PERFORMING HISTORY
Archivi biologici / Archivi biografici
di Alessandra Cianelli, Beatrice Ferrara, Alessandra Ferlito

Alessandra Cianelli

A partire dai semi e tornando ai semi siamo al livello dei geni, della memoria, della identità biologica di ogni organismo vivente. Geni, memoria e identità biologica, declinati al livello dell’essere umano come individuo e ‘particella’ sociale, sono natura e cultura insieme, sono linguaggio.

Tutti gli italiani, tutti i meridionali soprattutto, hanno almeno un antenato recente (nonni o bisnonni) che ha ingrossato le fila della migrazione interna, dai villaggi e dalle campagne alla città, il cui corpo abbia costruito e sia stato segnato dalla frattura geografica e culturale che ha contrapposto dialetticamente il rurale all’urbano, lasciando spesso ferite di rimozione e vergogna.

La ricerca, fin dall’inizio, muove da istanze biografiche personali, mie: una nonna migrata nel 1950 da un villaggio in mezzo ai monti dell’Irpinia, in provincia di Avellino, a Napoli. Sono gli anni cruciali di cui Henry Lefebvre scrive in Dal rurale all’urbano, riferendosi alla situazione in Francia (1973). Nei discorsi di mia nonna c’era una ferita, che era il taglio con quel mondo di paesi e villaggi, che emergeva come una specie di ‘età dell’oro’ nei racconti della sua giovinezza: un’epoca di solidarietà, feste, comunità che nonostante le difficoltà, il freddo e la neve, la povertà degli stili di vita la fatica quotidiana si divertiva si ritrovava, si riconosceva in valori che davano senso e pienezza alla vita. Mia nonna ha sempre rigorosamente, nei fatti, mantenuto una distanza dai personaggi e dai luoghi dei sui racconti, che erano diventati nel mio sentire luoghi e tempi immaginari, ambigui, minacciosi e forse privi di valore intrinseco: un mondo da tenere sotto controllo “se la città vuol difendersi dall’invasione della campagna”, come scrive Gramsci nelle Lettere dal carcere (1926-1937)…

Da una lettera di Antonio Gramsci del 20 maggio 1929. Trascrizione a mano.

Nel 2008 mi sono messa in cammino verso l’Irpinia per ritrovare, nei luoghi dei suoi racconti, le ragioni di quella rimozione, di quello strappo, di quell’esclusione, di quella idealizzazione: per ritrovare il seme del discorso.


Alessandra Cianelli, Aquilonia, Irpinia. DormitioVirginis/weath,seeds,colture,agricolture; 2009-2011.

Ho incontrato una frattura che non riguardava solo mia nonna (e mia madre) ma il mondo e la cultura rurale tutta, assopita, in letargo, in trasformazione, in coma, sospesa nei ricordi, nei racconti, nelle memorie e nella storia spesso infedele ma non più agita. Così, i discorsi e le memorie di famiglia (gli archivi biografici) si sono incontrati e implementati con altre memorie e altre biografie.


Alessandra Cianelli, Dormitio Virginis, maquette.


Alessandra Cianelli, Cairano, Irpinia. Dormitio Virginis/seeds, cults, culture, agricolture. 2009/2011.


La mia narrazione familiare è diventata parte di una narrazione, non oggettiva, composta da molte narrazioni soggettive. Discorsi e memorie rurali intorno alla terra, al grano, ai semi. Gli archivi biografici, custodi di cultura hanno aperto gli archivi biologici delle colture e viceversa, declinando in un unico vocabolario biologie e biografie, geni e identità genetica.

Alessandra Cianelli, Cairano, Irpinia. Dormitio Virginis/seeds, cults, culture, agricolture.

Tutta la mia ricerca racconta la frattura che ha sconquassato il mondo rurale/agrario, spazzato via dalla povertà endogena e dal boom economico degli anni ’60.

Alessandra Cianelli, Zungoli, Irpinia. Chiamare ri-chiamare, 2008.


I tentativi fallimentari di riforma agraria, le scelte politiche a favore del mondo delle fabbriche, le seduzioni esterne della plastica e della televisione, l’emigrazione, la dispersione delle comunità rurali, il trionfo della cultura urbana, l’impoverimento culturale ed economico conseguente, ecc. fanno da cornice alla situazione attuale, di cui oggi c’è una maggiore consapevolezza, che alimenta i movimenti sulla/intorno e per la Terra.

Alessandra Cianelli, Chi dà il cibo da le regole/Who gives foods gives rules. Still da video.


Alessandra Cianelli, Chi dà il cibo da le regole/Who gives foods gives rules. Still da video.


Alessandra Cianelli, Chi dà il cibo da le regole/Who gives foods gives rules. – Trittico.


Quello che c’era prima (o quello che si immagina ci fosse prima), quello che c’è ora, quello che ci sarà, ovvero, i modi in cui si sta tentando o immaginando di ricucire la ferita.


Riferimenti video:
Chi dà il cibo da le regole/Whogivesfoodsgivesrules

La pecora e le formiche
Grano ribelle
Gramsci e le formiche

 

Restituire il discorso alla fisicità di una pratica riporta all’oralità come esperienza fisica ed emotiva. La costruzione di un racconto del genere può essere quindi ‘agita’ da coloro che, portando e mettendo in condivisione semi, mettono in condivisione storie, memorie, pratiche personali e comunitarie, in una narrazione che aggira i problemi di lingua e cultura, che lascia intatta la ricchezza ‘semantica’ – è il caso di dirlo – dei racconti, dei suoni, dei segni che si vanno a manifestare.

Il racconto orale è il tentativo di traduzione di un sentimento.

Il ‘sapere’, individuale e collettivo, che si dipana a partire dal seme (Storia, storie, tecniche di coltivazione, memoria, suono), mescolando biologia e biografia di umani e piante, costruisce il discorso.

Grano, semi, culti, cultura e agricoltura.

Seguendo i semi – nello specifico il grano, che è in occidente il seme dei semi – ho incontrato Giampietro e Senem: viaggiatori, contadini, fornai che sono diventati parte della mie relazioni e della mia ricerca, della mia esperienza di vita. Se “tradurre” corrisponde ancora, letteralmente, nella lingua nuda delle cose materiali, al latino “tra-ducere”, ‘’portare tra’’, “portare in mezzo’’, nel cuore di un lingua in cui oggetto, suono e significato sono la stessa cosa.

Alessandra Cianelli, Let’s cultivate diversity. Campocatalogo/spighe. 2013/12-03. Peccioli (Pisa).


Alessandra Cianelli, Let’s cultivate diversity. Campocatalogo/spighe.30.47.2013/12-03. Peccioli (Pisa).


Sono stata tra-dotta attraverso queste esperienze nell’archivio impermanente che non si impolvera e non si ammuffisce. L’archivio impermanente vivo, biologico e biografico mi apre la prospettiva di comunicare senza intermediazioni e attraverso oggetti vivi, anche quando i corpi sono assenti, le biografie scomparse, gli archivi inaccessibili.

AlessandraCianelli, Let’s cultivate diversity. Campocatalogo 15.55.47. 2013/12-03. Peccioli (Pisa).


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Giampietro Pinto

L’AGRICOLA e RADIO TIRANA*

Sila piccola – Calabria, anni ‘80/2000.

Tra movimenti e neo-contadini si parlava di Sovranità Alimentare e Resistenza Contadina, invece Nonno Pietro chiedeva come andava “l’Agricola”. Voleva sapere cosa avevo seminato, che tipo di pane facevo, come impastavo … Mi faceva ridere sentir parlare di Nuova Contadinità e al tempo stesso di “Agricola”.

Eravamo sulla Sila piccola, l’Appennino calabro.
Col nonno cercavo di risalire alle origini del grano “Germanella” o dello “Iermanu”(segale); da nonna Costanza, per la prima volta, sentivo parlare della farina “Maiorca”, mentre il nonno mi donava semi di “Fava Suraca” che, al contrario di come viene da pensare, non è una fava: nel dialetto locale la “Suraca” è il fagiolo,quindi la “Fava Suraca” è un fagiolo grande come una fava, cresce alto e fa il fiore rosso.

Anni dopo ho visitato l’Albania. Se volessi associarla ad un colore, sicuramente sarebbe il rosso del fiore di quel grande fagiolo da insalata.

Nonno “Formaggio” sparava alla Luna, lui era il papà di nonno Pietro.
Viveva a Torre di Ponte, nel bosco, senza corrente, il pavimento di tavole di legno, la casa di pietra; il bagno era una sorta di palafitta sul fiume, quando facevo cacca, mi guardavo tra le gambe e vedevo l’acqua scorrere … Viaggiavo!

Nonno “Formaggio” era nonno formaggio perché qualsiasi età avevi (bimbo, adulto o anziano) ti offriva pane e formaggio; non c’erano varianti, non c’erano Coca-Cola o altre cose sofisticate degli anni moderni.

Sul camino c’era una radio a batterie.Gracchiava, si prendeva una sola stazione: “Radio Tirana”.


*musica consigliata per la lettura: Spasulati Band “Thuja”


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Senem Somnez
Lullaby of the bakersfarme/Ninnananna del contadino fornaio

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Alessandra Cianelli

Si dice che la nostra memoria è un magazzino composto di molte sezioni: quella più visitata e accessibile è quella che raccoglie le nostre esperienze dirette; poi c’è il magazzino delle esperienze che ci sono state raccontate e le nostre acquisizioni intellettuali; infine, c’è l’archivio segreto di quello che non ci è stato raccontato ma che, chi ci ha messo al mondo, ovvero chi ci ha dato i geni, ha vissuto direttamente o indirettamente.

Memoria, memoria emotiva, memoria del corpo: la parte oscura del bagaglio che ci è stato consegnato dai nostri ascendenti. In questo stesso archivio labirintico, di cui non si conosce la pianta, sono custoditi e sepolti i semi delle nostre possibilità, che risalgono – si dice – fino alla settima generazione dei nostri antenati. Questi semi dormienti possono germogliare e venire alla luce, oppure dormire per sempre.

Archivi biologici.

Ritorno a mia nonna, all’Irpinia e al mio archivio biografico per seguire un’altra direttrice che si allontana dai campi e dalle montagne del paesaggio agrario meridionale per sbarcare sull’altra sponda del mediterraneo.

Il taglio nella vita di mia nonna è un viaggio che mi ha portato sui suoi passi a cercare risposte a una ferita, molto più nascosta, che era la sua, quella di mia madre e la mia, evidentemente. La cicatrice è l’assenza di mio nonno, una biografia perduta Oltremare: il suo corpo scomparso in Cirenaica, la sua biografia sepolta con centinaia di migliaia di altre biografie di Italiani e sudditi coloniali – nell’inconscio coloniale del mio paese – sono archivi non accessibili.

Corpo Militare Coloniale. Mia nonna senza uomo, mia madre senza padre, un paese senza memoria.

Quasi tutti gli italiani hanno almeno un antenato recente (nonni o bisnonni) che ha passato il mare per abitare la “Quarta sponda” del Mediterraneo. Quello che è rimasto del favoloso Paese delle Terre d’Oltremare, nel racconto collettivo, sono solo affioramenti, relitti in mari esotici di acqua e di sabbia, scoperti e ricopertida venti e maree. Per lo più suoni, parole, pietre e ancora semi (piante, alberi) sono il cuore pulsante diquello che resta a livello di memoria familiare e collettiva materiale (fotografie, lettere,oggetti,edifici) e immateriale (suono, racconti, canzoni). Suoni e nomi solitari e buffi, parte di un racconto familiare incompiuto, sopravvissuti essenzialmente in forma di suono nelle memorie familiari private; e/o parole ‘trasfigurate’, usate e sentite da sempre, sopravvissute nei racconti e nella lingua parlata, grazie a slittamenti di senso.

Volturara Irpina. La conclusione delle esercitazioni militari

 
Referenze video:
Alessandra Cianelli, Words that hide (themselves): Ambaradam
Alessandra Cianelli, Sulle spalle/On my back
 

CHE FINE HA FATTO LA PRINCIPESSA TAITU?

CHI È ANCORA CAPACE DI PARLARE LA LINGUA DI MENELIK?

È SUCCESSO UN AMBARADAM.

Dall’Irpinia alla Cirenaica, sicuramente il corpo di Mio Nonno ha transitato per Napoli, forse ha dormito qualche notte in caserma. Da Napoli, principale porto d’imbarco per la Libia, ha salpato le ancore per Tripoli i primi di giugno del 1940. A maggio, quando è partito dall’Irpinia, con il grano alto e pronto per essere raccolto, a Napoli si inaugurava la prima Mostra Triennale delle Terre italiane d’Oltremare.

Alessandra Cianelli, Il paese delle Terre d’Oltremare. 2014. Still da video.

Forse ci sarà passato giusto in tempo, prima della chiusura per guerra, per farsi un’idea (lui e i suoi compagni militari) di cosa lo avrebbe aspettato oltremare.
Il paese delle terre d‘oltremare era un milione e rotti di metri quadri che serviva a portare un pezzo di Impero a Napoli. Trasferito qui, nel suo abito migliore, per chi non poteva fisicamente andare lì, per chi ancora non ci era stato, per chi doveva conoscere quel pezzo d’Italia fuori dall’Italia. Immagino mio nonno, abituato al mare verde di grano cappelli dei suoi campi, sul Formicoso, perduto nella giungla domestica di palmizi e tamarindi della città coloniale della Mostra.

Alessandra Cianelli, Ambaradam. Still da video.

Alessandra Cianelli, Sulle spalle. Still da video.

Alessandra Cianelli, Sulle spalle. Still da video.

Alessandra Cianelli, Sulle spalle-Cartolina.

Alessandra Cianelli, Sulle spalle. Still da video.

Alessandra Cianelli, Abito per Barbie confezionato con merletto di abito da sposa del 1935. 2014.

Qui a Napoli, prima capitale coloniale conquistata dagli italiani, testa di ponte per il dominio del Mediterraneo, si faceva l’esperimento di congiunzione dell’esotico, del rurale, del naturale, del buon selvaggio, del buon paesano, del cafone bianco o nero, con il cittadino metropolitano futurista, fascista.

Dal rurale all’urbano, fino al coloniale.

Una ‘città/esperimento’ costruita per insegnare agli indigeni e ricordare agli italiani (corpi militari, corpi coloniali, corpi militari con la divisa coloniale, con il gonnellino di banane) che “Noi siamo il vostro futuro: ci stiamo imbarcando nel porto di questa vecchissima città, recalcitrante al futuro, dove abbiamo costruito il modello di città dell’avvenire, per venire a portarvelo. Voi siete il nostro passato, perciò vi portiamo qui a dimostrarlo. E portiamo corpi, lingue, semi, animali, terra, paesaggio, per celebrare il matrimonio di passato e futuro,lingue, semi, animali, terra, paesaggio, per celebrare il matrimonio di passato e futuro, lingue, semi, animali, terra, paesaggio, per celebrare il matrimonio di passato e futuro, campagna e città, Sud e Nord, corpi bianchi, corpi neri corpi militari corpi coloniali, perché siamo anche il vostro e il nostro passato”.

Barbie nera, prima metà degli anni ’70. Proprietà dell’artista.

Così, forse, il corpo di mio nonno, diretto altrove, si sarà trovato mescolato ai corpi dei 58 indigeni esposti nel maggio 1940 a ‘performare’ l’altrove. Corpi importati ed esportati, catalogati, numerati, finalizzati, in un ordine spaziale e temporale, Storico. Corpi militari, corpi neri, corpi diversi esposti agli sguardi, alla penna e alle armi. Corpi scomparsi, biografie scomparse, archivi scomparsi, di carta e di carne.

Barbie nera in abito da sposa, prima metà degli anni ’70.

Arborea-aloe. Mostra d’Oltremare, Napoli.

Alessandra Cianelli, Gondar-rovina. 2014.

Quello che rimane sono gli archivi ‘di pietra’ e gli archivi ‘vegetali’ della Mostra d’Oltremare: edifici conservati e/o riconvertiti, rovine di architetture, spazi vuoti dei luoghi dove sorgevano padiglioni e accampamenti indigeni, alberi, piante e semi, importati con la terra e gli abitanti stessi dalla Quarta Sponda, per la prima Mostra Triennale nel 1940. Le pietre che sembrano innocenti sono l’unico archivio visionabile, nella prospettiva innocua della “Storia dell’Architettura Italiana tra le due Guerre’’.

Ci vuole un trucco per ritrovare gli archivi perduti.

Documenti di archivio/planimetrie. Mostra d’Oltremare, Napoli.

Ci vuole la macchina del tempo per tornare nel nostro passato (che era il futuro di quegli ‘’altri’’oltremare), per recuperare ciò che ci è necessario, per restaurare il nostro presente, per renderlo possibile ora. Accedere a questi archivi è possibile solo sul piano del ‘’tornare ad essere’’, dell’esperire, prestando tutta la nostra materialità – corpo, mente emozioni, sentimenti – all’attraversamento di queste presenze sconosciute. Attraversare ed essere attraversati per conoscere, per tra-durre.

Ora si può solo agire, performare, mettere i nostri corpi a disposizione per ospitare questi archivi sepolti, per restituire senso e presenza a ciò che è volutamente stato nascosto, rimosso, addormentato.

Porta Medina + cyop&kaf; Piazza Montesanto, Napoli. Scatto realizzato durante una passeggiata
esplorativa verso la Mostra d’Oltremare. Marzo 2014.

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Alessandra Ferlito
(una parentesi metodologica e motivazionale)

Essere un membro del ‘corpo’ che sta tentando di riaprire gli archivi della Mostra d’Oltremare di Napoli significa, dalla mia personale prospettiva, dover fare i conti con un buon numero di interrogativi che mandano in crisi l’interpretazione del ruolo curatoriale, nonché il mio modo di agire al suo interno. In questo agire ‘critico’ trova spazio la necessità di un confronto ‘metalinguistico’ che problematizzi – prima di definire – l’approccio alla ricerca nell’atto stesso del ricercare. La ‘crisi’ in corso proviene dall’osservazione delle pratiche attraverso cui la curatela occidentale contemporanea – declinata nel suo complesso apparato di festival, rassegne, biennali, residenze, fiere, premi e piattaforme online – sta continuando a disegnare le mappe (geografiche ma non solo) dei rapporti di potere tra “noi” e “gli altri”. Disegno (quello, politico, dell’occidente coloniale) che – in termini di rappresentazione visiva e ‘discorsiva’ tout court – venne spettacolarmente e orgogliosamente esibito in occasione della Mostra Triennale delle Terre italiane d’Oltremare di Napoli, focus dello studio in corso. A questo proposito, mi risulta impossibile ignorare l’esistenza di quei rapporti di potere se, dal 1940, trasferisco lo sguardo nel presente attuale e osservo i processi di concepimento della Biennale Arti Visive che vedremo a Venezia nel 2015 (campo di indagine e focus della ricerca più ampia a cui sto parallelamente lavorando), evento peraltro già vivacemente commentato a partire dalla nomina del suo direttore, Okwui Enwezor, il curatore ‘postcoloniale’.

Il ‘sistema dell’arte’, rispetto alle problematiche che hanno fatto irruzione al suo interno (scombussolandolo) con l’avvento della globalizzazione e il contestuale incremento dei flussi migratori, offre, al pari dei coevi sistemi giuridici, sanitari o istruttivi, ‘informativi’ ecc., un importante apparato di ambiguità, contraddizioni, posizionamenti incerti e incoerenze. La globalizzazione, dal suo canto, ha invitato gli attori di questo sistema a un ripensamento della “alterità non occidentale”, precedentemente ignorata o, peggio, considerata all’interno di un discorso che si limita a contrapporre, in maniera stereotipata, centri e periferie, soggetti egemonici e oggetti subalterni.
Le scelte espositive adottate dalla Triennale del 1940 resero esplicito il concetto di ‘cura’ a cui si stava facendo riferimento; poi, con la fine degli imperi coloniali quelle scelte non furono più praticabili. Okwui Enwezor, ad esempio, ritiene che la globalizzazione abbia attenuato la miopia che fino agli anni ’90 regolava i giudizi dei curatori, perché ha fatto emergere una moltitudine diversificata che non poteva più essere ignorata. In effetti, nel corso degli ultimi decenni gli effetti della globalizzazione hanno lentamente prodotto un contesto transnazionale, facendo sì che oggi “quel museo (dell’occidente coloniale) è esposto alla mondialità della forza senza nome di voci subalterne” (Chambers 2012b:10).

Tuttavia, a guardare attentamente, qualcosa di quel colonialismo di inizi Novecento sembra ancora permanere, specie a livello istituzionale, dove la tendenza a mantenere attive e produttive certe relazioni gerarchiche non sembra mostrare segni di cedimento. Spesso, infatti, il primo rapporto di potere a essere stabilito è proprio quello tra istituzione/curatore (soggetto) e artista/opera (oggetto), in favore di un dispositivo (evento/mostra) che funge da strumento normativo e di controllo nei confronti del pubblico fruitore.
Come annotato da buona parte della critica che si è occupata dell’argomento (es. Pinto 2012, Cippitelli 2013), la responsabilità, in questo senso, è da attribuire soprattutto al mercato globale e alle sue leggi, che riescono ad avere risonanza a livello ‘planetario’. L’attitudine a rispettare pedissequamente queste leggi (e quasi esclusivamente queste), però, mi pare venga incentivata dalla scarsa conoscenza – e dunque dalla scarsa coscienza – del nostro passato coloniale. Cosicché molto spesso, seppure nel nome della transculturalità, del transnazionalismo, della migrazione, della diaspora ecc, il sistema dell’arte (delle esposizioni e della curatela) attiva reti, applica metodi, inventa strategie che, nonostante le intenzioni annunciate e le apparenze, non riescono veramente a sovvertire le visioni egemoniche che le hanno precedute.

Come ‘curare’ l’altro? Come narrare, mediare, tradurre senza tradire, mettere in mostra senza assoggettare, comprendere senza colonizzare?
Questi i primi interrogativi che il progetto Il paese delle Terre d’Oltremare mi impone. Riaprire l’archivio della Mostra napoletana (come affrontare quello della Biennale di Venezia 2015 che si va costituendo) forse mi può portare su un terreno entro cui alimentare una discussione critica, produttiva, capace di suggerire diverse narrazioni e nuove aperture. Questo, allo stato attuale, il ‘taglio’ della mia ricerca, il suo stato di avanzamento e il mio grado di coinvolgimento.

(passato-presente)

La costruzione dell’impianto complessivo della Mostra Triennale delle Terre Italiane d’Oltremare, voluta da Benito Mussolini e inaugurata il 9 maggio 1940 nell’area dell’attuale quartiere Fuorigrotta/Bagnoli, richiese importanti investimenti economici oltre che un grande impiego di energie professionali e intellettuali. L’evento, di fatto, veicolò il bisogno imperiale di ricordare agli italiani – e rimarcare agli indigeni – che ‘’Noi siamo il … futuro … il modello di città dell’avvenire … e Voi siete il nostro passato …”. Necessità vitale al cui soddisfacimento contribuirono anche diversi artisti (per lo più pittori), ‘arruolati’ col preciso compito di rappresentare, diffondere e rendere eterne le gesta civilizzatrici dell’impero italiano entro e oltre i confini nazionali.

Come rilevato dagli studiosi che se ne sono finora occupati (tra questi: Abbattista 2013, Arena 2011, Pinto 2012), l’impianto generale della Mostra faceva riferimento ai criteri e ai modelli della museologia etnografica ottocentesca, poi evoluti nel corso degli eventi espositivi coloniali internazionali che, da Parigi a Chicago1, l’avevano preceduta e motivata. In particolare – e con particolare convinzione – di quei modelli egemonici e trionfalistici la Triennale riprese l’uso a esporre esseri umani viventi, in carne e ossa, messi all’opera, a svelare le rispettive attività ‘tipiche’. A supporto della funzione didattica, auto-celebrativa, propagandistica che la politica espansionistica del tempo richiedeva all’arte dell’esibire, per l’allestimento della Mostra vennero importati 58 oggetti viventi, “portatori di peculiarità fisiche e culturali” (Abbattista 2013:27), rappresentanti di quell’insieme di diversità (rispetto agli italiani) e identità (rispetto alla loro cultura ‘originaria’) che si voleva dimostrare e confermare. La presenza di corpi vivi, disciplinati entro le griglie architettoniche e concettuali dei padiglioni tematici e dei “villaggi coloniali” (“villaggi neri” o “villaggi indigeni”), consentiva al pubblico di impattare ‘emotivamente’ con i caratteri di quella tipicità da normalizzare. La meraviglia e lo sgomento che la visione in diretta aveva il potere di suscitare nel visitatore dovevano, infatti, servire a riattivare il consenso di una opinione nazionale che non mostrava più l’entusiasmo di un tempo (il biennio 1935/36, ad esempio, è ricordato come quello del “capolavoro del consenso”; Labanca 2002:199).

Insieme agli “indigeni”, a popolare gli spazi della Triennale e animare la curiosità di tutti c’erano oggetti e reperti di ogni tipo, strategicamente collezionati, interpretati, riordinati; ma anche abitazioni tipiche e intere ambientazioni naturalistiche (la stampa del tempo le definiva “Kermesse orientali”). I padiglioni dedicati ai progressi scientifici, tecnologici e militari enfatizzavano ulteriormente il carattere modernizzante e superiore dei coloni.

Nel maggio 1940, quando la Mostra aprì i battenti, nonostante la propaganda fascista si sforzasse di confermare la potenza dell’impero oltremare, quest’ultimo – con l’avanzare della seconda guerra mondiale – si stava lentamente consumando dietro le spinte delle forze avversarie. Il 10 giugno 1940, poi, quando Mussolini decise di entrare in guerra al fianco della Germania, gli affari coloniali dovettero necessariamente passare in secondo ordine (anche se la storia coloniale italiana si trascinò fino all’ultima resistenza in Africa, risalente al 27 novembre 1941), e la stessa Mostra, travolta dall’emergenza bellica, venne bruscamente chiusa e abbandonata ad appena un mese dalla sua inaugurazione in pompa magna.

(passato-futuro)

Irreggimentati entro le forme e le necessità (etiche ed estetiche) del potere coloniale, esseri viventi (umani e non), oggetti e architetture, allo stessa stregua, hanno fatto si che l’evento del 1940 si guadagnasse il titolo di zoo umano. Come ogni altra “etno-esposizione vivente”2, la Mostra può, in effetti, essere considerata un dispositivo espositivo di disciplina e controllo. Un esemplare unico di cui, oggi, sembrano rimanere poche tracce e tutte difficilmente accessibili. Certo, i bombardamenti, le distruzioni, i riutilizzi e le ricostruzioni subite durante e dopo la guerra hanno causato perdite importantissime su tutti i fronti. Forse, tuttavia, “come spesso accade finché gli sforzi della critica non si concentrano su un oggetto, la scarsa conoscenza di quei fenomeni si è rivelata dipendere più dalla mancata attenzione che dall’esiguità delle testimonianze” (Abbattista 2013:33).
Tentare di riaprire l’archivio della Mostra d’Oltremare, significa, allora, provare a sopperire alla scarsa attenzione che altri hanno mostrato verso altri ancora; vuol dire ampliare le possibilità di apprendere un passato che si vuole ancora messo a tacere, portare alla luce altre storie attraverso cui riconfigurare i possibili ‘passi’ che dal coloniale portano al postcoloniale.
Come ho accennato, però, nonostante il capitolo coloniale sia ritenuto ufficialmente concluso, le forme di egemonia a cui ancora assistiamo (a differenti livelli) sono numerosissime e sostanziali: a volte dichiarate, altre volte camuffate dietro al nome o all’etichetta del momento. Limitatamente all’ambito curatoriale, a 75 anni di distanza da quella Triennale che ci apprestiamo a studiare – e in un certo senso a riproporre – mi sembra, quindi, indispensabile analizzare sotto quali forme (nell’estetica dell’allestimento, per esempio) le resistenze coloniali si manifestano, entro quali scenari la “malinconia postcoloniale” (Chambers 2012a) si mette ancora in mostra. Nell’indagare questi fenomeni, tuttavia, più che a un passaggio lineare dal coloniale al postcoloniale, mi sembra opportuno pensare a un movimento che si mantiene perennemente tra/e le due categorie. Più che in termini opposti (coloniale/postcoloniale), preferisco leggere questo processo come una transizione continua e mutevole; un flusso di sovrapposizioni, giustapposizioni, intersezioni, vuoti, intervalli, ritorni, attraversamenti; una somma – dal risultato sempre variabile – delle due categorie.

Sulla base delle riflessioni e pulsioni fino a qui accennate in modo parziale e per frammenti, ho maturato la mia ricerca teorica e indirizzato la mia pratica curatoriale, condividendo i passi più recenti con Alessandra Cianelli e Beatrice Ferrara.
Le questioni aperte dalla critica postcoloniale e dagli Studi culturali mi stanno supportando nell’affrontare le urgenze, i paradossi, le incongruenze che incontro nel mio procedere e tentare di “eccedere”. Sperimentare queste teorie nella pratica della professione mi porta a stare costantemente “in between” (tra le cose, i concetti, le persone, i posizionamenti, le discipline, ecc), lungo ‘coordinate diasporiche’, “fuori centro”, oltre i consueti confini della narrazione. Applicare queste intuizioni mi permetterà, forse, di formulare “proposte di esibizioni instabili, che producano siti e situazioni in forma di spazi aperti e senza garanzie, che fungano da musei situati” (Chambers 2012b:12).
Questa, ad oggi, mentre comincio a immaginare il display espositivo che accoglierà Il Paese delle Terre d’Oltremare, mi sembra una possibilità.

A questo punto, come direbbe cyop&kaf, “qui non c’è nulla da dimostrare e molto ancora da fare”. Chiuso questo file, riaprirò queste stesse righe nel tentativo di riconfigurare la storia “in maniera contrappuntistica”, cosciente del fatto che non esiste un’unica soluzione, come non esiste un’unica melodia, ma “più melodie che si articolano, confrontano e sovrappongono” (Chambers 2008:89) in una “pluralità di tempi coesistenti” (Bhabha 1990).

Alessandra Cianelli. Piazza Montesanto, Napoli. 2014.

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Alessandra Cianelli

Si può ricorrere a tecnologie aliene per ritornare al futuro, come nel film L’invasione degli ultracorpi, altri corpi da resuscitare con tecnologie sciamaniche, che promuovono e insegnano l’essere posseduti per conoscere l’altro da noi che è in noi. Performare significa: corpi che agiscono riportando qui e ora alla superficie come evidenza emozioni e sentimenti,traducendo ciò che è stato in ciò che tuttora è. Se l’origine del mondo è la vibrazione, che produce spazio e tempo, musica e suono sono la tecnologia su cui costruire la macchina del tempo.

Alessandra Cianelli. Piazza Montesanto, Napoli. 2014.

Nel passaggio dagli archivi documentali agli archivi biologici cambia il tempo/spazio: esso non è più lineare e non è più teleologico; è circolare, ma non consecutivo; fatto di pause e di istanti, di respiro e di suono, di corpi che vivono e rivivono qui e ora.

Vibrare per toccare e cambiare cronologia e topologia.

Suono parole e musica, per aprire archivi viventi e archivi quiescenti.

Archivi impermanenti.

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Beatrice Ferrara

Il mio personale percorso di ricerca incontra quello, del tutto in elaborazione, portato avanti dal progetto Il Paese delle Terre d’Oltremare specificamente in relazione alle possibilità di elaborazione critica di un concetto non lineare della temporalità. Più nello specifico, mi interessa pensare al ‘Paese delle Terre d’Oltremare’ – qui inteso come proiezione e progetto storico del colonialismo italiano – nella prospettiva di un ritorno (del passato, della Storia) con differenza (attraverso la ripresa delle storie ‘minori’ e ‘subalterne’). Dalla lezione di Foucault, si tratta di una messa in movimento della Storia (e del suo documento-monumento) attraverso il tempo proprio dell’archivio (Foucault 1969). Più ancora, nello specifico di questo progetto di ricerca artistico, si tratta di riprendere, riattualizzare e rielaborare il dispositivo-archivio e il metodo critico-archivistico alla luce della prospettiva post-coloniale – ovvero della coesistenza di tempi e spazi differenti in un presente globale, migratorio, diasporico (Hall 1996).

L’archivio è anzitutto la legge di ciò che può essere detto, il sistema che governa l’apparizione degli enunciati come avvenimenti singoli. Ma l’archivio è anche ciò che fa sì che tutte queste cose dette non si ammucchino all’infinito in una moltitudine amorfa, non si inscrivano in una linearità senza fratture, e non scompaiano solo per casuali accidentalità esterne; ma che si raggruppino in figure distinte, si compongano le une con le altre secondo molteplici rapporti, si conservino o si attenuino secondo regolarità specifiche […] Lungi dall’essere ciò che unifica tutto ciò che è stato detto in quel grande mormorio confuso di un discorso mantenuto, esso è ciò che differenzia i discorsi nella loro molteplice esistenza e li specifica nella loro propria durata. […N]oi siamo differenza, […] la nostra ragione è la differenza dei discorsi (Foucault 1969:173-175)

The term post-colonial is not merely descriptive […]. It re-reads ‘colonisation’ as part of an essentially transnational and transcultural ‘global’ process – and it produces a decentred, diasporic or global re-writing of earlier, nation centred imperial narratives. Its theoretical value therefore lies in its refusal of this ‘here’ and ‘there’, ‘then’ and ‘now’, ‘home’ and ‘abroad’ perspective (Hall 1996, 247).

Su questo ‘tempo’, e sul senso in cui potrebbe avere senso nel progetto Il Paese delle Terre d’Oltremare, tornerò fra un attimo. Sento infatti prima il bisogno di posizionare la specificità a partire dalla quale cui io stessa produco qui ed ora un certo tipo sapere ed indago una certa frattura storica piuttosto che un’altra – a partire da un preciso orizzonte metodologico, di studio, di passione etico-politica. ‘Performare la Storia’ è qui, per me, un’azione congiunturale soggettiva, relazionata ad una serie di incontri ed in primo luogo quello fra la mia storia di giovane ricercatrice in Studi Culturali e Postcoloniali e le urgenze, i metodi e i posizionamenti specifici che muovono la ricerca d’arte e memoria di Alessandra Cianelli e la ricerca storico-curatoriale di Alessandra Ferlito.

Perseguo ormai da qualche anno un’urgenza critica che sento fortemente necessaria e vitale per me, fin dal mio primo incontro con gli studi culturali e la prospettiva postcoloniale: l’individuazione di una prassi di studio in cui sia possibile tenere fede ad un continuo dialogo con l’esterno (l’urgenza, la pressione dell’attuale) – uno studio per venire al mondo. Man mano che le condizioni in cui studio vanno modificandosi – dagli anni della laurea e il dottorato a quelli della mia situazione presente, più ‘formalizzata’ (o diversamente disciplinata), di ricercatrice a contratto – quello che ho vissuto non è però un divenire più chiaro del carattere di questa attrazione; non è un farsi più rarefatto e quindi più preciso delle tracce da seguire per costruire una prassi di studio che sia presente al mondo. Al contrario, mentre ho guadagnato in fiducia e consapevolezza in merito ai linguaggi e i metodi proprio del mio campo di studi, riempiendo la mia cassetta degli attrezzi in maniera cospicua, ho trascurato molto spesso l’importanza dei vuoti – delle contaminazioni metodologiche, dell’apertura verso un senso della ricerca che non fosse necessariamente quello consentito e anzi auspicabile nello spazio formalizzatodi una università strangolata da parametri estrinseci di valore, valutazione, validazione. Cautelarsi con la lettura, incontrarsi con altri e altre nel momento della critica ad un certo modello di funzionamento della ricerca non è abbastanza: la soglia da varcare è nell’indagine dell’emozione soggettiva della ricerca – la paura di non dire in maniera adeguata, di non poter dire prima di aver afferrato, dello sbaglio, dell’imprecisione, della scarsa spendibilità. Dagli ultimi anni, quelli ‘professionali’, io sono uscita offuscata: la mia curiosità ferita, ritratta su se stessa. L’incontro – occasionato da una cura editoriale condivisa con Alessandra Cianelli sul tema delle ‘Materie Postcoloniali’ prima e poi, in relazione, con Alessandra Ferlito – ha rappresentato e rappresenta per me, in questa congiuntura, la linea di fuga importante: l’occasione perché il metodo acquisito si sporchi e quindi si faccia onesto. Qui il mio soggettivo si fa anche parte di una critica più grande, sulla ricerca oggi – quello che la chiude (le auto-pratiche di disciplinamento e i parametri estrinseci) e le azioni che la liberano. Quello mi unisce a chi condivide con me la ricerca su Il Paese delle Terre d’Oltremare è infatti non solo l’attenzione per la contro-memoria, per la performance della Storia altra/nostra, ma il fatto che ciascuna tenda alla contaminazione dei linguaggi che le sono propri, nel momento presente – e un poco spaventoso – del non potersi appoggiare totalmente sulle garanzie delle proprie premesse di formazione. Questo è per me un nuovo piano di legittimità a pensare – tramite cui ritorno, in relazione ad altre, a quel primo senso potente, galvanizzate e vitale che mi avevano trasmesso i miei primi incontri con gli studi culturali, dieci anni fa. Anche qui, evidentemente, la ricerca stessa ha un passato che non passa: la costruzione collettiva di un piano di legittimità altra per il pensiero, che può e deve deviare dalle sue premesse – meno che mai scontata quando scrivere e pensare diventano ‘professione’.

Dal tempo di questa ricerca, ritorno ora al tempo in questa ricerca – all’uso critico della categoria della temporalità. Metto in gioco in questo percorso condiviso il mio interesse pregresso per la relazione non lineare fra passato (coloniale/postcoloniale) e futuro (coloniale/postcoloniale): l’esplosione cioè di quel tempo teleologico che è il tempo della colonia, perennemente e bio-politicamente teso al futuro e alla marginalizzazione dell’altro/a razzializzato nell’immobilità del passato – mandata in frantumi dalla prospettiva e dai linguaggi postcoloniali, attraverso la riattivazione e la performance del passato che non passa.

Sono stata occupata da queste questioni per vario tempo negli anni precedenti, in un lavoro di ricerca (in quel caso fortemente legato ad una genealogia postcoloniale della tecno-cultura contemporanea) sui ‘futurismi’ minori e subalterni – cioè sulle varie forme e pratiche, letterarie, figurative ma soprattutto sonore, di immaginazione del futuro portate avanti dalle soggettività strutturalmente escluse dalla possibilità di partecipazione al tempo progressivo della Storia (cfr. Eshun 2003). Come si racconta l’esperienza di essere resi incarnazione (carne-cosa) di un futuro completamente immaginato da qualcun altro? Quali architetture – fisiche, di pensiero, di formazione – entrano in gioco in questa gestione coloniale del tempo? Ma, soprattutto, può qualcuno il cui passato è stato cancellato forzatamente immaginare il futuro? E come? Quella ricerca mi ha guidato sulle tracce, disperse ma potenti, di forme e pratiche di immaginazione del futuro disseminate nelle culture della diaspora nera. Me ne ha fatto scoprire i metodi operativi, ed ho imparato allora che – di fronte ad una questione seria come la disseminazione dell’archivio coloniale da un lato e il predominio occidentale sulla dimensione del prolettico – la chiave stilistica dei futurismi minori era spesso totalmente ‘mondana’, ‘pop’, ‘fuori’, ‘queer’ – non solamente perché raccontava di cronologie e storie altre rispetto ai luoghi, tempi e spazi delle mnemo-tecnologie ufficiali, ma perché ritrovava i suoi spunti, i suoi punti di partenza, in spazi e tempi spesso non seriamente considerati: la retroguardia della cultura pop, gli scarti delle commodities tecnologiche, l’info-entertainment, i generi pulp, a volte anche la paccottiglia kitsch. Dall’archivio artistico del cinema nero britannico, The Last Angelof History di John Akomfrah (1997) lo racconta attraverso la materia del film: oggetti banali, apparentemente morti – tracce nel quotidiano – diventano macchine del tempo per aprire gli archivi quiescenti del futurismo della diaspora nera nell’Atlantico.

Che farne di tutto questo, in un progetto su Napoli e l’esperienza coloniale italiana? Proverò a suggerire varie direzioni che potrei seguire nel tempo a venire. In primo luogo, interviene qui, per rispondere a questa domanda, un’altra direzione di ricerca: un interesse più generale, che si sta sviluppando in particolare nell’ambito anglofono riprendendo la lezione dei futurismi della diaspora, che indaga i progetti di futuro dei colonialisti; futuri non realizzatisi, di cui il presente reca tracce disconnesse ma ancora attivabili in prospettiva critica (cfr. Fisher 2014). Il punto di enunciazione è qui non quello della soggettività altra (qualche questa sia – e non se ne dimentichi mai la differenza interna), ma quello della soggettività ‘storicamente’ dominante, attraversata da un forte movimento di auto-riflessione inscindibile dalla doppia-articolazione postcoloniale – ovvero l’impossibilità di separare il ‘dominante’ e il ‘subalterno’. Come in uno specchio rotto, la colonia ritorna e si moltiplica ovunque. Se il critico TJ Demos (2013) suggerisce di parlare di un “ritorno alla post-colonia” per quegli artisti della diaspora che ‘ritornano’ in Africa a cercare gli spettri della colonizzazione, parallelamente una generazione europea – per lo più bianca, non riconoscibilmente diasporica – di artisti e critici indaga qui ed ora le rovine delle città europee, proiezioni topologiche della colonia, introflesse nell’economia dei territori locali, prima che spariscano sotto l’influsso di un’altra futurologia invadente, quella dell’edilizia speculativa della gentrificazione: blocks alle periferie delle città europee, quartieri periferici costruiti per le seconde generazioni migranti, arti dell’era post-industriale e così via. Le posizioni sono mescolate e incrociate nel post-coloniale, ma resta il posizionamento. Questa è una delle direzioni di ricerca che mi sembra possa essere rilevante anche per Il Paese delle Terre d’Oltremare, poiché le propaggini europee del Paese sono collocate a Napoli, alla Mostra d’Oltremare, a Fuorigrotta/Bagnoli – area investita da desideri (e progetti) di de/ricostruzione non privi di tensioni. Futuri non realizzati, futuri ribaltati. Mi interessa registrare quel progetto come traccia di futuri stratificati – strati di futuro – in competizione fra loro su uno stesso territorio: speculativo coloniale, passato; speculativo abitativo, contemporaneo, migrante.

In secondo luogo, interviene il concetto di ‘desiderio’ e ‘credenza’ – proiezione, progetto, speranza – investiti nell’epoca del colonialismo fascista italiano nella sua propaggine napoletana. Il Paese delle Terre d’Oltremare è infatti un progetto su un progetto, inteso come ‘proiezione’: proviamo infatti con i nostri corpi ad entrare nell’archivio in rovina di in una proiezione futurista – l’attuale Mostra d’Oltremare – proiezione di un Impero fattasi fauna, flora, architettura, intrattenimento (non dimentichiamoci la presenza, in sito, di uno zoo e del parco ricreativo di Edenlandia – l’Edenlandia ora fatiscente, lo zoo in rovina; si pensi anche al Cubo d’Oro mussoliniano definito – e qui cito giornali locali in occasione di una riapertura recente con restauro – “una astronave” fascista). Il tentativo è quello di non leggere solo il portato ideologico, ma il carattere ‘desiderante’ e ‘desiderato’, come disseminazione ed anticipazione – sensibili – di un progetto futuro oggi fallito. Mi interesserebbe registrare quel progetto dalla prospettiva del presente – dei nuovi desideri ‘della crisi’: un futuro sull’altra sponda dell’Impero per l’italiano del Sud – il lavoratore della terra – al tempo del Paese delle Terre d’Oltremare mi interessa anche perché ci riporta alle cronologie contemporanee del tradimento di un’Europa post-coloniale, di nuovo imperialista, in cui il Sud resta centro nevralgico delle politiche del lavoro e dei flussi – dove l’inconscio coloniale, interno ed esterno, resta un nervo scoperto quanto mai attivo.

Mi interessa in terzo luogo anche lavorare con un terreno più scivoloso. Se la Mostra delle Terre d’Oltremare, poi Mostra del lavoro delle Terre d’Oltremare, è incarnazione di una pedagogia del desiderio – un desiderio razzializzante che ci fa vergogna eppure ci tocca, ci fa orrore perché ci tocca, quali furono le forme di quella pedagogia? In questo senso restano importanti i suoni, le canzoni coloniali, con i loro affacci sul mare, i loro rimandi alle sponde, alle acque – canzoni che non si possono ascoltare senso un senso di disagio. Quanto può essere oscena Faccetta Nera? Cosa c’è fuori da quella scena e cosa segnala quel disagio? Chi può cantarla se non ‘il nostalgico’, ‘il fanatico’? E di questo futurismo fascista minore – quello mondano e quotidiano (diverso da quello artistico-avanguardistico, catturato e normalizzato dal Regime), dove sono le tracce? Cosa le nasconde in piena luce? Cosa normalizza questo archivio solido, nostalgico, crudele?

Intanto – mentre elaboro queste righe – dallo schermo del televisore, in prima serata, un pacco di un gioco a premi su un canale della televisione pubblica promette di cambiare la vita: cartone corrugato, uno spago intorno, e finti timbri e francobolli ‘dal passato’ a rafforzare l’estetica retro. Il francobollo reca la scritta “Somalia italiana” – indifferente macchina del tempo, muta e sinistra sotto i miei occhi distratti. Che cos’è quest’archivio quotidiano quiescente, anch’esso solido, nostalgico, semiotico-spettacolare?

Schiacciate tra la nostalgia – veramente, quella, canaglia – del fanatismo militante e la pratica normalizzatrice dell’estetica vintage retro che ricicla le immagini di una parte della nostra storia ‘passata’, tanti oggetti e spazi si fanno condensazioni di tempi diversi, connettori fra varie cronologie. Qui il passato non passa: tra la promessa del futuro e il suo divenire passato, rovina non realizzata, c’è la persistenza di relazioni di potere e di sapere, di desideri oscuri – più che mai attivi e urgenti nella contemporaneità.

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Alessandra Cianelli

A proposito di ‘comprendere senza colonizzare’.

Mi trovo continuamente di fronte alla mia posizione: sono qui a fare l’artista, mi è richiesto di fare l’artista essenzialmente guardando da artista le persone, le cose il paesaggio che mi circonda. Non si può, e nel mio caso non voglio, sfuggire alla responsabilità dell’autorialità, della maternità di un pensiero, di un’idea, di un percorso; ma forse si può restituire a chi è parte di un pensiero, di un’idea, di un percorso la propria parte, il proprio ruolo.

La presentazione delle mie ultime ricerche nella giornata del 23 maggio 2014 al PAN di Napoli, dalla cui ‘azione’ è scaturito il testo finale qui presentato, è il tentativo di tenere questa posizione. Ho scelto la forma performativa per com-prendere alcune delle persone che sono state e sono parte della mia vita e del mio lavoro, qui ed ora nell’attualità. Quando sono stata invitata, prima in via informale poi ufficialmente, a partecipare al workshop del progetto europeo MeLa* – European Museums in an Age of Migrations, ho inviato gli abstracts di due ricerche in corso, sui semi e la ruralità e sul passato coloniale italiano.

Le due proposte erano

Dormitio virginis / Chi dà il cibo da le regole (dal museo malinconico della civiltà contadina ai campi catalogo)

-Il Paese delle Terre d’Oltremare

Ho deciso alla fine di presentarle entrambe con il nome complessivo di Archivi biologici/Archivi biografici.

Ho scritto un testo, che è quello che ho letto durante la performance, che è servito un po’ da ”sceneggiatura”, come ha detto qualcuno dei presenti alla performance, e che in ogni caso era una specie di mappa del percorso che avremmo seguito. Ho chiesto a Senem e Giampiero di esserci, parlare di loro o fare quello che si sentivano di fare. Ho chiesto ad Alessandra, da curatrice che si occupa di questioni espositive, di fare un intervento che approfondisse proprio il nostro essere corpi esposti in quel contesto. Ho chiesto a Beatrice di approfondire, rispetto al discorso delle colonie, gli aspetti spazio/tempo/futurismi ecc., che sono pane per i suoi denti.

Comprendere due ‘figure’ che sono l’oggetto dello sguardo dell’artista (Giampiero e Senem) e due ‘figure’ che generalmente guardano da fuori il lavoro dell’artista (una curatrice e una teorica) è un’altra modalità per tentare di rompere la linearità dello sguardo, un’indicazione per un approccio reciproco diverso: sempre com-prendere senza colonizzare, citando Alessandra Ferlito.
Nel frattempo ho montato una traccia video, traducendo in scrittura visiva la scrittura verbale. Non abbiamo fatto prove insieme: l’assemblaggio di tutti i materiali è stata l’azione performativa stessa. Se è andata bene è solo per empatia e vicinanza di mente e di cuore.
La performance è dunque stata un’azione collettiva, ma non è stata una scrittura collettiva. Il punto è proprio questo: restituire e riconoscere in una presentazione d’artista tutti (alcuni) dei contributi senza cancellarli con l’autorialità/paternità; mantenere e riconoscere l’autorialità/maternità di una ricerca ma agire insieme; molte voci riconoscibili, non una voce collettiva. Responsabilità, autorialità, maternità, prendere e dare nell’ agire. Questo, per quanto mi riguarda, è il mio tentativo di ‘com-prendere senza colonizzare’.

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Copyright e Courtesy, per tutte le immagini e i contenuti multimediali associati al presente file: Alessandra Cianelli.

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1 “Exposition colonialeetinternationale”, Parigi 1931; “Century of progress Exposition”, Chicago 1933.
2 Guido Abbattista precisa che espressioni come ‘esposizioni umane’ o ‘esposizioni etniche’, provengono da quelle in uso nella storiografia anglofona: ‘living human exhibitions’, ‘ethnoexhibitions’, ‘human exhibits’. Abbattista usa, invece, l’espressione ‘etno-esposizioni vivente’: quel “fenomeno con una precisa connotazione biopolitica. Essa appartiene all’universo foucaultiano della “gouvernamentalité”. Si esprime con quelle tecniche di disciplinamento del corpo fisico degli esseri umani attraverso cui avvengono i processi di edificazione del potere e dell’identità statale. L’etno-esposizione e i suoi ingredienti umani esotici contribuiscono alla costruzione del panopticon dell’esposizione universale, con la sua ambizione di rappresentazione e dominio sul mondo.” (Abbattista 2013:27).

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Bibliografia condivisa

Abbattista, Guido. 2013. Umanità in mostra. Esposizioni etniche e invenzioni esotiche in Italia (1880-1940).Trieste: EUT EdizioniUniversità di Trieste.
Akomfrah, John, dir. 1997. The Last Angel of History. 45’, colour. Black Audio Film Collective/Smoking Dogs.
Arena, Giovanni. 2011. Visioni d’Oltremare. Allestimenti e politica dell’immagine nelle esposizioni coloniali del XX secolo. Napoli: Edizioni Fioranna.
Bhabha, Homi. 1990. “Interview with HomiBhabha.The Third Space”.In Rutherford, Jonathan (a cura di). Identity. Community, Culture, Difference. London: Lawrence &Wishart. 207-221.
Cippitelli, Lucrezia. 2013. Etnocentrismo, modernismo, arte globale, estetiche della resistenza. Roma: Bulzoni.
Chambers, Iain. 2008. Transiti mediterranei: ripensare la modernità. Napoli: Unipress, Università degli Studi “L’Orientale”.
Chambers, Iain. 2012a. Mediterraneo blues. Musiche, malinconia postcoloniale, pensieri marittimi. Torino: Bollati Boringhieri.
Chambers, Iain. 2012b. “Memorie, Musei e potere. In estetica. studi e ricerche. 1/2012. Napoli: Luciano Editore.
Demos, TJ. 2013. Return to the Postcolony. Spectres of Colonialism in Contemporary Art. Berlin: Sternberg Press.
Eshun, Kodwo. 2003. “Further Considerations on Afrofuturism”. CR: The New Centennial Review3 (2): 287-302.
Fisher, Mark. 2014.Ghosts of My Life. Writings on Depression, Hauntology and Lost Futures. Ropley: Zer0 Books.
Foucault, Michel. 1969. L’archeologia del sapere. Milano: Rizzoli.
Gramsci, Antonio. (1926-1937). 2011. Lettere dal carcere. Torino: Einaudi.
Hall, Stuart. 1996. “When was the ‘Post-colonial’? Thinking at the Limit”. In: Iain Chambers and Lidia Curti, eds. The Postcolonial Question. Common Skies, Divided Horizons. London & New York NY: Routledge.
Labanca, Nicola. 2007. Oltremare. Storia dell’espansione coloniale italiana. Bologna: Il Mulino.
Lefebvre, Henry. 1973. Dal rurale all’urbano. Rimini: Guaraldi.
O’Neill, Paul. 2011. “Curating Beyond the Canon. OkwuiEnwezor Interviewed by Paul O’Neill.” In O’Neill, Paul. Curating Subjects. London-Amsterdam: Open Editions. 109-122.
Pinto, Roberto. 2012. Nuove geografie artistiche. Le mostre al tempo della globalizzazione. Milano: Postmediabooks.

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Biografie

Alessandra Cianelli. Sono nata a Napoli, dove ho ri-scelto di vivere. Le storie di famiglia, le storie degli eroi e degli dei, la Storia raccontata come una favola, sono stati il regalo dei miei genitori e di chi mi sosteneva mentre crescevo. Inventare altri mondi con questi materiali era la mia passione: giocando con il lego e con le Barbie traducevo le mie visioni in una pratica; questa è diventata un’abitudine che si è trasformata in attitudine. Da adulta quest’attitudine doveva materializzarsi in un percorso di studio e in un lavoro. Sono diventata scenografa studiando all’Accademia di Belle Arti; ho studiato Filosofia e non mi sono laureata; ho lavorato nel teatro e nel cinema per diversi anni; ho lasciato Napoli per una città dove c’erano più opportunità di lavorare nel mondo della ‘finzione’, sul set e sul palcoscenico. Dopo qualche anno ho deciso di ri-tornare a Napoli; ho iniziato a fare l’artista e a studiare la filosofia col corpo, che è lo yoga. C’è una differenza tra la finzione e la visione: percezione falsata della realtà e immaginazione. Siccome fare l’artista significa immaginare, ovvero rilanciare sempre oltre la visione, cercare spiragli, individuare rotture, illuminare particelle insignificanti e/o oscure, raccogliere segni e tracce, posso dire che faccio la ricercatrice.

Beatrice Ferrara. Dottore di Ricerca in “Studi Culturali e Postcoloniali del Mondo Anglofono”, dal 2011 è Ricercatrice e Project Assistant all’Università degli Studi di Napoli “L’Orientale” nell’ambito del progetto europeo “MeLa* – European Museums in an Age of Migrations” (FP7). Presso questo stesso Ateneo, è Docente a Contratto di “Studi Culturali e Media”. I suoi interessi di ricerca includono: le culture sonore e le cyberculture della diaspora africana, le teorie dell’affetto e della post-rappresentazione negli ambiti del sonoro e del visuale in relazione alla razza, la teoria dei media in prospettiva postcoloniale. È autrice di pubblicazioni in riviste e volumi internazionali e curatrice di Cultural Memory, Migrating Modernities and Museum Practices (2012). È Sound Editor per il Critical Contemporary Culture Journal (London School of Economics).

Alessandra Ferlito. Curatrice e ricercatrice indipendente. Nel 2007 inizia l’attività critica e giornalistica con base in Sicilia. Dal 2009 al 2013 collabora con la Fondazione Brodbeck (Catania), dove è assistente curatore per il progetto di residenze artistiche internazionali Fortino 1. Presso la stessa Fondazione, collabora alla realizzazione del programma espositivo promosso dalla Galleria S.A.C.S. di Riso, Museo d’arte contemporanea della Sicilia (2010-2011). Nel 2013 è co-fondatrice dell’associazione Galleria Occupata, progetto sperimentale di ricerca, produzione e tutela legale per artisti e ricercatori. Attualmente è impegnata in un progetto indipendente che coniuga la pratica curatoriale con l’interesse per gli studi culturali e la critica postcoloniale.