Durante una solitaria caccia al tesoro immaginaria, un ragazzino d’altri tempi trova una scatola sotto il proprio letto: aprendola scopre diverse fotografie di famiglia, concretizzazioni fisiche di una memoria tramandata. Le guarda, le sfoglia e comincia a immaginare: “chi sono queste persone? ”Familiari lontani, amici di amici, persone forse conosciute ma immortalate in un’altra epoca, presenti in un’altra versione di se stessi. Quella scatola impolverata sotto il letto si rivela un tesoro inaspettato, la cui portata non ha a che fare con il ritrovamento delle immagini in sé: come un benigno vaso di Pandora, una volta scoperchiata la scatola, il ragazzino di questa storia non può che fantasticare su quali e quante vite possano nascondersi dietro i protagonisti degli scatti. Quel che è interessante però non è cercare di indagare i fatti e i contesti di cui parlano le immagini o ricostruire la memoria dei propri cari, quanto fabbricare un ricordo, indagare lo scarto tra verità tramandate e ipotesi suggerite, inventare delle storie la cui essenza sta al di là del binomio reale-irreale.
Gli intenti e le volontà del ragazzino sono gli stessi che costituiscono la prassi artistica di Giuliana Barbano (Catania, 1992) poiché proprio lui non è altro che un’estensione dell’artista stessa, più specificatamente un eteronimo. Trattasi in questo caso di colui che, nell’immaginario di Barbano, ritrova le fotografie e, così facendo, seleziona per l’artista le immagini che costituiranno poi l’opera Eteronimo #1 (2020). Esposizione site-specific allestita all’interno di una casa semi-abbandonata del comune di Valguarnera Caropepe (EN), l’opera sintetizza una relazione necessaria tra le sensazioni dettate dai presunti ricordi e quelle indicate dallo spazio fisico, che ha determinato la scelta dei singoli scatti che compongono questa storia. Cinque foto dell’archivio di famiglia rappresentano altrettanti individui immortalati in momenti quotidiani: un bambino che compie i suoi primi passi con un girello, un uomo col trench che stringe il suo cane, un ragazzino in posa tra le piante, probabilmente, del giardino di casa sua. Le immagini sono state stampate su comuni fogli bianchi A4 disposti sulle pareti, sul pavimento e sul mobilio: attaccati sull’anta di un armadio e adagiati – come fossero una salma – sopra un letto, forse proprio quel letto sotto il quale si nascondeva la scatola. Questo sentire multiplo – dell’artista e del ragazzino – si traduce materialmente nella scomposizione delle singole fotografie: l’immagine viene suddivisa e ogni modulo, stampato su un singolo foglio di carta, viene riposizionato in una fedele ricostruzione degli originali in bianco e nero. Le composizioni, effimere e leggere, risultano in assoluto contrasto con le pareti colori pastello segnate dall’usura degli anni, il pavimento in cementine e la carta da parati ormai sbiadita ma, contemporaneamente, sembrano animare questo luogo abbandonato a sé stesso, dialogando con l’eco di memorie lontane. Eteronimo #1 prende vita a partire da una storia ipotizzata dall’artista, in un’esemplificazione della propria processualità celebrando l’unione tra il vissuto e l’immaginato (Pessoa e Russo, 2020, p.7).
Cosa sta alla base di questa unione, questo fenomeno curioso dello sdoppiamento (Pessoa e Russo, 2020, p.23) che viene chiamato eteronimia? In una lettera del ’35 indirizzata ad Adolfo Casais Monteiro, Fernando Pessoa – colui che ha fatto dell’eteronomia la sua ragion d’essere – scriveva: Ricordo, così, quello che mi sembra sia stato il mio primo eteronimo o, meglio, il mio primo conoscente inesistente: un certo Chevalier De Pas di quando avevo sei anni, attraverso il quale scrivevo lettere a me stesso, e la cui figura, non del tutto vaga, ancora colpisce quella parte del mio affetto che confina con la nostalgia ( Pessoa, Trabucchi, 2014, p.54)
Il termine eteronimo indica una personalità fittizia che possiede un proprio carattere e profilo biografico, che coesiste con l’identità di chi la crea – il proprio ortonimo – e ne forma una sorta di espansione caratteriale. Solitamente la volontà di dare vita ad alter ego o personalità immaginarie si esaurisce nell’infanzia, ma se alimentata e razionalizzata questa forza creativa è capace di dare sfogo alle diverse sfaccettature della complessità umana.
Su questa scia, la prassi artistica di Barbano si delinea attraverso la configurazione di una moltitudine di eteronimi suggeriti da ritrovamenti di vecchie foto, pellicole o video di famiglia: l’immaginario fittizio di Barbano è così popolato da soggetti che prendono vita proprio a partire dagli archivi domestici. Se comunemente gli archivi acquisiscono autorevolezza nella loro totalità e si affermano nell’esattezza della catalogazione, qui l’archivio è da intendersi come una materia prima grezza, dove dei singoli elementi vengono riletti in maniera del tutto casuale attraverso approssimazioni e accostamenti insoliti e imprevedibili. Le testimonianze della quotidianità di genitori, nonni, zie, cugini lontani, cognate, amici di famiglia o parenti mai conosciuti, non rimandano a nessuna ricostruzione storica o approfondimento genealogico, ma diventano unicamente il punto di partenza della narrazione ipotetica di Barbano. Ogni fotografia o video ritrovato viene processato cercando di cancellarne qualsiasi peso emotivo e relazionale, rileggendo così l’archivio in una veste del tutto insolita. Con assoluto distacco l’artista riesce ad analizzare singole parti dei ricordi di famiglia ed estrapolarne dettagli specifici, che le suggeriscono storie, visioni e installazioni completamente inedite.
In parallelo, la sua poetica si modula a partire dalle innumerevoli ispirazioni che scaturiscono non solo dai ritrovamenti familiari, ma anche dalla stretta relazione con i luoghi, dalle memorie personali, dagli elementi del quotidiano e dalle riflessioni sull’attualità. Quali mezzi prediletti per restituire le suscitazioni e le osservazioni del reale, la pratica dell’artista abbraccia il collage, la scultura e il video e si configura attraverso quelle associazioni istintive che descrive come frutto del legame con una visione comune del racconto e della memoria. Memorie familiari, memorie comuni, memorie fittizie: Barbano cerca con forza di recidere le radici familiari, riscoprendo in queste solo del materiale immaginifico attraverso cui insegue la necessità di alimentare una moltitudine di storie e di personaggi. Un ampliamento di orizzonti generato da una diffusione del proprio sentire, poiché Nulla esiste al di fuori delle nostre sensazioni (Pessoa e Russo, 2020, p.78). Proprio sul concetto di percezione è necessario soffermarsi: nel 1710 il filosofo e teologo George Berkeley affermava essere è essere percepito (Berkeley,1984, p.35); la pratica di Barbano sembra strutturarsi proprio all’interno di quella teoria immaterialistica che vede l’esistenza di un oggetto unicamente nel suo venir percepito, e non come una qualità posseduta a priori. Ma se neghiamo l’esistenza assoluta dei corpi allora la realtà oggettiva diviene un’impressione data dalle idee, un’assoluta soggettività, in questo caso costruita alla luce di un doppio assemblaggio, tanto mentale quanto visivo, inteso come una riformulazione, una costruzione di analogie che si sviluppa incessantemente.
Accanto a questi due filoni concettuali – memorie e percezioni – al centro delle opere di Barbano vi è anche una morbosa attenzione verso due particolari dispositivi, intesi in senso foucaultiano: quello del corpo – sia umano che animale e guardato nella sua pura forma strutturale – e quello medico – attrazione estetica insita in una predisposizione dell’artista mai compresa. Attraverso questi due dispositivi la produzione di Barbano, specialmente nei lavori più recenti – dal 2019 a oggi – si delinea mediante installazioni permeate da un forte distacco emotivo e compositivo e da una freddezza formale a tratti ansiogena.
Del tuo sangue (esterno) del 2019 costituisce un momento importante per Barbano, il punto esatto in cui si delineano con precisione due traiettorie, spesso convergenti, all’interno della propria produzione: da una parte quella che potremmo definire la pura riscrittura mnemonica e dall’altra le analogie inusuali. L’opera è data da due lastre di ferro antracite, sulle quali sono stampati dei collage con la tecnica della serigrafia e addizionati poi degli oggetti in metallo. A partire da una fotografia ritrovata nell’archivio di famiglia, la lastra sinistra raffigura, in maniera speculare, il volto di un bambino immortalato in un istante di vita lontano e sconosciuto: inconsapevolmente ogni pensiero che ha guidato l’artista al concetto di eteronomia è nato qui. La lastra destra, invece, è popolata da una grande accozzaglia di oggetti entro cui possono identificarsi un televisore e una sedia. Questa rappresentazione si afferma come un momento esemplificativo della relazione dell’artista con gli elementi medici o del quotidiano, analizzati nella loro forma strutturale e intesi come dispositivi e/o macchine mai sterili ma capaci di ri-produrre immagini e immaginari nuovi.
È sempre la ricerca e la rielaborazione di immagini preesistenti – date dal proprio bagaglio culturale, dall’archivio di famiglia, dalla contemporaneità e/o da ricordi personali – il fil rouge della produzione di Barbano e non fa eccezione l’ultimo caso preso in analisi: Eteronimo #2 (2021). Altro intervento site-specific allestito nella sede dell’Associazione Culturale Église a Palermo: sei stampe e un video – tratti sempre dalle memorie familiari – immortalano un bambino su un seggiolone, un nonno e una nonna con i rispettivi nipoti. La messa in scena dell’infanzia sempre ricorrente, suggerisce una nostalgia per quella perduta che si dirama dal volto del bambino Del tuo sangue (esterno) a quelli che popolano Eteronimo #1, per arrivare agli infanti protagonisti di questo lavoro simbiotico, dove opera e ambiente si intersecano. Una coesistenza definita attraverso immagini rette da dei tubi in ferro, che si pongono in una condizione di continuità rispetto all’impalcatura autoportante, presente all’interno dello spazio di una chiesa sconsacrata. Dilatate fino all’estremo, queste sono stampate su decine di metraggi di carta, tra accavallamenti, distensioni ed estensioni che sconvolgono completamente la fisicità dei soggetti raffigurati, che si allungano e deformano al punto tale da diventare una componente costitutiva del luogo. L’opera si afferma come una sinergia generale tra tutte le riflessioni indagate dall’artista, nonché punto di approdo della ricerca di un incontro formale tra la valenza degli elementi strutturali di sostegno e l’analogia con la struttura corporea umana. Barbano inscena un’esplicita relazione tra le articolazioni dei soggetti delle stampe e le giunture metalliche dell’impalcatura: la composizione in metallo supera così la sua funzione di ausilio per divenire un elemento integrante dell’opera, attraverso i continui rimandi tra le sue parti e quelle dei corpi rappresentati. In un elaborato gioco fatto di incontri fisici e richiami formali, Eteronimo #2 trasporta i fruitori in una dimensione estraniante, al di là dello spazio e del tempo corrente. L’installazione invita a immedesimarsi nei personaggi che la popolano e a scoprirne le fittizie vicende personali o semplicemente a immaginarle, lasciando spazio alle proprie percezioni, in un’assoluta metafora del lavoro dell’artista dato da approssimazioni mnemoniche inusuali.
Eteronimo #2 (2021). Ferro, giunture, stampa plotter su rotolo di carta e videoproiezione 6.00 min, dimensioni variabili. Site-specific per Église. Courtesy Église sito web.
In un eterno ritorno, il concetto di memoria si ripresenta continuamente e si declina attraverso la creazione di narrazioni immaginarie complesse. Essa, infatti, è costruita e supposta a partire da un sentire personale che non trova spazio all’interno di una lineare ricostruzione storica. Trattasi della messa in scena di una moltitudine: pluralità di idee e suggestioni eterogenee dove Eteronimo #1, Del tuo sangue (esterno) ed Eteronimo #2 si affermano come tappe fondamentali di una pratica data da interventi artistici quasi accidentali, nati inseguendo un irrefrenabile flusso di coscienza. Se la memoria è una delle interpreti delle sensazioni che compongono la vita, per orientarci nel vissuto è necessario creare delle finzioni memoriali. Parafrasando il pensiero di Pessoa potremmo dire che immaginare è cercare se stessi: ecco che bisogna perdersi per orientarsi tra le storie che compongono l’immaginario di Giuliana Barbano. Ma se in questa estetica della finzione, in questo spazio sospeso tra il conscio e l’inconscio, nel più totale abbandono, viene da chiedersi: è così importante che queste persone e queste vicende non siano reali? La risposta è chiara e si è palesata lungo tutta la durata di questo diario di bordo: nessuna storia esiste finché non viene raccontata.
Bibliografia
Pessoa F., Russo V., (a cura di), Teoria dell’eteronimia, Quodlibet, Macerata 2020.
Pessoa F., Trabucchi E., (a cura di), Perché sognare di sogni non miei? Lettere dal mio altrove, L’orma editore, Roma 2014.
Berkeley G., Rossi M. (a cura di), Trattato sui principi della conoscenza umana, Editori Laterza, Bari 1984.
Angela La Rosa (1996) studia e lavora tra Palermo e Milano e attualmente frequenta il biennio di Visual Cultures e Pratiche Curatoriali all’Accademia di Belle Arti di Brera. È co-founder dell’Associazione Culturale no profit Genealogie del Futuro nata nel 2021. La sua ricerca critica indaga la responsabilità sociale e biopolitica nel campo artistico contemporaneo ed è volta alla composizione di un’etica curatoriale attivista e intersezionale. È contributor per ‘Kabul Magazine’ e ‘Forme Uniche’.