Introduzione
Questo contributo vuole restituire parte delle riflessioni e delle considerazioni maturate dagli autori dopo poco più di un anno di lavoro condiviso intorno alla storia del Museo di Antropologia ed Etnografia dell’Università degli Studi di Torino (MAET) e alle sue collezioni. Lavoro che si è nutrito di esperienze di ricerca (passate e presenti) diverse e anche di un approccio largamente multidisciplinare in cui si sono incontrate, virtualmente, l’antropologia fisica e quella culturale. Come spesso accade per le scienze sociali, ma anche per quelle naturali, i primi dati interessanti si sono rivelati essere le impressioni personali riguardo al contesto di lavoro.
Una narrazione autobiografica
Musso, De Vecchi, Dottor Franco sono solo alcuni dei nomi che abbiamo ritrovato negli inventari del MAET che risalgono agli anni Cinquanta. Grazie ad alcune iniziali ricerche è stato possibile scoprire che si tratta di donatori di oggetti, prevalentemente etnografici, già menzionati dal fondatore Giovanni Marro [1] nella sua prima guida alle collezioni, datata 1940 (Marro, 1940a). Sull’incontro fra il museo e i suddetti nomi, avvenuto attraverso le donazioni, si sa però poco o nulla: appartengono a una parte della storia dell’istituzione che, nel secondo dopoguerra, si è cercato di dimenticare.
Il patrimonio museale si presenta molto eterogeneo ed è frutto di operazioni di raccolta e approcci epistemologici alla diversità umana (Rabino Massa, Boano, 2003) la cui memoria affonda le radici nel recente passato della città di Torino e del suo Ateneo e che stenta oggi a emergere. I non-detti e i silenzi sembrano caratterizzare la storia del MAET a causa del buio che ha avvolto depositi e collezioni dalla chiusura forzata nel 1984, ma anche a ragione dell’attuale mancanza di dati sull’origine dei diversi corpora. È oramai chiaro che le diverse pubblicazioni che riguardano il primo direttore del Museo, dalla sua morte (avvenuta nel 1952) in avanti, abbiano taciuto qualcosa sulla sua vicenda personale, accademica e politica. Di Marro, come molti uomini e molte donne del suo tempo che hanno fatto la storia dell’antropologia fisica e culturale a Torino (e in Italia), spesso si evita di dire proprio tutto e, ancora di più, si esita nel dichiararne le chiare responsabilità morali. A essere oggetto di una sorta di oblio che non nega il passato, ma tende piuttosto a decontestualizzare il patrimonio museale dalle vicende che lo hanno creato e a scindere dall’esperienza scientifica le scelte personali, è il periodo che va dalla fondazione del Museo (1926) fino ai primi anni subito dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale (1949).
Il silenzio, che ha avvolto i depositi fino a pochi mesi fa, ha custodito quindi storie che attendono di essere narrate e memorie che interrogano e che si intrecciano alla vita quotidiana e al lavoro di ricerca di coloro che nel museo hanno lavorato e lavorano oggi: nel nostro caso, i diversi background scientifici e formativi, così come l’esperienza personale con questa realtà, sono confluiti in riflessioni comuni e complementari, qui di seguito riportate.
Nell’esperienza di Gianluigi Mangiapane è vivo il ricordo degli anni di dottorato in cui si era soliti offrire, come volontari, visite guidate al pubblico durante le mostre proposte dall’allora direttrice Emma Rabino Massa, docente di antropologia fisica presso l’Università di Torino, per far uscire le collezioni museali dal «buio» (Rabino Massa, 1999). Questi eventi venivano organizzati in una delle vecchie sale espositive del museo presso l’ex-Ospedale San Giovanni Vecchio e si sono susseguiti dal 1996 con la mostra “Luci su 6000 anni Uomo” fino al 2012 con “L’arte della follia nelle collezioni del Museo di Antropologia”. In una delle prime guide, un visitatore fece notare con tono provocatorio che Marro era stato epurato alla caduta della dittatura fascista. Non era la prima volta che emergeva questo “dettaglio”, ma non era usuale sentirne parlare fuori dal contesto accademico e senza le cautele con cui si pronunciava la parola “epurazione”.
Qualche anno più tardi, Gianluigi ebbe modo di approfondire la biografia e alcuni aspetti problematici di Marro grazie a una borsa di studio post-dottorato erogata dalla Fondazione Filippo Burzio per ricostruire la genesi del museo, così fortemente legata al suo fondatore. Emersero aspetti controversi e in gran parte ignorati, come la convinta adesione e il sostegno attivo di Marro alle Leggi Razziali del 1938, il suo ampio appoggio al Partito Nazionale Fascista documentato dalle sue pubblicazioni del periodo 1939-1941, la conseguente epurazione del 1946 e il suo reintegro, avvenuto nel 1949, a cui seguì il pensionamento nello stesso anno. Molto probabilmente queste vicende sono state la causa del “silenzio” calato su gran parte della documentazione che riguarda il museo e coloro che arricchirono le sue collezioni. Molti documenti oggi risultano dispersi o mancanti. Infatti, l’archivio del MAET, che copre il periodo 1901-1986, non supera i 6 metri lineari ed è costituito da poche foto sui primi allestimenti e, in generale, da una scarsa registrazione degli avvenimenti. È chiaro, quindi, che ricostruire questo passato è tuttora molto complicato, un giallo in cui si hanno solo pochi indizi utili per risolvere il caso.
Questo “silenzio”, poi, è diventato sempre più assordante quando sono stati avviati studi più approfonditi sulle collezioni, in particolare quelle etnografiche, in vista del futuro progetto allestitivo, che si sta concretizzando dopo la nomina di Cecilia Pennacini, docente di antropologia culturale presso l’Ateneo torinese, a direttrice del museo (2017) e con il conseguente trasferimento, cominciato nel 2017, presso nuove sale e nuovi depositi all’interno del Palazzo degli Istituti Anatomici [2].
L’esperienza di Erika Grasso al MAET è coincisa con questo momento ed è partita con un lungo lavoro di riordino delle raccolte etnografiche all’epoca conservate nei depositi chiusi del San Giovanni Vecchio. I nuovi elenchi di oggetti, stilati confrontando gli inventari precedenti e i contenuti degli armadi di deposito, sono stati il primo passo per conoscere il museo. Se è vero che le «cose parlano di noi» (Miller, 2014), le collezioni, da quando sono state interrogate, hanno dato il via alla narrazione di storie inedite e, come le scatole del trasloco che si chiudevano e riaprivano tra una sede e l’altra, le domande poste dall’antropologa culturale, nuova arrivata, hanno aperto lunghe parentesi in cui il racconto si è spesso colorato delle nuance del non-detto. In particolare, dagli archivi e dalle memorie emerge l’attitudine a glissare sull’analisi critica di un passato problematico, comune a molte delle istituzioni museali universitarie coeve al MAET. Ed è proprio lo sguardo critico e l’abitudine a osservare tra le pieghe delle pratiche quotidiane e dei significati dati agli oggetti dalle soggettività coinvolte, il contributo che l’approccio antropologico e il metodo etnografico possono dare al processo di decostruzione del contesto culturale in cui il museo è nato e attraverso cui è stato trattato il suo patrimonio. Per questo motivo, pare essenziale ripercorrere le tracce di Giovanni Marro e di coloro citati negli esigui documenti d’archivio a disposizione, nel tentativo di riportare alla superficie memorie che interrogano il presente (Benjamin, 1997) rispetto allo sguardo sull’alterità e sulla società.
A partire dagli ultimi mesi, l’archivio, le collezioni etnografiche e i fondi fotografici sono oggetto di studi mirati che intendono raccogliere risposte e porre nuovi interrogativi per comprendere quale strada intraprendere per il futuro. In attesa che l’analisi critica e la ricostruzione «along the archival grain» (Stoler, 2010) restituisca nuove prove e nuovi appigli, le “memorie” di Giovanni Marro giocano un ruolo essenziale per giungere a una comprensione il più completa possibile sul ruolo passato e presente del museo.
La «Sala della Razza» nella Rassegna «Torino e l’autarchia»: il fondatore del museo e il PNF
Il sostegno di Giovanni Marro al Fascismo e il tentativo di avvalorare la sua ideologia sono evidenti in alcune sue pubblicazioni [3] (Marro, 1939a; Marro, 1940b; Marro, 1941a; Marro, 1941b), in articoli di giornali pubblicati sulle testate dell’epoca, quali per esempio “La razza italiana e il suo ambiente naturale” ne La Stampa del 22 febbraio 1940 e nella partecipazione a eventi pubblici realizzati dalle gerarchie fasciste (seminari organizzati dall’Istituto di Cultura Fascista, esposizioni, ecc.). Nonostante le poche immagini dei primi percorsi espositivi, uno datato 1926 e uno 1937, non è difficile immaginare quale fosse l’intento scientifico e politico di Marro nel raccogliere – in coerenza con le teorie razziste del tempo – reperti antropologici (scheletri e mummie umani), testimonianze archeologiche e oggetti etnografici, che andarono a far parte del nucleo fondante del MAET, nato presso gli ammezzati di Palazzo Carignano (Marro, 1940a). In una delle poche immagini di questa prima esposizione si può, per esempio, notare in bella vista in una sala allestita l’immagine del Duce appesa alle pareti; inoltre, Marro era solito accompagnare le sue pubblicazioni con una citazione di Mussolini e le parole «non adagiarsi mai sul fatto compiuto», tratte dal Discorso di Brescia del 1° novembre 1922, si trovano anche sulla copertina della già citata guida al museo del 1940.
Le convinzioni di Marro e il suo coinvolgimento risultano ancora più palesi nel 1938, quando viene inviato a curare la sezione dal significativo titolo “Sala della Razza” o “Sala della Stirpe” durante la Rassegna “Torino e l’autarchia”[4] (Federazione dei Fasci di combattimento – sez. Torino, 1939) allestita presso la Promotrice delle Belle Arti a Torino e inaugurata il 23 ottobre 1938 in pieno fermento per le emanazioni delle Leggi Razziali. È Marro stesso a descrivere e a immortalare il percorso espositivo che vide parte delle collezioni museali impiegate per illustrare l’evoluzione spirituale della “razza italica” in un percorso distinto in dieci periodi storici (Marro, 1939b): nella parte in cui si trattava la Preistoria della penisola italiana vennero proposti i calchi in gesso di attestazioni di arte rupestre provenienti da Monte Bego e dalla Valcamonica realizzati dallo scienziato durante i suoi anni di ricerca su queste attestazioni archeologiche fra il 1929 e il 1938.
È sempre più manifesto che il suo legame con il Partito Nazionale Fascista e il suo sostegno alle Leggi Razziali non fu solo circostanziale e palesato in quegli anni in un’ottica meramente utilitaristica[5], si rintracciano infatti segni delle sue ferme convinzioni in alcuni suoi scritti precedenti, come ne “Il Giuda impiccato del Canavesio in Nostra Signora del Fontano” pubblicato già nel 1925 (Marro, 1925). Qui Marro conduce un’analisi naturalistica di un affresco, realizzato nel 1492 dal pittore Giovanni Canavesio, che raffigura Giuda Iscariota impiccato e che si trova presso il Santuario Madonna della Sorgente a La Brigue in Francia. L’obiettivo di questo testo era quello di mettere in relazione l’aspetto della “razza ebraica”, che nell’opera appare grottesco e raccapricciante, con le sue presunte doti morali mancanti.
Nel 1946 Marro venne epurato ma vinse la causa di reintegro nel 1949 come molti docenti universitari torinesi, fatta eccezione per il rettore Azzo Azzi. Non ritornò a coprire il ruolo di docente perché andò subito dopo in pensione. Fino all’anno della sua morte (1952), Marro si dedicò quasi esclusivamente alle ricerche di Antropologia morfologica condotte sui resti umani egizi (scheletri e mummie) che lui stesso aveva contribuito a portare a Torino fra il 1913 e il 1939 partecipando agli scavi della Missione Archeologica Italiana in Egitto (Boano et al., 2017). L’insegnamento di Antropologia fu quindi ceduto alla sua assistente Savina Fumagalli[6], che ricevette in eredità le collezioni del museo e che si occupò del loro inventario e del loro riordino, visto che durante il periodo bellico erano state messe in salvo fuori Torino a Fossano, in provincia di Cuneo. È di questi anni il primo tentativo di rimozione: Fumagalli, infatti, negò l’avvio di una riflessione sul contesto storico in cui aveva preso forma il patrimonio museale.
Dopo Marro: dalla rimozione verso il futuro del museo
Il MAET non è mai stato un museo esplicitamente coloniale, perché principalmente frutto di donazioni da parte di colleghi, viaggiatori e collezionisti, ma le modalità di raccolta degli oggetti etnografici (africani e americani in primis) sono state quelle tipiche della prima metà del Novecento. Anche dopo la morte di Savina Fumagalli, avvenuta nel 1961, l’Istituzione non portò avanti nessun tipo di ragionamento critico sugli anni della direzione di Marro, preferendo, per una seconda volta, il non-detto e il silenzio.
Con la nuova direzione di Brunetto Chiarelli, docente di Antropologia a Torino, cominciata nel 1962, l’allestimento venne modificato per realizzare un percorso sulla Storia Naturale dell’Uomo (Amici del Museo di Torino, 1970): le collezioni etnografiche vennero confinate in un’unica sala, pochi reperti antropologici, prevalentemente crani da scavi archeologici, vennero esposti a fianco di nuovi calchi di Ominidi in due sale per illustrare l’origine e l’evoluzione umana, mentre la prima sala, quella che accoglieva i visitatori, era costituita da pannelli informativi. La risistemazione appariva già all’epoca un po’ datata, con un’impostazione fortemente didattica e molto conservativa e mancavano riferimenti alla storia dei materiali e alla loro problematicità. Sempre in questi anni, alcuni documenti che riguardavano le ricerche di Marro vennero donati all’Accademia delle Scienze di Torino (1965) e la Biblioteca storica prese nuove connotazioni, sempre più orientate alla Biologia umana.
Nonostante in Europa i museologi fossero coinvolti, già a partire dagli anni Settanta, in un’importante discussione avviata da André Desvallées [7] e dal Mouvement International pour une Nouvelle Muséologie (MINOM, 1984) sulla riforma del ruolo dei Musei, il MAET rimase invariato fino a quando fu costretto a chiudere a causa di leggi sulla sicurezza sempre più rigorose (1984). Oltre al silenzio, anche il «buio» (Rabino Massa, 1999) avvolse il museo, visto che divenne inaccessibile al pubblico generico, messo a disposizione solo di qualche ricercatore. Per molto tempo, il MAET, ridotto a un grande deposito, non ha più potuto parlare o prendere parte in maniera significativa a dibattiti contemporanei come la decolonizzazione delle collezioni, il problema della restituzione degli oggetti o l’esposizione dei resti umani. Allo stesso modo, sono stati messi a tacere anche quei soggetti che potenzialmente potevano essere coinvolti dai patrimoni e, quasi totalmente dimenticato e abbandonato, il museo ha perduto gran parte della documentazione in grado di raccontare del suo sviluppo e della sua storia.
Negli anni Novanta e nei primi Duemila, la Direzione decise di riaprire con i già citati eventi espositivi e, con l’aiuto del Centro Piemontese di Studi Africani (CSA), si avviarono le prime campagne di catalogazione (2000-2004) delle collezioni africanistiche del Museo. Tra il 2008 e il 2014 si succedettero altri tentativi per uscire dallo status quo e grazie al già citato sostegno della Fondazione Burzio (2008-2010) venne rimesso insieme l’Archivio storico, costituito da documenti, estratti di pubblicazioni, album fotografici, taccuini, lastre fotografiche in vetro, ecc., salvati dalla volontà di “rimozione”. Con il CSA venne anche realizzato il progetto “Lingua contro Lingua. Una mostra collaborativa” (2008-2009), che coinvolse rappresentanti delle comunità della diaspora e migranti di prima generazione in un’ottica di «museums as contact zones» (Clifford, 1997) e pertanto aperto al dialogo e a un nuovo ruolo sociale. Durante questa iniziativa gli oggetti etnografici furono riletti in un’ottica di riappropriazione del patrimonio e, per la prima volta, il linguaggio istituzionale poté incontrare – sia dentro che fuori dalle vetrine grazie a percorsi guidati – il linguaggio autobiografico ed emotivo di mediatori e mediatrici culturali coinvolti nel progetto (Pecci, Mangiapane, 2010). Grazie a questa mostra e ad altri progetti analoghi il processo di riflessione sulle criticità del museo e di decolonizzazione delle collezioni (Pennacini, 2000) è stato attivato, seppure in maniera tardiva e in tempi recenti, e si sta consolidando in vista del prossimo allestimento permanente.
Per quanto abbiamo potuto appurare, le storie del MAET si nutrono di linguaggi diversi che vanno dall’entusiasmo “scientifico” per l’Egitto nella Torino di inizio Novecento all’interesse per l’Africa del colonialismo liberale italiano di fine Ottocento, fino ad arrivare agli argomenti del regime fascista riguardo alla comunità nazionale e la purezza della razza italiana. In sintesi, le modalità e le ragioni dell’acquisizione della cultura materiale vanno inserite in una comprensione più ampia sui rapporti tra l’Occidente e l’Oriente (Said, 2013) e che rivelino, quindi, lo sguardo di tipo coloniale verso l’altro e l’alterità. La storia delle collezioni etnografiche extraeuropee custodite dal MAET pare un buon punto di partenza per una riflessione profonda sui motivi e sulle modalità con cui ri-aprire un museo etnografico nella Torino del 2019.
Note:
[1] Giovanni Marro (1875-1952), medico psichiatra e antropologo, fondò presso l’Università degli Studi di Torino l’Istituto e il Museo di Antropologia ed Etnografia nel 1926, qualche anno dopo aver ricevuto l’incarico di docente libero dell’Antropologia per le Scienze Naturali (1923).
[2] Il Palazzo degli Istituti Anatomici di Torino ospita il Museo di Anatomia umana “Luigi Rolando” e il Museo di Antropologia criminale “Cesare Lombroso”, anch’essi di proprietà dell’Università degli Studi di Torino.
[3] La maggior parte dei lavori di Giovanni Marro sul tema della “razza” sono stati pubblicati tra il 1939 e il 1941; in bibliografia sono stati citati quattro articoli a titolo esemplificativo.
[4] Per maggiori informazioni sulla Rassegna “Torino e l’autarchia” si veda anche: Giornale Luce B1407 del 09/11/1938:
[5] Giovanni Marro fu nominato Senatore del Regno nel 1939 e divenne Professore ordinario nel 1940.
[6] Savina Fumagalli (1904-1961), antropologa e incaricata alla docenza di Antropologia per le Scienze Naturali dal 1948.
[7] André Desvallées (Gouville-sur-Mer, Francia – 1931), Conservateur général honoraire du Patrimoine in Francia.
Bibliografia
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Boano R., Campanella E., Mangiapane G., Rabino Massa E., 2017. “Giovanni Marro, la ricerca antropologica in Egitto”, in: Missione Egitto 1903-1920. L’avventura archeologica M.A.I. raccontata, Panini Ed., Modena: 307-319
Clifford J., 1997. “Museum as Contact Zones”, in: James Cliffors (ed.) Routes. Travel and Translation in the Late Twentieth Century, Harvard University Press, Cambridge MA and London: 188-219
Federazione dei Fasci di combattimento – sez. Torino (a cura di), 1939. Torino e l’autarchia: pubblicazione ufficiale dedicata alla rassegna organizzata dalla Federazione dei Fasci di combattimento di Torino. Torino, ottobre XVI-novembre XVII, Impronta Ed., Torino: 168 pp.
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Marro G., 1939b. La Sala della Razza nella rassegna «Torino e l’autarchia», Tip. Silvestrelli e Cappelletto, Torino: 30 pp.
Marro G., 1940a. L’Istituto e Museo di Antropologia e di Etnografia di Torino dalla sua fondazione nella Regia Università (1926-IV), Tip. Silvestrelli e Cappelletto, Torino: 40 pp.
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Marro G., 1941a. “Giuda ebreo, Giuda negroide”, in: La Difesa della Razza, V(4): 16-20
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Miller D., 2014. Cose che parlano di noi. Un antropologo a casa nostra, Il Mulino Ed., Bologna: 197 pp.
Pecci A.M., Mangiapane G., 2010. “Expographic Storytelling: The Museum of Anthropology and Ethnography of the University of Turin as a Field of Dialogic Representation”, in: The International Journal of The Inclusive Museum, vol. 3(1): 141-153
Pennacini C., 2000. “È possibile decolonizzare i musei etnografici”, in: Memoria, terreni, musei. Contributi di antropologia, archeologia, geografia, Edizioni dell’Orso, Alessandria: 217-237
Rabino Massa E., 1999. “Un museo al buio. Storia del Museo di Antropologia ed Etnografia dell’Università di Torino”, in: Di Valerio F. (a cura di), Contesto e identità. Gli oggetti fuori e dentro i musei, CLUEB, Bologna: 119-123
Rabino Massa E., Boano R., 2003. “Il Museo di Antropologia ed Etnografia”, in: Giacomo Giacobini (a cura di), La memoria della scienza. Musei e collezioni dell’Università di Torino, Alma Universitas Taurinensis – Fondazione CRT, Torino: 165-176
Said E.W., 2013. Orientalismo. L’immagine europea dell’Oriente, Feltrinelli Ed., Milano: 400 pp.
Stoler A.L., 2010. Along the Archival Grain. Epistemic Anxieties and Colonial Common Sense, Princeton University Press, Princeton New Jersey: 336 pp.
Gianluigi Mangiapane. PhD in Antropologia presso l’Université de la Méditerranée di Marsiglia, attualmente è assegnista di ricerca presso il Dipartimento di Filosofia e Scienze dell’Educazione dell’Università di Torino. Lavora da anni per la tutela e la valorizzazione del patrimonio museale dell’Università di Torino e fa parte del comitato scientifico del MAET. Dal 2018 ha la delega rettorale ai tavoli di lavoro organizzati dall’ICCD per la campagna di catalogazione dei musei universitari e per la revisione della scheda AT del SIGEC web. È autore di pubblicazioni in museologia e co-curatore del volume Arte dei margini. Collezioni di Art Brut, creatività relazionale, educazione alla differenza (Franco Angeli ed.).
Erika Grasso. PhD in Antropologia culturale presso l’Università degli Studi di Torino (2017), dal gennaio 2018 è borsista di ricerca presso il Dipartimento di Culture, Politica e Società dell’Università degli Studi di Torino. Ha condotto ricerche nelle regioni settentrionali del Kenya, dove ha indagato i processi di evangelizzazione della popolazione gabra e la costruzione dello spazio urbano della città di Marsabit. A Marsabit ha curato la creazione dell’archivio della missione cattolica e studiato i documenti dell’attività dei missionari italiani nella regione. Da anni lavora come curatrice delle collezioni e come guida nel Museo Civico Antonio Adriano di Magliano Alfieri e ha collaborato alla campagna di catalogazione delle collezioni africane del Museo dei Missionari della Consolata di Torino. Dal 2018 lavora sulle collezioni etnografiche del Museo di Antropologia ed Etnografia (MAET) del Sistema Museale di Ateneo di Torino curandone la conservazione e la catalogazione.