§archivio è potere
Per una storia plurale: le tre dimensioni di un archivio
di Giorgia Ravaioli

«Lo stesso secolo ha inventato la Storia e la Fotografia» (Barthes, 1980): sono le note parole con cui Roland Barthes, ne La camera chiara, sottolinea il legame tra l’introduzione della tecnica fotografica e la nascita di una nuova configurazione della coscienza storica. La fotografia ha certamente inaugurato la possibilità di trasformare, con singolare efficacia, l’evento in documento – con tutta l’opacità e la problematicità propria di quest’ultimo termine – su cui imbastire il racconto della Storia.
Che rapporto intrattiene, però, la storiografia con le modalità percettive proprie dello sguardo frammentato e sentimentale della memoria privata? In altre parole, in riferimento alla pratica fotografica, può esistere una comprensione del passato veicolata non dalla registrazione dei grandi eventi, ma dalla testimonianza della fotografia vernacolare? Infine, cosa accade quando questa commistione tra storia pubblica e storie individuali prende corpo a partire dal dispositivo archivistico?
Il lavoro dell’artista Akram Zaatari si inserisce in questo orizzonte di ricerca. Egli fa parte della generazione di artisti – insieme a Walid Raad, Khalil Joreige, Tony Chakar, Lamia Joreige, Rabih Mroué e molti altri –, che hanno reso Beirut un fiorente centro culturale negli anni Novanta, dopo la fine delle guerre civili libanesi. Nel 1997, Zaatari fonda l’Arab Image Foundation (AIF) insieme a un gruppo di colleghi operatori nel campo delle arti visive. Essa era – ed è tutt’ora – un’organizzazione no-profit che mira al recupero e alla conservazione di un corpus quanto più esteso possibile di fotografia vernacolare del Medio Oriente e del Nordafrica, così da consentire un accesso pubblico alle culture visuali locali del mondo arabo e della sua diaspora (Zaatari et al., 2017).
Il materiale raccolto – che sarebbe altrimenti a rischio di sparizione a causa delle guerre e della mancanza di supporto pubblico per la sua tutela – non solo consente oggi di valutare declinazioni del fotografico in queste regioni mai indagate prima, ma incoraggia anche l’emergere di nuove letture della storia. Questo poiché l’archivio offre di fatto un campione alternativo di registrazioni con cui poter illuminare le zone d’ombra della rappresentazione – storica, politica, sociale – create dai reportage di giornalisti di passaggio, dai repertori fotografici delle esplorazioni ottocentesche in Oriente o delle esperienze coloniali (Westmoreland, 2012). In altre parole, le testimonianze fotografiche locali che l’archivio conserva permettono, per contrasto, una «critica dello sguardo» (Faeta, 2003) di notevole efficacia, quando usate nella ricostruzione attenta del sistema di relazioni che le legavano alla realtà. Le storie molteplici della fotografia sono, d’altronde, altrettante storie dell’osservazione, intesa, seguendo la lezione di Faeta (2003), come un campo «culturalmente e storicamente» segnato.
Inoltre, l’AIF opera nella singolare intersezione tra la dimensione istituzionale dell’archivio e la pratica artistica, dal momento che membri responsabili dell’organizzazione agiscono sulle collezioni con approcci personali, anche inconsueti, per dar vita a lavori artistici e curatoriali paralleli (Westmoreland, 2017). I contributi esterni all’attivazione del patrimonio – da parte di ricercatori, operatori visuali o studenti – vengono poi continuamente incoraggiati tramite l’organizzazione di residenze artistiche, accademiche e la disposizione di progetti educativi.
Facendo eco a Michel De Certeau, Tiziana Serena ha parlato di (re)“mise en archive” (Serena, 2013), in riferimento ai processi di continua ri-fondazione dell’archivio da parte di chi, nel tempo, sovrintende alle sue funzioni. Processi che sono destinati a determinare configurazioni inedite dell’insieme di significazione che l’archivio rappresenta, associandolo a nuovi valori e destinando i documenti che raccoglie a veicolare visioni nuove della storia.
In questo senso, nel caso dell’AIF, il potere dell’archivio in quanto agente attivo (van Alphen, 2014) nella costruzione della memoria culturale si esplicita in uno spazio di partecipazione singolarmente permeabile, in cui i ruoli dell’artista, dello storico e dell’archivista possono persino sovrapporsi e confondersi.
Nel 2006, in occasione di un’intervista, Zaatari ha raccontato: «In the absence of dedicated art institutions, an artist often finds him/herself focused on the development of structures without being an arts administrator or a curator, interested in histories without being a historian, collecting information without being a journalist. It is indeed distracting to be an artist in such conditions, but it is also an unequivocal privilege to be able to sustain so many positions simultaneously» (Zaatari citato in Feldman e Zaatari, 2007) [1].
Uno degli interventi di Zaatari all’interno dell’AIF è stato l’appropriazione e la ri-mediazione in chiave artistica di un corpus di oltre cinquecentomila negativi appartenuti al fotografo Hashem El Madani, proprietario di un atelier storico di Sidone. Si tratta di scatti in posa dei numerosissimi abitanti della città, che si fecero ritrarre nello studio di El Madani dai primi anni Cinquanta alla fine del secolo scorso. Il progetto Hashem El Madani. Studio Practices – reso pubblico per la prima volta nel 2004, nelle forme di un libro e di una mostra alla Photographers’ Gallery di Londra – rappresenta il punto di partenza di una serie di esplorazioni e riletture del fondo da parte dell’artista, tuttora in corso.
Secondo la ricostruzione di Zaatari, El Madani fu il primo professionista a possedere una fotocamera 35 mm nella sua città. Dopo un apprendistato presso un fotografo di Haifa, nel 1949 si trasferì a Sidone, capoluogo del Sud Libano, dove avviò l’attività in proprio al primo piano di un edificio in Riad el Solh street. Chiamò il suo studio Shehrazade, riprendendo il nome del cinema situato al piano inferiore. La scelta della posizione elevata, funzionale a garantire la riservatezza dei clienti, si rivelò strategica per il successo dell’attività, che negli anni Cinquanta attirò tra i venti e i trenta clienti al giorno e fino a cento nei due decenni successivi (Zaatari, 2007).

Akram Zaatari, 'Objects of Study, Studio Shehrazade, Footnote Kissing series Hashem el Madani, 1950s', 2014 five silver prints © Akram Zaatari. Courtesy the artist, Sfeir-Semler Gallery and Thomas Dane Gallery

In un’intervista a Zaatari, El Madani ha descritto il suo lavoro di oltre mezzo secolo come niente più che una “service profession”. Malgrado la modestia nel riferirsi all’esercizio infaticabile di una vita come a una semplice prestazione d’opera, la raccolta attenta e costante di ogni fotogramma impressionato (persino dei ritratti mai ritirati o mai consegnati, poiché non rispondenti agli standard qualitativi attesi) lascia trapelare un coinvolgimento dell’autore di ben altra intensità. In definitiva, un impulso che si potrebbe definire collezionistico si rivela nella confessione di un unico rimpianto a fine carriera: «I would like to have photographed all the people of Saida, because this is where I live» (El Madani citato in Zaatari, 2007).
Forse non riuscì, è vero, a raccogliere una traccia fotografica di tutti gli abitanti della città, ma rimane comunque notevole tanto la quantità di coloro che si fecero immortalare nel suo atelier, quanto la pluralità di usi e funzioni a cui erano preposte le stampe che venivano acquistate. Aides-mémoire da conservare negli album di famiglia, fotografie “rituali” di nascite e matrimoni, dalla valenza densamente mnemonica, trovano posto nella collezione accanto a migliaia di ritratti identificativi, destinati agli schedari della burocrazia e della giurisprudenza.
Da un punto di vista storico, la grande varietà della produzione di El Madani è anche riflesso delle diverse modalità attraverso cui il fotografico e l’archivistico hanno interagito, sin dalla prima metà del XIX secolo, nella rappresentazione del corpo sociale.
In The Body and the Archive (Sekula, 1986), Allan Sekula ha illustrato questo processo tracciando lo sviluppo della ritrattistica fotografica in relazione a due diversi sistemi di rappresentazione: il primo, un sistema onorifico, che raccoglie il testimone della pittura; il secondo, un sistema repressivo, sviluppato in ausilio alla scienza normativa applicata al corpo umano. All’interno di questo secondo sistema, la registrazione meccanica – impiegata con piena subalternità documentaria in virtù della promessa di aderenza al reale – ha contribuito (e tutt’ora contribuisce) all’iscrizione dell’individuo all’interno di una vasta rete di dispositivi archivistici. È vero anche, però, che l’evoluzione della tecnica fotografica e, soprattutto, il suo diventare di uso comune, ha coinciso con una democratizzazione delle pratiche di rappresentazione di sé; quindi con una possibilità sempre più estesa di definire, con il supporto testimoniale dell’immagine, l’identità sociale nella sfera privata.
In effetti, molti dei clienti di El Madani dimostrarono di concepire lo spazio dello studio in quest’ultimo modo: come un luogo dove cimentarsi nella messa in scena, più o meno consapevole, delle proprie aspirazioni identitarie. Un gruppo di scatti dei primi anni Settanta, ad esempio, ritrae uomini in posa che imbracciano fucili semi-automatici. Molti di loro erano membri dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) ed era stato loro concesso di circolare armati per la prima volta dopo la Conferenza del Cairo del 1970 [2]. Molti altri, però, erano civili che chiedevano ai combattenti i fucili in prestito per emularne le pose e gli atteggiamenti marziali davanti all’obbiettivo. L’uso del corpo che i soggetti di queste foto comunicano, fermamente radicato nel particolare contesto sociopolitico del periodo, complica dunque la valenza documentaria di queste registrazioni, destinate a rimanere in bilico tra l’auto-rappresentazione di una precisa identità sociale – quella della resistenza armata palestinese – e la sua simulazione fotografica (Elias, 2013).
Sono diversi, poi, i ritratti di coloro che si recavano in atelier ispirati dalle movenze e dalle pose degli attori, dopo aver assistito a una proiezione cinematografica al piano inferiore [3]. Cowboys agguerriti, lottatori coi muscoli cosparsi di unguenti, poliziotti che eseguono arresti simulati con tanto di armi posticce e mani in alto in segno di resa sono solo alcuni dei casi che si potrebbero qui elencare. Queste immagini, cariche di determinazioni iconiche iper-referenziali, testimoniano un tipo di esperienza dei soggetti davanti alla macchina fotografica, legato a meccanismi performativi, che appartiene alla tradizione della fotografia di atelier sin dagli esordi. Basti pensare ai bizzarri travestimenti dei frequentatori dello studio di Eugène Disdéri, l’inventore, nel 1854, dell’apparecchio meccanico in grado di realizzare le cosiddette carte de visite. È noto come i tentativi del fotografo di guidare nella posa i suoi modelli e consigliare loro l’atteggiamento da assumere fossero resi vani dall’impulso a «nascondersi, a travestirsi, a de-identificasi» (Alinovi, 1981) che la presenza dell’obbiettivo pareva scatenare in loro. Allo stesso modo, gli abitanti di Sidone avevano usato lo studio di El Madani come palcoscenico su cui dare corpo a desideri di evasione o di sperimentazione.
Nei singoli scatti si può leggere un approccio concettuale al medium fotografico simile, nei fini, a quello adottato per documentare esperienze di arte effimera, nel corso del Novecento; un approccio che fa leva sull’automatismo del mezzo e sulla sua capacità di dare concretezza visiva alla progettualità autoriale del soggetto. Mentre da un punto di vista sociologico, uno sguardo complessivo e diacronico sugli elementi della collezione svela la presenza di convenzioni sociali in evoluzione, norme di genere, strutture ideologiche e politiche rese visibili dalla volontà dei soggetti di rispettare o meno i vincoli che esse impongono, nello spazio bidimensionale dell’immagine. Stephen Wright ha parlato, a questo proposito, del venire a evidenza dell’habitus (Wright, 2007): un concetto, centrale nel pensiero di Panofsky e Bourdieu, che designa una dimensione percettiva condivisa in grado di generare comportamenti e stili di vita, fornendo una sorta di alfabeto espressivo con cui strutturare la soggettività. «Habitus, though representing and even incarnating stability», scrive Wright, «is itself constantly modified because it is living practice: the transaction between past and present moves in both directions».
È importante sottolineare, però, che l’accesso a questo livello di lettura è reso possibile solo grazie alla mediazione di Zaatari, senza il quale queste fotografie non sarebbero mai state fruibili come una raccolta unica. La sua opera di artista e curatore ha infatti portato a uno snodo fondamentale nella biografia culturale [4] del fondo, determinandone mutamenti di contesto e significato, afferenti a dimensioni distinte dell’archivio.
Dalla dimensione privata della collezione, costituita gradualmente attraverso la meticolosa raccolta dei negativi da parte di El Madani, a quella pubblica, innescata dall’investimento artistico; e infine a quella istituzionale dell’AIF, che conserva tutt’ora il fondo fotografico. È nella singolare sinergia tra queste tre dimensioni dell’archivio che le testimonianze private raccolte da El Madani possono ergersi a contro-memorie per l’osservatore contemporaneo.
Un esempio, tra i tanti possibili, di come l’intervento di Zaatari sia funzionale al riposizionamento delle immagini private nella sfera pubblica è offerto da alcuni fotogrammi datati 1957. Essi ritraggono una giovane donna che si faceva spesso fotografare nello studio – così El Madani raccontò nell’intervista all’artista già citata – all’insaputa del marito, il signor Baqari. Disapprovando l’abitudine della moglie, l’uomo chiese al fotografo di distruggere i negativi, graffiandoli con una spilla per impedirne future ristampe. Anni più tardi, tornò in atelier nella speranza di riaverli dopo che la moglie, non potendo più sopportare la reclusione impostale, aveva messo fine alla propria vita.
Se gli scatti di El Madani comunicavano un’istanza di autoaffermazione della donna nella rivendicazione di controllo sulla propria immagine, le ristampe di Zaatari, con i graffi neri della spilla a deturpare il volto del soggetto, raccontano anche una storia di tradizionalismo, gelosia e profonda sofferenza, che si ripresenta allo sguardo con violenta attualità. «At what point do we discover that what we have been looking at as history or as a document of a repressed truth is also a performance of resistance or conservatism? What happens to our capacities of reading and interpreting those photographic collections after we look at them as performative images?», chiede Zaatari (Feldman e Zaatari, 2007). L’opera-archivio può infatti essere efficace soltanto richiedendo a chi vi si accosta un pensiero che non solo completi i vuoti storici e narrativi, ma che si interroghi anche sul nuovo perimetro di significazione delle immagini, dal momento che non sono né il fotografo, né i suoi clienti a presentarle al pubblico.
Introduce motivi di riflessione simili anche un gruppo di fotografie raffiguranti dimostrazioni d’affetto e messinscene in abiti nuziali tra persone dello stesso sesso. Sebbene sia forte la tentazione di imbastire discorsi intorno all’anticonformismo di genere e alla conquista di visibilità da parte di identità omosessuali, all’alba della modernizzazione del paese, ritratti di questo tipo vanno anche letti sullo sfondo di una società in cui non era concesso a uomini e donne di mostrare effusioni in pubblico, tanto meno davanti alla macchina fotografica. In simili scatti, la lettura della rivelazione di desideri omoerotici deve perciò convivere con la possibilità del suo contrario: vale a dire, un semplice gioco di ruolo tra amici, inscenato per sostituire il partner reale, che non poteva essere fotografato (Gopinath, 2017). Nel secondo caso, si tratterebbe quindi di nient’altro che scherzosi incroci tra generi, pratiche permesse all’interno di una, comunque rigida, etero-normatività. Non sono solo, dunque, i limiti della registrazione storica a essere messi in discussione, ma anche quelli della «pratica occasionale» della fotografia, come la chiama Bourdieu (Bourdieu, 1972), imposti da valori e principi non sempre prontamente riconoscibili.
Molti critici hanno utilizzato, in riferimento a Studio Practices, la cornice interpretativa dello scavo nel fertile terreno del quotidiano, del marginale; un terreno in cui la storia di un paese martoriato dalla guerra è inseparabile da una storia, integrata e plurale, della rappresentazione, dei suoi codici generati da schemi insieme etici ed estetici. Da questo punto di vista, la ricerca di Zaatari è ascrivibile a quel vasto orizzonte di pratiche legate alla cosiddetta “svolta archivistica” dell’arte contemporanea e guidate da metodi e motivi propri sia dell’archeologia, sia dell’etnografia. L’esecuzione di interviste, la produzione di registrazioni audiovisive e l’attenzione alla materialità delle fotografie, sono infatti modalità operative comuni del fieldwork etnografico, mentre la metafora archeologica dello scavo rende conto dei diversi momenti in cui si scandisce l’azione artistica (Westmoreland, 2012). In primo luogo, la delimitazione di un campo da esplorare. Poi il prelievo dei reperti dal loro contesto originario (quello della collezione privata, dell’album) e il loro riposizionamento in un nuovo sito, adibito alla conservazione e alla fruizione pubblica. Infine, la trasformazione del loro valore d’uso e, naturalmente del loro potere discorsivo, una volta inseriti nell’archivio.
Così, con il presupposto di salvaguardia dell’AIF e attraverso i successivi interventi di selezione, riorganizzazione e raggruppamento di Zaatari, la collezione di El Madani si trasforma, da deposito di registrazioni mute quale era, in testimonianza corale di un passato complesso e stratificato. Un passato composto da realtà individuali che, attraverso l’archivio, sono per la prima volta in grado di transitare nel presente, portando con sé narrazioni sommerse e aprendosi, al tempo stesso, ad accoglierne di nuove.

Note
[1] La citazione fa a sua volta riferimento a un’intervista pubblicata in Terms Falling: Migrating among Artist, Curator, and Entrepreneur, Bidoun 6 (Winter), 2006, p.16.
[2] Lo stesso Zaatari lo racconta in un’intervista per il MoMA. Il transcript dell’intervista è reperibile a LINK
[3] Lo racconta El Madani nell’intervista già citata del 2007.
[4] Per biografia culturale si fa riferimento al metodo introdotto da Igor Kopytoff e applicato alla fotografia da Janice Hart ed Elizabeth Edwards, in Edwards E. e Hart J. Mixed Box. La biografia culturale di una scatola di fotografie “etnografiche”, in «Ricerche di storia dell’arte», n. 106, 2012, pp. 25-35. Nel caso citato si riferisce ai diversi passaggi di contesto della collezione – dal deposito dello studio fotografico alla sede dell’AIF a Beirut, dove oggi si trova – e al conseguente ingresso entro nuovi perimetri di significazione.

Bibliografia
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Bourdieu P., La fotografia. Usi e funzioni sociali di un’arte media, Guaraldi, Rimini 1972.
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Faeta F., Strategie dell’Occhio. Saggi di Etnografia Visiva, terza ed., FrancoAngeli, Milano 2003.
Feldman H. e Zaatari A., Mining War: Fragments from a Conversation Already Passed, in «Art Journal», 66(2), 2007, pp. 48–67.
Gopinath G., Queer Visual Excavations Akram Zaatari, Hashem El Madani, and the Reframing of History in Lebanon in «Journal of Middle East Women’s Studies», 13(2), 2017, pp. 326–336.
Sekula A., The Body and the Archive, in «October», 39(Winter), 1986, pp. 3–64.
Serena T., Sulla (re)“mise en archive” e sugli oggetti fotografici: spigolature, resoconto dell’intervento al convegno Attraverso la fotografia. Problematiche di conoscenza del fondo MPI, Roma 22 maggio 2013.
Westmoreland M. R., In This Field: Akram Zaatari’s Ethnographic Excavations, in «Cairo Papers in Social Science», 31(3/4), 2012, pp. 128–148.
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Wright S., Falling into his Eyes, in Bassil, K., Le Feuvre, L., e Zaatari, A. (eds) Hashem El Madani: Studio Practices, Arab Image Foundation and Mind the gap, Beirut 2007, pp. 3–7.
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Zaatari A. et al., Against Photography, Museu d’Art Contemporani de Barcelona (MACBA), Barcellona 2017.

Giorgia Ravaioli nel 2013 completa il foundation year in Art, Media and Design alla London Metropolitan University. In seguito consegue la laurea triennale in Lettere moderne all’Università di Bologna (2016) e la magistrale in Arti Visive (2018) presso lo stesso ateneo. Attualmente collabora a progetto con l’Università di Bologna e con il Gabinetto fotografico degli Uffizi, come parte della formazione di Generazione Cultura di LUISS Business School.