trabocchetti – e descrive un lavoro in cui il normale rapporto pedagogico era impensabile, “eravamo tutti apprendisti” o ancora “eravamo tutti in gioco”8, e non solo perché il numero dei docenti era estremamente ridotto e gli studenti quindi preziosi collaboratori. Hall si riferisce, qui e altrove, a una pratica che emergerà dal ’68 in poi anche in Italia, con i tentativi, accanto alla battaglia di contestazione delle strutture accademiche, di produzione collettiva della ricerca. Come avviene e avverrà in Italia, si trattava di elaborare i metodi del lavoro interdisciplinare, e sin da questi inizi emergeva tutta la problematicità di tale pratica. Come dice Hall, si deve combattere per raggiungerla, non cresce in natura sugli alberi.
Da molti degli scritti emerge il carattere collettivo della sua opera, in modo rigoroso, e costante, una grande lezione di metodo, a partire dai Working Papers del Centro che sono diventati libri di Hutchinson (di recente ripubblicati da Routledge) e che erano il momento finale di un lavoro quotidiano, di produzione del pensiero collettivo e seminariale. Tali caratteristiche hanno trovato in seguito un humus favorevole nella struttura della Open University, dove Hall nel 1979 accettò la cattedra di sociologia dopo aver lasciato il Centro. Questa università per adulti prometteva un ambiente meno selettivo di quello universitario e la produzione collettiva di volumi per l’insegnamento a distanza, che hanno poi trovato una diffusione mondiale e hanno stimolato e accompagnato il pensiero negli ultimi decenni e in cui sono apparsi molti dei saggi di Hall. Si conferma qui la prassi critica e didattica di Hall dal centro alla OU come impresa collettiva; il CCCS potrebbe essere descritto, con termine gramsciano, come intellettuale collettivo.
Gli studi culturali sono nati da una crisi, e le crisi si sono succedute al Centro: all’esterno, la condizione di emarginazione e di isolamento nell’ambito accademico tradizionale, che emblematicamente relegava il Centro in strutture temporanee o fatiscenti e concedeva un numero esiguo di docenti e borsisti; all’interno le interruzioni causate dall’irrompere delle differenze (sessuali e razziali) su una scena che era stata britannica ed eurocentrica (si scoprirà che la classe operaia era minata dal razzismo, che in seguito costringerà ad ammettere che la cultura nera è minata dal sessismo); il discorso del femminismo e delle differenze di colore e di etnia erano stati in parte preparati dai discorsi precedenti e troveranno grande spazio da quel momento in poi, anche se non va dimenticato che il movimento di liberazione delle donne già praticava la sua agentività culturale, con l’aggiunta di psicoanalisi e autocoscienza.
In “I Cultural Studies e le loro eredità teoriche”9, Hall parla del suo rapporto con il femminismo, della sua irruzione, “come il ladro nella notte, interrompendo i silenzi, facendo un rumore indecente, sequestrando il tempo, cagando sul tavolo dei Cultural Studies” (in Mellino 2006, p. 110). Il volume del Women’s Study Group, CCCS, Women take issue: aspects of women’s subordination (1978), segnò appunto l’interruzione. I rapporti con questo nuovo continente, ‘rapporti tuttora instabili’ dirà citando Jacqueline Rose, rimangono problematici come quelli con la psicoanalisi. Questo argomento viene ripreso nell’intervento a Napoli del 16 giugno 2006 (qui accluso un breve estratto video), in cui, ripercorrendo – si potrebbe dire rinarrando – alcune fasi della sua vita e del suo sviluppo intellettuale, egli parla delle particolari congiunture storiche e politiche che hanno influenzato lo sviluppo degli studi culturali, il momento napoletano per Raymond Williams nella riformulazione di struttura e sovrastruttura ad esempio, e dell’importanza di ‘leggere’ culturalmente (e teatralmente), un particolare momento costitutivo del nuovo, e ancora una volta l’importanza del pensiero femminista. La lista generosamente include me che arrivo al centro di Birmingham ai suoi albori con le Lettere dal carcere di Gramsci sotto al braccio.
Il ritardo altrettanto clamoroso nell’affrontare la politica della razza e le resistenze al razzismo fu spezzato nel 1978 con Policing the Crisis e soprattutto con The Empire Strikes Back (1982), costituendo una svolta decisiva nella sua posizione teorica e intellettuale personale oltre che nel Centro10. Egli analizza i concetti di ‘razza’ e di etnicità nell’intervista autobiografica concessa a Kuan-Hsing Chen, “La formazione dell’intellettuale diasporico”(1996), anche in chiave personale11. Partendo dalla sua provenienza dalla Giamaica, una terra che era ‘una diaspora della diaspora’12, parla delle disparate provenienze nazionali della sua famiglia, delle diverse gradazioni della pelle, lui ‘il nero della famiglia’, una famiglia da cui è fuggito; il ritorno a casa avverrà solo con la presenza di una formazione diasporica nera in Gran Bretagna (“sono un nero delle Indie Occidentali, mi ci sono voluti 50 anni per tornare a casa”) che è diventata da circa 20 anni l’oggetto principale del suo lavoro. Da intellettuale diasporico, esprime una certa ironia sul postmoderno: la sua identità di migrante, ora che tutti si sentono dispersi e frammentati, gli permette di trovarsi improvvisamente al centro dell’esperienza postmoderna.
Tuttavia questo campo non è privo di problematicità. Hall sostiene che la diaspora deve uscire dalle contrapposizioni nette, dai blocchi contrapposti, bianco-nero, colonizzatore-colonizzato, cattivo-buono; mette in guardia contro i nazionalismi esclusivisti e fondamentalisti tra la sua stessa gente. I neri non sono tutti buoni o tutti uguali; in quegli stessi anni Spivak parla della ‘eterogeneità del subalterno’. In “Nuove etnicità” (1985), un saggio che, raccordandosi ai suoi primi saggi su media, musica e sottoculture, si indirizza nella direzione di cinema e fotografia nera e lamenta la reificazione dell’icona del nero, la sua oggettivazione; allo stesso tempo critica le visioni romanticizzate della negritudine che non fanno che rovesciare l’equazione precedente senza veramente cambiarla, e confermano gli stereotipi che si ritrovano sia in artisti bianchi (fa l’esempio di Mapplethorpe) che neri. L’esperienza della diaspora, e così la sua politica della rappresentazione, deve attraversare un processo di destabilizzazione, ricombinazione, ibridazione e mixage, qui usando un termine musicale. Egli insiste sulla diversità delle posizioni soggettive e delle identità culturali che compongono la categoria ‘nero’, categoria senza garanzie così come il marxismo nella sua visione e nella ‘traduzione’ gramsciana.
Nei suoi vari saggi sul filosofo sardo, tra cui “L’importanza di Gramsci per lo studio della razza e dell’etnicità” (1986), presente in ambedue le raccolte, Hall sottolinea la natura congiunturale della sua scrittura che nasce spesso come risposta a domande, eventi, fenomeni, letture specifiche: “Gramsci utilizzava la ‘teoria’ per spiegare casi storici concreti o questioni immediatamente politiche…. Le sue idee e le sue formule… devono essere delicatamente disseppellite dal proprio contesto storico di riferimento e trapiantate con grande cura e pazienza in un nuovo terreno” (in Mellino p. 188). In “Gli studi culturali e le sue eredità teoriche” (1992), in cui estende la sua analisi da Gramsci al pensiero marxista in genere, egli usa la ‘metafora della lotta con gli angeli’ per definire il lavoro teorico: “Le uniche teorie che hanno valore sono quelle con cui si deve lottare costantemente e di cui non si riesce a parlare con estrema fluidità” (ibid., p. 104), ancora sulla scia del pensiero gramsciano.
L’ispirazione del pensiero gramsciano si ritrova anche nei saggi che rispecchiano il suo intervento più diretto nella politica britannica, la sua definizione del thatcherismo come ‘il grande circo delle deriva a destra’, il suo contributo continuato a Marxism Today, con l’elaborazione della speranza dei New Times, una speranza tradita dal New Labour. La sua presa di distanza dal blairismo sin dai suoi albori potrebbe essere utile ai fini di un riferimento alla situazione politica italiana. Gramsci, oltre a Marx e Alhusser, è molto presente in queste sue analisi; in particolare il concetto di egemonia e di senso comune è fondamentale nella sua analisi di una nuova destra che ha indicato un diverso modo di rapportarsi ai tempi della globalizzazione, e, abbracciando la modernità, il neoliberalismo e la rivoluzione monetaria, ha mutato e conquistato il senso comune. La sua vicinanza al pensatore sardo, sottolineata nel saggio introduttivo di Miguel Mellino (2006, pp. 7-29), si esplica peraltro in molti aspetti del suo pensiero, come era accaduto sin dalle sue prime analisi della cultura popolare, soprattutto attraverso un tipo di scrittura che si richiama a quella di Gramsci, legata a un preciso momento storico e spesso a un suo ruolo politico. Aspetto importante è l’opinione insistita di Hall che i ‘cultural studies’ non propongono tanto un ampliamento dell’oggetto di studio quanto un modo diverso di studiarlo, non il ‘cosa’ ma il ‘come’.
In complesso Hall non manca mai di sottolineare l’importanza di Gramsci negli studi culturali e postcoloniali, invitando come dice Mellino ad “avvicinarsi al suo lavoro con lo stesso spirito con cui egli ci chiede di avvicinarci a quello di Gramsci” (2006, p.14)13. Questo lo ispira anche nella sua elaborazione di una ricerca che punti sulle micro-resistenze o sugli antagonismi locali più che sulla trasformazione radicale del sistema. Gli interventi congiunturali sono aperti al mondo e non chiusi in se stessi, agiscono ‘wordly’ come direbbe Spivak e prima di lei Gramsci nella sua esortazione a ‘pensare mondialmente’. Del lavoro teorico da considerare come interruzione più che continuità nei cultural studies, si è già detto ricordando le due importanti interruzioni nel percorso dei cultural studies.
Devo fermare qui un intervento che prometteva di essere breve, cosa per me non facile in vista dei molti punti di contatto che il nostro percorso personale e intellettuale ha avuto. Come ho detto nel mio ricordo in sua memoria, già riportato in Roots§Routes, Stuart Hall è stato per me amico, compagno politico e collaboratore intellettuale prezioso. Ci ha uniti, tra altre cose, un viaggio utopico verso la rivoluzione che all’inizio degli anni sessanta sembrava non troppo lontana; insieme abbiamo poi imparato che è un processo lungo, composto anche di fasi congiunturali e frammentarie, a partire da quella iniziale della contestazione dello spazio accademico, di una serie di interruzioni e di irruzioni da compiere alla maniera di ladre e ladri nella notte, che nel presente recuperino il passato che non passa per poter guardare al futuro.
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1 Pubblicata dall’UNO sin dagli anni sessanta, dette inizio, nel 1997, alla sua Nuova Serie, diretta da Lidia Curti, con la pubblicazione del saggio di Hall “New Ethnicities”, su cui si tornerà più avanti.
2 Stuart Hall e Paddy Whannel, Arti per il popolo, a cura di Maria Concolato Palermo, Roma, Officina, 1970. Nella stessa collana, diretta da Fernando Ferrara e Richard Hoggart, fu tradotto contemporaneamente The Uses of Literacy di Richard Hoggart (Proletariato e industria culturale, a cura di Lidia Curti, Roma, Officina, 1970) e, in seguito, The Long Revolution di Raymond Williams (La lunga rivoluzione, a cura di Paola Splendore, Roma, Officina, 1979).
3 Stuart Hall, Pratiche del quotidiano. Culture, identità e senso comune, introduzione e cura di Giuseppe Leghissa, Milano, Il Saggiatore, 2006; Stuart Hall, Il soggetto e la differenza. Per un’archeologia degli studi culturali e postcoloniali, introduzione e cura di Miguel Mellino, Roma, Meltemi, 2006.
4 Costruita a Shoreditch nell’East End di Londra su progetto dall’architetto David Adjaye, la galleria è stata inaugurata nell’ottobre 2007 e ha ospitato mostre di Zineb Sedira, James Barnor, Rotimi Fani-Kayode e altri. Contiene la Stuart Hall Library, aperta al pubblico per le ricerche sulla diversità culturale nelle arti visive.
5 Lo stesso Leghissa ricorda, tra altre, una raccolta a cura di Carla Pasquinelli, Antropologia culturale e questione meridionale (Firenze, La Nuova Italia, 1977).
6 Nell’introduzione di Leghissa viene sollevata, a proposito di (in)traducibilità, la difficoltà di tradurre ‘ethnic’ che in italiano ha un’accezione negativa e spesso razzista, mentre nel mondo anglosassone fa riferimento ai meccanismi dell’esclusione dei subalterni e ai movimenti di resistenza e di ribellione a tali meccanismi (cfr. pp. 29-30).
7 È interessante notare che Hall, come Hoggart e Williams, aveva svolto attività didattica nel campo dell’insegnamento per adulti di provenienza operaia o comunque disagiata.
8 Cfr. “La nascita degli studi culturali e la crisi degli studi umanistici”, in Leghissa 2006, p. 238. Il discorso della crisi è oggetto anche di altri saggi, tra cui la conversazione con Umberto Eco, “Il ruolo dell’intellettuale è quello di creare crisi” (in Leghissa 2006).
9 Il saggio, presente in ambedue le raccolte, è stato originariamente pubblicato In Cultural Studies, a cura di L. Grossberg, C. Nelson and P. Treichler, London and New York, Routledge, 1992 con il titolo, “Cultural Studies and its Theoretical Legacies”. Il volume include il mio intervento. “What is Real and What is Not: Female Fabulations in Cultural Analysis”, in gran parte sul rapporto tra femminismo e studi culturali.
10 Nel riferire che Paul Gilroy e il gruppo che ha prodotto il libro, trovarono difficile “creare nel Centro lo spazio politico e teorico necessario (ibid., p 111)”, si intravedono accenti autocritici verso la sua responsabilità come direttore ‘nero’ del Centro, forse una volontà di distacco dalla sfera personale. Io stessa nella posizione di femminista, mi sono messa in disparte rispetto alla questione di classe e al marxismo ortodosso sia nei primi anni al Centro sia nella mia militanza nel PCI.
11 Appare tra gli ultimi saggi nel volume di Leghissa, seguita dal saggio “Who needs ‘Identity’?” (Chi ha bisogno dell’identità?), che sottolinea l’inizio di una nuova riflessione sul sé e sulla nozione dell’identità che non è mai costante e sicura. Come in altri suoi scritti, insiste sulla libertà del soggetto e sulle sue articolazioni continue con l’identità (pp. 318-19).
12 Questo argomento è ripreso in “La questione multi-culturale” (2000), un lungo saggio che chiude la raccolta di Mellino, in cui, accanto alla Giamaica, pone Africa, Europa, Cina, India – quest’ultima a sua volta ri-diasporizzata in Gran Bretagna (p. 283).
13 Nel suo Cittadinanze postcoloniali. Appartenenze, razza e razzismo in Europa e in Italia (Carocci, 2012), Mellino offre uno sguardo sugli studi culturali britannici di grande completezza e nel quadro degli sviluppi recenti del pensiero postcoloniale. Sembra utile qui menzionare Esercizi di potere. Gramsci, Said e il postcoloniale, a cura di Iain Chambers (Meltemi, 2006), che indicava il nesso tra il Gramsci culturalista e il postcoloniale.
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Lidia Curti formerly taught English and Feminist studies at the University of Naples, “Orientale” and is now Honorary Professor in the same institution. She is the author of Female Stories, Female Bodies (1998), La voce dell’altra (2006), and co-editor (with Iain Chambers) of The Postcolonial Question. Common skies, divided horizons (1996).