Lo dico subito, ho seri problemi con la parola “patrimonio”: più volte ho ripreso in mano le linee di pensiero per scrivere queste riflessioni, e le intersezioni che scaturivano si scontravano ogni volta con il peso specifico della parola, che cela un DNA, un meme diremmo oggi, profondo, saldo e allo stesso tempo vacillante.
Patrimonio è espressione allo stesso tempo di eredità e di proprietà: un concetto fermo, meno dinamico del suo corrispettivo inglese, “heritage” – termine che traduce oggi il codice di riferimento internazionale – proprio perché legato fermamente a un idea di diritto romano che sul “latifondo” della memoria ha costruito un potere (e un sapere).
Non si nutre solo di “eredità” (concetto sempre statico ma che diventa fluido a secondo dei contenuti da travasare), ma dell’affermazione costante di un potere mascolino dello Stato.
Lo dico inoltre da maschio e padre (“patre”, quanto risuona…), e da cinquantenne formatosi in un ‘900 travalicante nel terzo millennio, lungo un periodo che mai come prima, nel pensiero occidentale, è stato scosso da profondi ripensamenti del sé.
Lo dico da (ex) archeologo, da persona che per decenni ha vissuto dentro “patrimoni” del sapere accademico, fuoriuscendone proprio perché la rigidità del “padre” sapere non ti concedeva di stare sulla linea di frattura, di conflitto, di visione “profetica” del futuro (uscendo dalla proprietà del sapere stesso).
Lo dico da persona che sente profondamente la crisi di uno Stato, in cui, i luoghi/monumenti (ai quali la parola “patrimonio” spesso ci riconduce), sono spesso presidi stanchi che nascondono la fragilità delle vere “proprietà” pubbliche, quelle del welfare e del sapere, che sullo scollamento Stato/società civile, sulla crisi del pensiero democratico, trovano le ragioni di un temuto collassamento.
Lo dico infine affacciandomi come ogni giorno da tanti anni, sul luogo emblematico dei Sassi di Matera: luogo della vergogna negli anni ’30, fatto suo come patrimonio dallo Stato – espropriato legalmente da una comunità che lo viveva – diventato improvvisamente luogo della bellezza, patrimonio di una nuova umanità, di uno stupore che ha nascosto i segni stessi di quella originale vergogna marchiata ancora sulla pelle degli anziani che vivono nei quartieri degli anni ’50.
Una traccia silentemente dolorosa di un passaggio che qui cercherò di esplorare.
Questi tempi che mi porto addosso, sono dopotutto tappe che riflettono il percorso di noi bloomers. Sono figlio di una generazione, quella degli anni ’30, che ha dato vita ad una delle riformulazioni occidentali più all’avanguardia sui patrimoni culturali, dove, alla legge del 1939 (Legge 1 giugno 1939, n.1089), erano soggette: «le cose, immobili e mobili, che presentano interesse artistico, storico, archeologico o etnografico, compresi: a) le cose che interessano la paleontologia, la preistoria e le primitive civiltà; b) le cose d’interesse numismatico; c) i manoscritti, gli autografi, i carteggi, i documenti notevoli, gli incunaboli, nonché i libri, le stampe e le incisioni aventi carattere di rarità e di pregio. Vi sono pure compresi le ville, i parchi e i giardini che abbiano interesse artistico o storico. Non sono soggette alla disciplina della presente legge le opere di autori viventi o la cui esecuzione non risalga ad oltre cinquanta anni».
Alla fine dell’art.4 appariva la parola patrimonio – «Art. 4. I rappresentanti delle province, dei comuni, degli enti e degli istituti legalmente riconosciuti devono presentare l’elenco descrittivo delle cose indicate nell’art.1 di spettanza degli enti o istituti che essi rappresentano. I rappresentanti anzidetti hanno altresì l’obbligo di denunziare le cose non comprese nella prima elencazione e quelle che in seguito vengano ad aggiungersi per qualsiasi titolo al patrimonio dell’ente o istituto» – a ricordare che quanto lungamente (e rivoluzionariamente) elencato, era tale anche perché proprietà dello Stato nelle sue diverse ramificazioni istituzionali: all’incredibile capacità per l’epoca di riconoscere il valore misto di portatori attivi di memoria, corrispondeva, alla fine, un linguaggio fortemente burocratico/mascolino/proprietario, che ne affermava la suprema paternità.
Poco meno di 10 anni dopo l’evoluzione repubblicana del pensiero italiano, nel capolavoro della Costituzione, ha la capacità di condensare nell’art.9, in parole dinamicamente lapidarie, il senso del rapporto con il suo (rinnovato?) passato: «La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione».
Un patrimonio intimamente connesso a un’idea di sapere, una tutela che scaturisce dall’affermazione di una promozione.
(Intanto i Sassi vengono svuotati. La comunità che non sa e subisce, viene deportata in luoghi del volto nuovo della nascente Repubblica, proprio mentre vari atti internazionali sancivano la nascita del concetto di “beni culturali”).
Negli anni ’70, in cui io ero bambino, nasce il primo ministero “per i beni culturali e ambientali” (a ripensarci, anche qui, quasi preveggente – l’ambiente verrà poi staccato negli anni ’80), ed è a partire da questi anni che la parola patrimonio inizia a essere relegata a discorsi quasi prettamente giuridici o retorici, sostituito ormai da “beni culturali”, insinuando una nascente idea di “bene comune” che solo fintamente celava il possesso dello Stato: nel mentre di incredibili riforme della società (lavoro, salute mentale, divorzio, aborto, scuola, ecc.), l’istituzione trasformava il rapporto della comunità con la sua memoria, consegnandole un bene che ancora controllava.
(E questi sono gli anni del concorso internazionale dei Sassi, frutto dell’affermazione di una intellighenzia locale che strappava il “bene” al suo essere vergogna e costruiva le premesse per un suo riconoscimento oltre la sua dimensione comunitaria).
Poi la legge Bassanini del 1998 in cui i beni culturali sono “quelli che compongono il patrimonio storico, artistico, monumentale, demoetnoantropologico, archeologico, archivistico e librario e gli altri che costituiscono testimonianza avente valore di civiltà”. Legge che iscrive su pietra, attraverso commi e articoli specifici, parole come “tutela, valorizzazione, gestione e promozione”.
L’associazione patrimonio/bene culturale viene riaffermata: la proprietà e l’idea di eredità vengono ripensate attraverso un supposto valore di “civiltà” mai declinato, ma che si muoverà sulla sequenza tutela-valorizzazione-gestione-promozione, che in questo ordine condizioneranno gli anni successivi, in un refrain quasi ossessivo.
(E i Sassi diventano patrimonio Unesco, e prende corpo il ripopolamento dei Sassi con una nuova comunità, ben differente da quella che l’aveva da ultima vissuti – una “nuova” civiltà).
Mi fermo qui con questo rapido e impreciso excursus, perché poi, in Italia, gli unici grandi atti saranno quelli (a conferma dei provvedimento degli anni ’90) del Codice Urbani del 2004 e, pochi mesi fa, dopo solo quindici anni, la ratifica della Convenzione di Faro.
In quest’ultima la parola “heritage” (tradotta in patrimonio), compare ennesime volte, riportando alla luce, per noi italiani, il dissidio profondo fra concetto di proprietà ed eredità, mitigato nei decenni passati dall’idea di “bene”. Diventa invece trasformativa per il ruolo che la comunità svolge al suo interno nella sua “facoltà di partecipare all’arricchimento o all’incremento del patrimonio stesso”, nella sua “responsabilità condivisa nei confronti del patrimonio culturale e partecipazione del pubblico” e, infine, nel riconoscimento di una “comunità patrimoniale […] costituita da persone che attribuiscono valore ad aspetti specifici del patrimonio culturale, che essi desiderano, nell’ambito di un’azione pubblica, sostenere e trasmettere alle generazioni future”.
A patrimonio/beni culturali/comunità (accompagnati da tutela/valorizzazione/gestione/promozione), si aggiunge, con la Convenzione di Faro, questa idea di “trasmissione” per le generazioni future. Ma dove sono le comunità di mezzo (noi), che in teoria svolgiamo solo il mero lavoro di intermediari (fra eredità e generazioni future)?
(E i Sassi, amplificati dall’evento di Matera Capitale Europea della Cultura, si risvuotano della comunità residente per essere consegnati agli occhi stupiti di frotte di turisti).
La comunità è apparsa. Diventa in teoria nuova (finalmente) attrice e costruttrice della relazione fra parole ed azioni.
Dopo la secolare sequela di parole – scolpite nella mia formazione, vuoi anche per il lavoro da archeologo che ho svolto, attento alle stratigrafie – sento oggi il peso di una cura che sia di servizio alla comunità stessa e alla sua capacità di riformulare nuove parole.
Nelle sollecitazioni che ci hanno guidato nella redazione di questi contributi (chi decide cosa è patrimonio? Qui il nesso tra patrimonio e potere: chi decide strumenti e criteri che definiscono ciò che è eredità culturale?), ispirandosi al patrimonio come fatto culturale secondo Appadurai – e richiamando se volete anche il padre putativo dell’idea di comunità immaginate/immaginarie, Benedict Anderson (Anderson, 1983) – dobbiamo scardinare le parole del passato, consegnarle alla comunità e capire come proiettarle in una dimensione civica.
Tutto questo, come dico da tempo, nel mezzo di una crisi profonda della gestione della memoria assolto delle nostre discipline umanistiche, in cui il pensiero storiografico – strumento essenziale nella costruzione dell’idea stessa di patrimonio/eredità culturale, dall’800 in poi – si è fermato, non riuscendo più a scrivere parole di visione dalla microstoria di Carlo Ginzburg in poi (Ginzburg, 1994). Nel parlare di “patrimoni culturali” – rimuovendo per un momento il concetto di proprietà – abbiamo la necessità di scontrarci con la nostra gestione della memoria del passato (quella che in teoria dovremmo consegnare al futuro), ferma spesso nelle immagini belle ma statiche dei nostri musei: l’ossessione della nostra cultura che quei musei ha inventato con la costruzione dell’idea dello Stato moderno – mettendo il passato come artificiose fondamenta del nostro essere, deve saper cimentarsi ora con il senso di “storia” che vogliamo. E dobbiamo prendere atto che gran parte del sistema del sapere che fa ricerca di storie (archeologi, storici, storici dell’arte, ecc.), si è trasformata in una serie di affascinanti divulgazioni (descrittive), senza più preoccuparsi del senso profondo dello strumento disciplinare.
Quale storia oltre la narrazione, oltre lo storytelling?
Siamo fermi alla conservazione (tutela, ricordate?) e in teoria alla valorizzazione (lo storytelling?), reiterando all’infinito immagine, monumenti, parole che prendiamo dal passato e consegnamo semplicemente al presente, in nome di una civiltà/comunità che non abbiamo definito (e che inchiodiamo alla venerazione di quanto fu).
In questo sento vicine le riflessioni di Milo Rau quando nel Gent Manifest, al punto 4 del suo decalogo, ha scritto: «The literal adaptation of classics on stage is forbidden. If a source text – whether book, film or play – is used at the outset of the project, it may only represent up to 20 percent of the final performance time».
Ecco, io credo che questo principio – applicato nel mondo ibrido della produzione artistica che contraddistingue il lavoro di Rau, fra teatro, cinema, finzione e realtà, – dovrebbe essere esteso a molte altre “eredità” del passato: che esse siano parole (dei testi che leggiamo) o addirittura monumenti, perché la loro gestione non sia limitata alla loro radicale conservazione, ma alla loro capacità rigenerativa.
Luoghi/parole che escano dalla retorica della politica del “polo attrattore”, ma che diventino, uscendo spesso dalle pagine o del loro stesso status di luogo, attivatori di processi esterni: sul loro 20% si dovrebbe avere la cura di costruire nuovi linguaggi per il restante 80%.
Memi/DNA culturali che non diventino beni da trasportare verso generazioni future, ma che con le generazioni future (e quelle di mezzo) diventino laboratori di nuovi immaginari.
Per questo abbiamo bisogno di una ancora più radicale decolonizzazione e, sulle belle sollecitazioni che ci arrivano da Giulia Grechi per il mondo dei musei (Grechi, 2020), andare “oltre lo specchio.. e gettare il corpo nella lotta”, risemantizzando anche il portato ereditario che hanno segnato le parole del beni culturali negli ultimi decenni: “decolonizzando” noi stesse/i, ricucendo le città di pietra con quella della carne (e qui le riflessioni di Ilda Curti), dove la ‘conservazione’, prima di essere trasmessa al futuro, passi per un profondo ripensamento del presente.
Ma su questo dobbiamo prendere atto che la reale trasformazione sta avvenendo proprio nel sistema di codici di comunicazione, con un’accelerazione profonda che lo stesso Covid ha dato: il sistema dell’infosfera (per dirla alla Luciano Floridi) ha cortocircuitato quel nostro sapere che si muoveva attraverso la lentezza dei passi (nel conquistare gli spazi), degli sguardi (nel guardare e nel leggere parole inscritte), dell’ascolto di nuove parole e musiche (dal vivo).
E che in questa nuova dimensione, nella crasi, nella linea di crescenza fra fisico e digitale, deve saper trovare la formulazione di un nuovo rapporto fra umani e gli spazi che abitano, che normano – una nuova eco/nomia.
Il passato, se fermo nel suo essere “santuario” è già sottoposto a una radicale trasformazione per il semplice motivo di essere oggetto dell’infosfera stessa: cambia in continuazione.
Abbiamo quindi bisogno di nuove comunità che sappiamo educarsi a pensare collettivamente in forme diverse: non entro qui nel grande tema complesso della formazione (stravolta negli ultimi anni), ma chiaramente sono saltate le forme dell’apprendimento, una volta riconducibile al manuale, ora sollecitato da mille plurime voci.
Così come ci ricorda Claudio Calvaresi: « il Covid-19 ha fatto emergere la necessità di portare la scuola fuori dalla scuola, diversificare gli spazi, occupare il cinema o il teatro rimasti chiusi, l’immobile rimasto privo dell’uso precedente. Questo modo di procedere replica però lo stesso modello didattico oltre il confine del plesso scolastico, occupando la città. Non mi pare augurabile. Non è la città a doversi fare scuola, ma l’educazione a doversi articolare in percorsi plurali di apprendimento in cooperazione con gli spazi della città» e io aggiungerei, del corpo tutto (cittadino e rurale) che abitiamo.
Quella stessa scuola dove da decenni insegniamo lo stesso passato (le stesse materie, gli stessi testi, le stesse parole), deve diventare teatro di nuove sperimentazioni proprio per la relazione con il suo stesso DNA culturale, con il suo patrimonio di cui siamo intrisi. Deve essere palestra di quella trasmissione trasversale a cui la convenzione di Faro ci sollecita.
Come?
Reinventandoci nuovi processi di cura, generando nuove alleanze di “connessioni di cura”, declinati anche e soprattutto da un tema di genere femminile (The Care Collective, 2021), rilavorando su nuovi riti (anche e soprattutto artisticamente/culturalmente – dove artiste/i svolgano sempre più ruoli di tessitura visionaria), andando oltre la conservazione di quelli dichiarati beni Unesco, rivificandoli e/o inventandocene nuovi, «da un reincanto del mondo […] ci si potrebbe aspettare un’energia curativa in grado di contrastare il narcisismo collettivo» (Han, 2021), narcisismo che spesso si nutre proprio di identità costruite su false conservazioni del passato. Per costruire una nuova casa/oikos, «attraverso il rito, nelle sue molteplici forme, […] in cui l’ineffabile possa trovare ospitalità accanto al linguaggio» (Federico Campagna).
Lavorando su nuovi “ecosistemi”, dove peraltro il grande divario che la cultura moderna aveva generato (fra cultura umanistica e scientifica), con profonde ripercussioni anche sulla gestione della memoria, si sta riassorbendo proprio grazie alle nuove riletture del nostro tempo attraverso lenti “biologiche” (si pensi al Chthulucene di Donna Harraway, ai “funghi” di Anna Tsing, alle “metamorfosi” di Emanuele Coccia, ma anche Roberto Esposito, con la sua “biopolitica”).
Chiudiamo, prima di disperderci: il “patrimonio” va quindi decolonizzato del suo carico mascolino tossico (sul termine vedi Carola Carazzone), del suo “potere” sul passato, e da ultimo, del suo potere proprietario.
Questa è la vera grande sfida, per dimostrare che quei processi necessari sopra elencati, possano essere riconoscibili come strumenti del cambiamento: se quei patrimoni si misurano ancora secondo le parole del ‘900 (in particolare la temuta valorizzazione, in cui il meme di Paperon De Paperoni riecheggia – soldi/biglietti che riluccicano) e vengono ancora vissuti da attrattori e non da attivatori, non ne usciremo.
Dobbiamo lavorare profondamente per uscire dai meccanismi modernistici in cui la cultura era rinchiusa, e farne luogo ibrido di crescita: dobbiamo in definitiva capire come misurare (di questo purtroppo abbiamo bisogno) le nuove policies che agiscano sull’impatto sociale. Come andare oltre gli occhi di Paperon de Paperoni? Come misurare lo sguardo di una nuova rilettura, di rinnovati interessi, come cogliere il movimento (l’attraversanza, per usare un neologismo di Roberto Covolo) sempre più fluido in cui l’infosfera ci conduce, fra realtà abitate e realtà virtuali, fra distanze e prossimità?
Questo è il grande laboratorio che ci attende, in questa nuova dimensione ecosistemica (anche di nuova combinazione di reale interdisciplinarietà delle diverse scienze) che ci aiuti a cogliere lo scatto, il passo, la crescita educante collettiva. Con un welfare culturale, che non si rivolga solo all’idea di cura di una società malata, ma che si preoccupi, in positivo, della rigenerazione di una società semplicemente felice, per un nuovo well-being.
Per non essere resilienti – termine che ormai, in mano alla vecchia politica, è diventata una excusatio per lasciare le cose come stanno – rispetto a un patrimonio, ma generativi verso un nuova costruzione di senso.
Perché in fondo quelle parole che il secolo scorso ci ha consegnato, non sono più oggetti da vecchio museo, ma termini in evoluzione sui quali costruire.
E perché mi possa affacciare da questi Sassi e vedere comunità miste, locali e temporanee, spostarsi da qui e andare nei quartieri degli anni ‘50 e viceversa, oppure muoversi verso i paesi delle aree interne. Per abitare il corpo intero, compreso delle sue ferite, che ci è dato di vivere, non conservare. Per togliere la parola “padre” da patrimonio, e consegnarla a una cura generatrice femminile.
Bibliografia
Anderson B., Comunità immaginate: Origini e fortuna dei nazionalismi, Manifestolibri, Milano 1983.
Ginzburg C., Microstoria: due o tre cose che so di lei, «Quaderni storici», 1994, 86, pp. 511-39
Grechi G., Decolonizzare il museo: Mostrazioni, pratiche artistiche, sguardi incarnati, Mimesis, Milano 2021.
Byung-Chul Han, La scomparsa dei riti. Una topologia del presente, Edizioni Nottetempo, Milano 2021.
The Care Collective, Manifesto della cura, Edizioni Alegre, Roma 2021.
Emmanuele Curti, (ex)archeologo e manager culturale, dopo la formazione a Perugia, è approdato a Londra, dove ha insegnato agli University and Birkbeck College, dal 1992 al 2003, e successivamente all’Università della Basilicata fino al 2015. Si è occupato per anni di processi di acculturazione nell’antichità fra mondo greco, romano e indigeno. Lasciata l’università si occupa ora di progetti sul ruolo della cultura come strumento di welfare, (imprese creative e culturali, beni culturali, aree interne, turismo di comunità, ecc.). É stato consulente di Matera 2019, nonché socio fondatore di Lo Stato dei Luoghi. Scrive per varie testate, tra le quali: Vita, CheFare, AgCult.