Nel 1965 la posizione operaista irrompe nel dibattito letterario italiano con il volume “Scrittori e Popolo” di Alberto Asor Rosa. I suoi bersagli principali, oltre a noti critici letterari di quegli anni, sono scrittori del calibro di Pier Paolo Pasolini, Italo Calvino, Vasco Pratolini, Cesare Pavese e Elio Vittorini la cui opera dimostrerebbe la conquista dell’egemonia da parte del Partito Comunista sulla produzione letteraria, un’egemonia costruita principalmente attorno all’eredità storica della Resistenza e ad una scelta politico-culturale di matrice populista. La tesi centrale del libro, quella che l’autore sente come pressante esigenza politica del proprio tempo, è una severa critica del concetto gramsciano di nazional-popolare. La letteratura Italiana, dal Risorgimento al secondo dopoguerra, presenterebbe dunque un marcato carattere populista.
Questo aspetto sarebbe individuabile come tendenza già a partire dal Risorgimento, si consoliderebbe in epoca prefascista e fascista per affermarsi pienamente, in seguito alla guerra partigiana e in accordo alle direttive culturali del Partito Comunista, come populismo resistenziale. L’avvento degli anni Sessanta, epoca della stesura del libro, segnerebbe l’inizio di una fase di crisi di questo filone letterario.
Nel 2015, per festeggiare i cinquant’anni di “Scrittori e popolo”, Einaudi ne ha pubblicato una nuova edizione comprensiva del saggio inedito “Scrittori e massa”. Lo citiamo per dovere di cronaca, visto che in verità ci interessa poco seguire questo “ultimo” Asor Rosa, forse troppo frettoloso nel decretare la scomparsa del popolo e troppo incline ad un giudizio morale anziché ad un’indagine politico/culturale di quella aggregazione che egli definisce massa. Con tale termine è da intendersi un divenire indistinto del popolo, di quell’unità che paradossalmente emergeva dai vari regionalismi e localismi. Il popolo, avversato cinquant’anni fa, torna qui come rimpianto di un nemico tutto sommato nobile, quasi un lusso se paragonato agli avversari del presente.
Ma non è alla nostalgia che dobbiamo votarci, allora vale la pena chiedersi, in un momento in cui il dibattito sul populismo torna di stretta attualità: a cosa possono esserci utili le prime edizioni di “Scrittori e popolo”?
In effetti il mondo ha subìto da allora trasformazioni assai radicali, la caduta del blocco sovietico, la globalizzazione, la finaziarizzazione, la crisi, il mutamento degli equilibri geopolitici e così via. Quel libro, inoltre, piantava i piedi tanto a fondo nel suo presente da rimanerci incagliato. In nome della sua puntualità, del suo rigore polemico, esso doveva forzatamente rinunciare alla disinvoltura dell’opera universale e transepocale. Ma se l’inattualità è la cifra della contemporaneità, allora il lavoro del critico romano potrebbe non avere esaurito del tutto la sua spinta. Certo, dobbiamo operare una serie di forzature, non solo quella storica, ma anche quella geografica, cioè il superamento dei confini del dibattito italiano entro cui Asor Rosa si muoveva e quella disciplinare, ovvero la traslazione dall’ambito letterario a quello delle arti visive. Ciononostante, se la parola popolo diventa un significante vuoto, il saggio da cui prendiamo le mosse può fornirci un primo significato, una griglia di interpretazione, un punto di partenza per affrontare alcuni problemi dell’odierno rapporto tra arte e populismo. Inoltre la matrice operaista del libro chiarisce i termini di un dibattito politico tutt’altro che esaurito tra posizioni che potremmo schematicamente definire come Marxismo eretico da una parte e populismo di sinistra dall’altra, ma andiamo con ordine.
Il libro Scrittori e Popolo di Alberto Asor Rosa
Asor Rosa chiarisce immediatamente quando sia legittimo l’uso del termine populismo in letteratura: «quando sia presente nel discorso letterario una valutazione positiva del popolo, sotto il profilo ideologico, oppure storico sociale, oppure etico. Perché ci sia populismo è necessario insomma che il popolo sia rappresentato come un modello» (Asor Rosa, 1969).
Vi è qui una prima indicazione, è populista quella letteratura che rappresenta il popolo, che ne fa il proprio oggetto narrativo. Non è dunque una questione meramente formale, cioè non si dà letteratura populista se, ad esempio, una trama si dipana esclusivamente su uno sfondo borghese. In ogni caso, indifferentemente dall’orientamento politico dell’autore, liberale, progressista, anarchico, comunista o fascista, questo peculiare tipo di discorso letterario, in Italia, si è presentato con delle caratteristiche ricorrenti: 1) L’avversione al cosmopolitismo, la predilezione di un spazio nazionale e la declinazione localista e regionalista. 2) L’adesione a modelli formali fortemente debitori della tradizione e la condanna degli esperimenti avanguardistici 3) L’approssimazione sociologica e pesanti residui di “intellettualismo piccolo-borghese”.
Queste caratteristiche, tra la fine della seconda guerra mondiale e gli anni Sessanta, dipesero in gran parte dalla volontà egemonica dell’apparato del Partito Comunista che applicò (a volte “avvilendola”, secondo Asor Rosa) la lezione gramsciana. Questa vedeva la rivoluzione come un grande “fatto di popolo” che doveva mobilitare, attraverso il sentimento nazionale, ampi settori della popolazione ben oltre quelli proletari. Una cultura nazional-popolare che raccogliesse anche la spinta borghese e progressista era uno strumento fondamentale in questo quadro.
Qui si inserisce il nocciolo della polemica di Asor Rosa, egli sostiene che il dispositivo popolo (imposto come senso comune anche attraverso il discorso letterario) funzioni da ostacolo alla rivoluzione della classe operaia, unico vero soggetto “portatore di politica” nel pensiero di Marx. La posta in gioco è la contesa tra popolo e classe, ovvero tra le strutture di partito e gli intellettuali organici che tentano di plasmare il primo e le organizzazioni operaie e gli intellettuali dissidenti che tentano di organizzare la seconda in vista di una radicale trasformazione sociale verso l’autorganizzazione della produzione e la fine di ogni tentazione nazionalista.
Chiariti i termini della tesi di Asor Rosa, è possibile utilizzare la sua griglia interpretativa per capire se sia rintracciabile, nell’arte degli ultimi decenni, una tensione che possa essere paragonata al populismo letterario influenzato dal gramscianesimo. Difficilmente troveremo casi (innanzitutto a causa delle radicali trasformazioni storiche a cui abbiamo già accennato) che ricalcano esattamente le caratteristiche individuate nel saggio sulla letteratura italiana, ma è vero che esistono ancora esempi che vi si avvicinano.
“Venezuela from Below” (2004), “5 Factories – Worker Control in Venezuela” (2006) e “Comuna Under Construction” (2010) sono tre documentari che Oliver Ressler e Dario Azzelini dedicano alla narrazione della rivoluzione bolivariana del Venezuela chavista. Questi film, prima di tutto, si concentrano su strati subalterni della popolazione e, per dirla con Ernesto Laclau, sulla loro trasformazione da plebs a populus: gli strati popolari, come prevedeva il progetto dell’apparato bolivariano, cessano di rappresentare una sola parte della società e si trasformano in totalità, quella del popolo venezuelano e socialista. Non ci interessa qui esprimere un giudizio politico su quelle esperienze, né vogliamo correre il rischio di una loro semplificazione, Azzelini e Ressler trattano peraltro temi cruciali quali la partecipazione democratica, l’organizzazione politica e la gestione diretta da parte dei lavoratori dei mezzi di produzione. Ci interessa però rilevare alcuni aspetti dei documentari che richiamano effettivamente all’idea di populismo culturale a cui facciamo riferimento.
1) Essi rinunciano ad uno degli aspetti che ha maggiormente caratterizzato l’uso di questo format nelle arti visive, ovvero quello meta-documentaristico: la messa in questione della narrazione documentaristica come oggettiva narrazione dei fatti, come rappresentazione della realtà, come recupero di una memoria stabile e definitiva. Questi prodotti, dal canto loro, fanno l’opposto. Senza scadere nella propaganda, sono apertamente strumenti di affermazione e di diffusione del discorso bolivariano, non certo di una sua decostruzione. Testimoniano un processo storico in presa diretta, non lo analizzano a posteriori e non è possibile utilizzare il prefisso “post” per descrivere l’inclinazione estetica di questi documentari.
2) Questa esigenza si riflette nelle scelte formali che, prediligendo l’intento testimoniale-pedagogico, non azzardano sperimentalismi di sorta in favore della linearità della narrazione.
3) Lo spazio che affrontano è chiaramente quello nazionale, quello interessato da una rivoluzione nazionale.
4) In generale, in questi lavori di Ressler e Azzelini è evidentissimo il nesso tra prodotti culturali e apparato politico bolivariano. Il nesso tra cultura e organismi politici non è certo un’esclusiva dei governi populisti e può darsi tanto in forme positive quanto negative, ma è certamente una prerogativa del programma populista e i documentari in questione illuminano chiaramente questo aspetto.
Non possiamo però accontentarci di questo livello di analisi, l’arte populista si limita davvero a quell’arte che ritrae il populismo? Vale la pena ricordare che Claire Bishop, nella sua arcinota critica delle estetiche relazionali, impiegava come contraltare una categoria, quella di antagonismo, utilizzata proprio da Laclau e Chantal Mouffe come uno dei pilastri della ragione populista. Bishop criticava l’assunto secondo cui le opere ascrivibili al filone relazionale fossero immediatamente politiche in senso emancipatorio grazie alla loro predilezione per l’intersoggettività a scapito della contemplazione ottica e dell’oggettualità (altrove1 ho già affrontato l’inflazionato tema della critica alle estetiche relazionali e non intendo tornarci). Ci interessa però che Bishop, oltre a problematizzare l’indefinitezza strutturale dei lavori relazionali e il loro sostanziale disinteresse nel verificare il proprio rapporto con il contesto sociale, presenti alcuni artisti che dal suo punto di vista metterebbero in atto un modello di relazionalità politicamente più efficace. Per fare ciò si avvale appunto della categoria di antagonismo che Laclau e Mouffe utilizzarono in un testo del 1985 in cui, unendo il discorso sull’egemonia di Gramsci e quello sulla soggettività di Jacques Lacan, intendevano suggerire nuove strade verso modelli sociali radicalmente democratici. L’antagonismo serve ai due studiosi per traslare al livello del politico la teoria lacaniana della soggettività come entità incompleta e decentrata. Perché incompleta? Poiché la presenza dell’altro (antagonista) avrà sempre l’effetto di impedirmi di essere totalmente me stesso, di conseguenza la relazione non è qualcosa che coinvolge totalità costituite, bensì l’impossibilità di tale costituzione. Il corpo politico e sociale funzionerebbe, secondo gli autori, attraverso lo stesso sistema: l’antagonismo e il conflitto non dimostrerebbero la scarsa salute di una democrazia, sarebbero al contrario elementi necessari per evitare l’insorgere di autoritarismi e la sclerotizzazione dello status quo, per istituire il corpo sociale impedendogli al tempo stesso di manifestarsi nella sua piena presenza.
Bishop accusa le pratiche relazionali di espellere l’antagonismo e il conflitto dalle relazioni sociali che si trovano a costruire e organizzare, pensando illusoriamente il sociale come una “immanent togetherness”. Al contrario, prosegue Bishop, artisti come Thomas Hirschorn e Santiago Sierra opererebbero secondo una logica opposta. Soffermiamoci sul secondo. Per la critica statunitense, le celebri azioni dell’artista spagnolo farebbero prepotentemente emergere, in forma antagonista, la presenza dell’altro all’interno del sistema autoreferenziale dell’istituzione artistica, con l’effetto di produrre nello spettatore una sensazione di disagio e di minaccia in grado di attaccare le sue certezze soggettive, di problematizzarne l’identità, di fare affiorare le linee di esclusione sociale che attraversano l’arte senza tentare un’impossibile riconciliazione delle parti in causa.
Ora, il problema con questo tipo di lettura è che Claire Bishop opera un utilizzo parziale del pensiero di Mouffe e Laclau, scegliendo di concentrarsi solo su una delle premesse. L’antagonismo infatti non è lo scopo, bensì una fase di passaggio verso un obbiettivo, quello dello sviluppo della ragione populista, ovvero della costituzione del popolo che per i due studiosi oggi fa tutt’uno con la questione della democrazia. L’antagonismo è il momento della rottura, necessario perchè il fronte popolare (una parte della società), opponendosi alle oligarchie o all’establishment, ricostruisca, sebbene temporaneamente, la totalità apparente del popolo. Vi è dunque una riduzione all’uno (seppure decentrato e temporaneo) e questa riduzione avviene, nelle intenzioni di chi sostiene l’applicazione normativa dell’ontologia laclauiana, per mezzo della riaffermazione dell’autonomia del politico (attraverso lo strumento partito) e del discorso nazionalista (da sviluppare dunque all’interno dello spazio dello stato nazione).
Torniamo a Santiago Sierra, sarebbe ovviamente ridicolo e falso accusarlo di nazionalismo, ma a mio avviso la sua opera presenta effettivamente un differenziale populista (se ci atteniamo alle definizioni di Asor Rosa e di Laclau e Mouffe). Prima di tutto i suoi performer sono sovente ingaggiati negli strati popolari e subalterni. Figure del popolo come poveri, emarginati, prostitute, tossicodipendenti, venditori ambulanti richiamano a un immaginario pasoliniano. Certo, fortunatamente Sierra conserva di Pasolini più la crudezza delle “120 giornate di Sodoma” che non l’esibizione del canone edificatorio di “Una vita violenta”. La messa in scena di un popolo divenuto sottoproletariato globale, che vende all’artista la propria forza lavoro (solitamente al costo del salario minimo locale), sfocia in una visione quasi mistica, nutrita di violenta corporeità, di crudeltà ascetica, d’incomprensibile sacrificio. La sublimazione di tali caratteri attraverso una documentazione delle azioni per mezzo soprattutto di fotografie in bianco e nero, strizzando l’occhio alle pratiche concettuali degli anni Settanta, non cancella, anzi esalta questi aspetti dell’opera di Sierra. Nel popolo è la redenzione, in questa vittima abbrutita nel rapporto di capitale la capacità di cooperazione è alienata, non c’è impulso alla ribellione e all’organizzazione, ma la risposta è proprio lì, nella sofferenza, nella massima espiazione. Di tale sofferenza l’arte si fa liturgia. Anche Sierra, come il Pasolini di Asor Rosa, è interprete della lunga crisi del populismo, in lui il popolo si presenta come modello in crisi, cionondimeno mantiene il centro della scena.
Concentriamoci ora su un aspetto che riguarda la ricezione di Claire Bishop del lavoro di Sierra. L’epifania di questo popolo, costretto all’interno del white cube ad azioni insensate e umilianti che mimano il rapporto di capitale, viene vissuta come momento che scuote la soggettività dello spettatore medio dell’arte contemporanea, provocando una frattura che l’artista non prova a ricomporre artificialmente (come farebbero invece le estetiche relazionali). Il limite è che questo display di sofferenza, questa irruzione dell’altro, pur inducendo lo spettatore a un esercizio di posizionamento, non lo spinge (come fanno invece la prassi queer e femministe) a mettersi in discussione per tentare di modificare i rapporti sociali vigenti. Certo, qui perlomeno non c’è nessun intento edificatorio tipico delle forme culturali populiste, ma si ritorna allo stesso vicolo cieco delle estetiche relazionali. Non si vendono le microtopie di Nicolas Bourriaud, ma l’insistenza sulla natura decentrata della soggettività, riaffermata attraverso l’arte, costringe comunque quest’ultima ad abdicare a qualsiasi ruolo nei processi di trasformazione del reale. Infine il focus della Bishop sul momento dell’antagonismo come momento dell’apertura della soggettività (aspetto diverso dall’apertura dell’opera che invece è aspramente criticata), comporta una lettura parziale (per quanto legittima) del pensiero politico di Laclau e Mouffe in cui, ripetiamo, si impiega questa categoria come fase politico-sociale di passaggio verso la creazione dell’unità fittizia del popolo.
Chiaramente questi due esempi non possono in alcun modo esaurire la definizione di arte populista (nemmeno nel solo campo progressista che abbiamo scelto di prendere in considerazione). Eppure, confrontandoli con le pratiche relazionali, all’orizzonte vediamo delinearsi una polarità. Proviamo a illustrarla citando testualmente un passaggio di Laclau: «Per ottenere il “popolo” del populismo abbiamo bisogno di qualcosa di più: abbiamo bisogno di una plebs che reclami di essere l’unico populus leggittimo – abbiamo bisogno di una parzialità che pretenda di fungere da totalità della comunità. […]. Nel caso di un discorso istituzionalista, abbiamo visto che il principio di differenzialità reclama di essere l’unico equivalente legittimo: tutte le differenze sono considerate ugualmente valide all’interno di una totalità più ampia. Nel caso del populismo invece, questa simmetria è rotta: c’è una parte che si identifica col tutto» (Laclau, 2008).
Ad un livello strutturale, cioè non letterale, questa differenziazione potrebbe descrivere con efficacia la divaricazione estetica tra pratiche relazionali (che corrisponderebbero al polo istituzionalista) e pratiche non relazionali (che corrisponderebbero in questo caso al polo populista). Le prime si rifanno alla retorica dell’open endedness, dell’eteronomia rispetto alla dimensione sociale, della partecipazione come elemento costitutivo dell’opera, della microtopia. Accettano, esattamente come fa il discorso istituzionalista, la differenzialità quale unico equivalente legittimo. Relazione è condivisione, accoglienza, ascolto, inclusione. Bishop sostiene che il limite delle estetiche relazionali sia il fatto che inneschino rapporti tra soggettività totalmente centrate. Certamente questa posizione, che utilizza Lacan come punto di partenza, è sensata. D’altro canto il problema può essere rovesciato, le soggettività pienamente costituite, accomodate al tavolo dell’arte relazionale, si fondano a tal punto sul principio di differenzialità da non scorgere più alcuna “totalità più ampia”. Si tratta quindi di mettere in luce il modello sociale a cui queste pratiche alludono e non solo il modello di soggettività. Una società dove si sceglie di non vedere la totalità sarà dunque caratterizzata da un’assenza strutturale di conflitto, ovvero dall’accettazione dei rapporti sociali vigenti le cui relazioni di potere (vuoi espletate come governo, vuoi espletate come dominio), sono illusoriamente interrotte nello spazio protetto dell’opera. Se le estetiche relazionali si ponessero seriamente l’urgenza della trasformazione del reale, allora ci direbbero che per fare ciò sarebbe necessario vivere nell’opera piuttosto che “sciogliere” l’opera nella vita.
Il secondo polo ci impone maggiore cautela e ribadiamo che stiamo in questo caso ragionando a un livello strutturale. Non è certo possibile affermare che è populista qualsiasi forma d’arte che non si riconosca nelle teorie delle estetiche relazionali. È pur vero che la comune idea di opera potrebbe essere letta come sineddoche, come parzialità che assurge al rango di totalità: comunemente pensiamo all’opera come al solo manufatto, ma è chiaro che stiamo designando il tutto chiamando in causa una parte sola, dacché la ricezione dello spettatore non è certo un elemento accessorio.
Da un punto di vista letterale abbiamo invece prodotto due esempi di opera populista. Non ci saremmo in ogni caso allineati alla Bishop e al suo plauso nei confronti dell’opera di Sierra, poiché se essa rinuncia a ricomporre il conflitto, altrettanto rinuncia ad approfondirlo. Questo è il primo limite. La seconda ragione è che se Bishop si compiace dell’effetto decentrante sulla soggettivtà, lo fa esattamente nella misura in cui compiace della centratura dell’opera, della riconoscibilità dei suoi confini, della sua leggibilità strutturale, in pratica della sua rassicurante autonomia. Abbiamo aggiunto che l’antagonismo sociale in Laclau non ricalca alla lettera quello lacaniano, poiché questo struttura la soggettività come definitiva incompiutezza, quello, dal canto suo, costituisce una fase nella formazione di quella totalità detta popolo.
In apertura, inoltre, abbiamo citato i documentari di Ressler e Azzelini, documenti tanto preziosi per comprendere aspetti poco narrati della rivoluzione bolivariana, quanto problematici dal punto di vista formale e dal punto di vista della formazione discorsiva di cui si trovano a fare parte. Quando l’arte è embedded nel populismo, il rischio è che il prezzo da pagare alla sua affermatività (di per sé una scelta coraggiosa e anticonvenzionale) sia alto se si ignori ciò che non è più possibile ignorare; cioè che il documentario, nelle mani degli artisti e in particolare di quelli attivi a cavallo del crollo dell’ex blocco socialista, è diventato uno strumento utile a problematizzare la memoria dei popoli, piuttosto che a celebrarne il processo di rinascita (sebbene nel nome di ideali progressisti) sotto la logica del sovranismo e del nazionalismo. Voglio essere chiaro su questo punto: non conoscendo a fondo la materia non è mia intenzione liquidare superficialmente le esperienze (tra l’altro assai diverse tra loro) che hanno interessato lo sviluppo latino americano del Socialismo del XXI secolo, ma sono tra coloro i quali, oggi, guardano con preoccupazione alle ipotesi che opporrebbero, all’avanzata dei populismi reazionari, una controffensiva di nuovi populismi di sinistra con il loro possibile corredo di nazionalismo, sovranismo, identitarismo, ritorno a strumenti organizzativi del passato e autonomia del politico. Del resto è anche inutile semplificare i termini del dibattito riducendoli ad opposizioni binarie: orizzontalità o verticalità, mondializzazione o nazione, moltitudine o popolo. Una risposta all’altezza dei tempi difficili che stiamo attraversando e dei differenti contesti sarà da cercare nell’articolazione “laica” di questi elementi.
Istituzionalismo da una parte e populismo dall’altra. Dove possiamo identificare, in arte, pratiche che rompano questa dicotomia? Pratiche in grado di intendere l’intersoggettività come terreno di una necessaria conflittualità e al tempo stesso di costruzione di nuovo legame sociale? L’urgenza è quella di individuare una serie di sostanziali differenze.
1) Differenza rispetto a quella idea del sociale come immanent togetherness delle estetiche relazionali che si possono anche interpretare come un dispositivo artistico di natura governamentale, al servizio della cattura neoliberale.
2) Differenza dal più classico rifugio disciplinare dell’autonomia dell’opera d’arte così come emerge in Claire Bishop, dove il carattere concluso dell’opera mette in luce quello non concluso della soggettività, senza però azzardarsi a intervenire a livello del legame sociale.
3) Differenza rispetto all’affermatività populista che si sporge, con il rischio di scivolare, sulle pastoie dell’adulazione del potere, pericolosamente propensa a raccontare la realtà come dovrebbe essere, carattere che Boris Groys riconosce come uno dei principali del realismo socialista.
Al contrario noi siamo alla ricerca di pratiche che tengano insieme aspetti diversi: qui l’affermatività significa la scelta di investire nella costruzione di un legame sociale dalla parte del comune, dunque contro i dettami del neoliberalismo o del populismo reazionario (che peraltro sono tra loro in opposizione solo apparente). L’arte che sceglie tale parte non aderisce ad un’ideologia, continua, semmai, a problematizzare i tratti ideologici laddove ne riscontri, decide di operare materialisticamente perché il comune si dia in termini di diffusione della agency, di libera distribuzione della conoscenza, dei mezzi di produzione, delle economie, come lavoro di scrittura di nuovi algoritmi e di invenzione/reinvenzione delle infrastrutture istituzionali. Oltre la cattura neoliberale, contro l’arruolamento populista.
A fine 2015 la rivista Afterall ha dedicato due articoli ad un fenomeno artistico in rapida diffusione che noi potremmo definire come alterinstitutional turn.
Sven Lütticken e Ekaterina Degot rilevano una crescente tendenza ad identificare la propria pratica artistica con la creazione di paraistituzioni e alteristituzioni, oppure istituzioni del comune, o ancora istituzioni mostro, per utilizzare una terminologia coniata da Geral Raunig. Gli articoli si concentrano su progetti come The Silent University di Ahmet Ögüt, The New World Summit e il meeting della Artist Organisations International di Jonas Staal o The Immigrant Movement International di Tania Brugera.
Vi sono due elementi che emergono dal resoconto della Degot del meeting berlinese della Artist Organisations International, una riunione di venti organizzazioni fondate da artisti, tutte caratterizzate da una agenda politica e sociale progressista. Il primo è il disincanto nei confronti dei possibili risultati dell’operazione. Disincanto che, tra l’atro, apparirebbe giustificato a giudicare dalla scarsa attivazione di questa rete a seguito di quel primo incontro del gennaio 2015. Il secondo è la tensione dell’artista a farsi “direttore”. The Artist As Director è il titolo dell’articolo che segnerebbe provocatoriamente una svolta dopo il tempo dell’artist as curator.
Verrebbe da pensare a un détournement della figura del manager dell’arte, primo perché l’artista si starebbe appropriando di quella funzione (un’interpretazione letterale dell’arte del management), ma soprattutto perché lo starebbe facendo nella direzione della sperimentazione di modelli gestionali non neoliberali.
In questo tipo di esperienze Lütticken sostiene di individuare un aggiornamento della Institutional Critique, dove l’accento viene spostato appunto dalla critica dell’istituzione alla sua invenzione. Questi progetti, pure nelle loro differenze, presentano alcuni tratti comuni:
1) Un intento pedagogico che risponde all’urgenza dell’accesso alla conoscenza, la Silent Univesity è, ad esempio, pensata come una piattaforma di scambio della conoscenza in cui migranti, profughi e richiedenti asilo sono sia studenti che docenti.
2) Il rapporto tra visibilità e invisibilità. Spesso queste alteristituzioni hanno come priorità quella di garantire l’accesso a figure sociali altrimenti escluse da ogni forma di welfare, oppure le cui istanze faticano ad emergere. Parliamo di migranti senza permesso di soggiorno, lavoratori, gruppi attivisti, associazioni femministe in Medio Oriente e così via.
3) L’utilizzo consapevole e problematizzato delle nuove tecnologie della comunicazione e la fine della contraddizione tra approccio umanistico e approccio digitale.
Se questo alterinstitutional turn da una parte supera una certa impasse delle estetiche relazionali, cogliendo lo squilibrio dei rapporti di potere che informano la società e dall’altra si pone il problema di un loro riequilibrio senza aderire ad alcuna ideologia populista, è pur vero che il loro limite è riscontrabile nel fatto che le nuove forme istituzionali sono spesso concepite come opere di un singolo artista, la loro autonomia è sovente limitata, dipende in gran parte dalla capacità del loro “autore” di sostenerle economicamente o di dedicarvisi in forma continuativa. Così configurate non danno vita o non si iscrivono all’interno di processi reali di organizzazione, difficilmente sedimentano oltre alcuni periodi di attivazione.
Come è possibile dunque operare una sedimentazione? Ad essere cruciale è il concatenamento con movimenti, gruppi, reti di economia solidale e soggettività che da anni, in forme conflittuali e al tempo stesso istituenti, occupano spazi, si battono contro la gentrificazione, praticano l’accoglienza dei migranti dal basso, si oppongono al ritorno dei neofascimi e in tutto ciò sperimentano modelli di istituzioni del comune e di mutualismo su diversi terreni, dalla cultura alla sanità, dal diritto alla casa all’accoglienza e così via.
Non casualmente Lütticken accosta alla narrazione di questi progetti artistici quella dell’occupazione, avvenuta nel 2015, del quartier generale dell’Università di Amsterdam, il Maagdenhuis. Gli occupanti protestavano contro ingenti tagli che avevano colpito l’università e contro operazioni di speculazione immobiliare che prevedevano la vendita di parti dell’Ateneo. L’autore dell’articolo racconta come, la sera prima dello sgombero, gli studenti avessero fatto richiesta al Van Abbemuseum di poter utilizzare, come difesa, la Bakunin’s Barricade (2014), un progetto di Ahmet Ögüt esposto a Eindhoven, la ricostruzione di una barricata impreziosita con alcune opere appartenenti alla collezione del museo. Una clausola voluta dall’artista prevedeva che, in caso di richiesta da parte di attivisti, l’opera sarebbe dovuta essere immediatamente prestata. Alla fine, causa sgombero dell’università, il prestito non avvenne mai. Questo aneddoto, in ogni caso, è utile ad introdurre alcuni aspetti fondamentali della questione che stiamo trattando. Non si tratta assolutamente del riconoscimento del valore estetico della protesta, quanto piuttosto la possibilità che l’alterinstitutional turn inneschi una serie di effetti. Quali?
Primo, esso deve produrre un effetto di deterritorializzazione nelle istituzioni artistiche esistenti: i musei possono superare il dibattito tra conservazione e valorizzazione, ancora stretto tra la missione originaria del museo moderno che gli assegnava il ruolo di depositari della narrazione culturale della gloria nazionale e la “cura” neoliberale che li ha trasformati in brand urbani. Oltre questa dicotomia sta la possibilità di trasformare i musei in luoghi di ripensamento critico del racconto nazionalistico e in strutture di appoggio per realtà di movimento e produttori culturali indipendenti. Questa, ad esempio, è la strada aperta in Europa da Manuel Borja-Villel, direttore prima del MACBA di Barcellona, poi del Museo Nacional Centro de Arte Reina Sofia di Madrid. Le Biennali, le grandi mostre itineranti, potrebbero cessare di essere laboratori di precarizzazione del lavoro culturale, grandi generatrici di rendita immobiliare, propulsori di carriere artistiche o strumenti di colonialismo culturale, per diventare invece dispositivi da giocare nella sfida di sottrarre terreno all’uso neoliberale delle città e del loro capitale simbolico collettivo. Questo prova, tra l’altro, quanto i protagonisti dell’alterinstitutional turn possano annoverarsi tra le fila dei direttori e dei manager (come tra quelle degli attivisti di base) e non solo tra quelle degli artisti.
Il secondo effetto, collegato al primo, è quello dell’invenzione diretta di architetture istituzionali che rispondano a un’esigenza di democratizzazione radicale delle strutture che organizzano la vita sociale. Cooperativist Society è il nome di un progetto che è stato presentato, con la promessa di svilupparsi nei prossimi mesi, all’interno del programma pubblico di Documenta 14 ad Atene (a proposito del tentativo di sovvertire il ruolo neocoloniale di alcune grandi mostre). Il gruppo di lavoro, costituito da hacker, artisti e attivisti si prefigge lo scopo di utilizzare il brand e la visibilità del grande evento per dirottarne in parte le economie verso il tessuto dell’economia solidale e cooperativa della capitale Greca, costruendo inoltre un laboratorio (attraverso l’affitto di uno spazio nel quartiere di Exarchia) per l’ingegnerizzazione di nuovi modelli di produzione artistica votati all’orizzontalità e alla condivisione.
Immagine di presentazione del progetto Cooperativist Society
Cortesia dell’artista
Buoni propositi, si dirà e tutto sommato nulla di nuovo rispetto alla trita retorica della sharing economy, ma in realtà siamo su un terreno diverso. È chiaro che esiste il rischio che tali premesse, qualora non dovessero trovare seguito nella realtà, confermerebbero la sensazione (largamente condivisa tra artisti, ricercatori e movimenti greci), del ruolo della “Documenta ateniese” come ulteriore beffa, come dispositivo governamentale di esotizzazione della crisi, dopo il danno catastrofico delle politiche europee di austerità a guida tedesca. Torniamo però al progetto, oltre ai propositi, Cooperativist Society si è dotata di strumenti. L’idea è che il visitatore possa acquistare ai punti d’accesso di Documenta una carta prepagata in cui sia possibile caricare una cripto-currency, ovvero una moneta digitale. In questo caso si tratterebbe di acquistare FairCoin, una valuta disegnata secondo principi di sostenibilità ambientale, di controllo assembleare e democratico, di bassa o nulla propensione alla speculazione e ovviamente di sostegno a quelle attività che si riconoscono nei valori della produzione etica e cooperativa. Una volta acquistate carte e valuta, il visitatore potrà spendere i propri FairCoin all’interno di un circuito cittadino che raggruppa produttori indipendenti, esercizi commerciali etici e solidali, attività nate nell’alveo dell’autorganizzazione sociale. Per i partner del circuito è in ogni caso prevista la possibilità di cash out, cioè, nel caso di una difficoltà nell’utilizzo dei FairCoin è possibile il cambio in Euro.
Quello della Cooperativist Society è solo uno dei possibili esempi di questo filone di lavoro, vi sono progetti come Dyne.org, Robin Hood Coop, Freedom Coop e altri ancora, quasi tutti segnati da una commistione disciplinare che unisce spazi di movimento (in Italia penso all’esempio di Macao, a Milano, originariamente occupato da artisti e lavoratori creativi che hanno scelto di investire molte energie in questa ricerca), artisti, hacker e ricercatori. Certo, queste esperienze non hanno inventato la finanza etica o la cooperazione, ne conservano lo spirito radicalizzandolo e tentando di rinnovarne gli strumenti. La costante è l’invenzione di forme di produzione e di modelli istituzionali orientati verso il comune e non verso l’accumulazione di capitale o il dispiegamento di tecniche di governo neoliberale. Mi pare che tali progetti non corrano il rischio di ricadere nel fideismo tecnologico della network culture di qualche anno fa, al contrario hanno ben presente la capacità del capitale di parassitare l’orizzontalità delle reti (peraltro abitate da singolarità in rapporto di cooperazione, ma anche di competizione). Sanno che l’automazione non è nemica, ma essa deve incorporare la relazione umana per produrre qualcosa oltre l’accumulazione di capitale e l’impoverimento del senso. Vediamo qui, dunque, come la relazione in questione avvenga in un spazio segnato da rapporti di potere e si ponga il problema di costruire nuovo legame sociale in uno spazio di irriducibile molteplicità. Entrambe queste caratteristiche rappresentano altrettanti punti di distanza dall’istituzionalismo delle estetiche relazionali e dalla tensione del populismo verso la riduzione all’uno.
Uno degli aspetti più interessanti di questo tipo di pratiche è individuabile all’incrocio tra istanza democratica radicale e sviluppo tecnologico. Vista l’epoca in cui viviamo, l’istituzione del denaro finanziarizzato è l’oggetto principale dell’attenzione tecnologica di questi operatori (uso appositamente questo termine perchè si tratta di artisti e di non artisti). Lo scopo è quello di intervenire nella sproporzione tra la potenza accumulata dagli algoritmi proprietari (sia che si parli di proprietà pubblica o privata), attivati a scopo di profitto oppure di controllo sociale e la ancora troppo limitata incidenza dell’uso comune, aperto e non proprietario di altri algoritmi. Questo è stato, tra l’altro, il tema di un progetto, AB-STRIKE, che abbiamo ospitato due anni fa a S.a.L.E. Docks (uno spazio autogestito per le arti a Venezia di cui anche io faccio parte), in cui abbiamo tentato di affrontare il tema delle forme di lotta e di organizzazione nell’epoca della finanziarizzazione della società.
Stress, Fear and Anxiety Bundle, 2015. Artworks by artists whose collective debt
totals $732,462.24 and who use the words “stress” “fear” or “anxiety” when discussing how their
economic realities make them feel (left to right, top to bottom: Amy Beth Wright,
Katherine Culbertson, Marc Newsome, Anonymous, Lucas Berd, Claire Webb, Ben Tecumseh De Soto,
Greg Scott, Bereniz Martinez, and Lara Anne). Installation view: Debtfair, Art League Houston,
Houston, TX, November 20, 2015–January 10, 2016
Anche negli Sati Uniti il tema della centralità della finanza e del denaro è uno di quegli argomenti che, dopo l’esplosione di Occupy Wall Street nel 2011, è “emigrato” dalla mobilitazione all’arte. Il collettivo Occupy Museums, nato proprio dalla frequentazione di Zuccotti Park, sta portando avanti DebtFair, un progetto che è già stato presentato in alcune occasioni pubbliche, ma che si sta preparando al banco di prova più impegnativo, quello della prossima Whitney Biennial di New York, in programma a marzo 2017. DebtFair, attraverso un questionario compilabile on line, vuole raccogliere informazioni e fare emergere gli effetti soggettivi che il debito individuale opera sugli artisti statunitensi. Si tratta di fare emergere un mastodontico sommerso che però è strutturale per la sostenibilità del sistema artistico americano, a partire dalla formazione universitaria (per cui gli studenti d’arte contraggono debiti a volte inestinguibili), fino al circuito dei musei e alla possibilità del mercato di indirizzare l’arte in alcune direzioni a scapito di altre quando i soggetti produttori siano in una situazione di ricatto legata al debito.
DebtFair produce un’analisi del debito, delle sue linee razziali e di genere, crea una mappa delle istituzioni che stanno al centro di questa economia del credito. A partire da questa disamina, il progetto raccoglie le opere degli artisti indebitati in cluster. Nella mostra presentata alla Art League School di Houston (2015), per esempio, i muri dello spazio espositivo erano stati incisi e le opere degli artisti indebitati incastonate all’interno dei muri stessi. Il display doveva metaforicamente alludere all’importanza strutturale che il debito ricopre nel sostenere il sistema delle istituzioni artistiche.
Questi esempi di pratiche artistiche ascrivibili all’alterinstitutional turn hanno inoltre a che fare con la dialettica visibile/invisibile. Il debito nascosto deve essere svelato e i suoi effetti di assoggettamento rovesciati, l’astrazione dell’algoritmo e le crypto currencies devono prendere corpo, poiché la posta in palio è l’ontologia del general intellect, terreno di contesa tra capitale e comune.
Gregory Sholette, Decolonize This Place, AMNH (2016)
cortesia dell’artista
Noi guardiamo a questi esempi come a tentativi di organizzazione di quella materia oscura (dark matter, per dirla con una felice metafora astrofisica di Gregory Sholette) che rappresenta quel vasto e variegato intelletto sociale creativo che sostiene con i propri consumi e la propria creatività il piccolo mondo dei professionisti dell’arte. Il concetto di dark matter è dunque quantitativo, di materia oscura ce n’è in gran quantità nel cosmo come nell’arte, ma è al tempo stesso qualitativo, ovvero non caratterizzato da uniformità. Tiene insieme figure differenti: studenti indebitati, aspiranti artisti professionisti, amatori, visitatori di mostre, ma anche quelle esperienze (spesso collettive) a cavallo tra arte e attivismo che hanno scelto consapevolmente l’invisibilità come forma di rifiuto delle “regole del gioco”. Oggi, ecco la tesi di Sholette, grazie alla democratizzazione delle tecnologie, questa dark matter ha conquistato una nuova visibilità. Il punto è di capire come la impiegherà, verso quali direzioni.
Se allarghiamo il campo all’interezza della dimensione sociale non c’è da essere ottimisti, l’avanzata dei neofondamentalismi, delle opzioni politiche reazionarie ai quattro angoli del globo, sembra indicare che la visibilità garantita dallo sviluppo tecnologico vada a vantaggio di un diffuso rancore sotterraneo e aiuti a concretizzarne le pulsioni più retrive. Non è possibile illudersi dunque, ma dobbiamo comprendere l’importanza di tutte le pratiche artistiche che stanno andando (in forme differenti) nella stessa direzione: quella di fare in modo che la nuova visibilità acquisita dalla dark matter metta in luce la possibilità di organizzare la creazione in forme autonome rispetto al modello neoliberale e in opposizione alla cultura identitaria dei nuovi populismi.
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1 Baravalle, M. (2016), Curare e governare. Bourriaud e Obrist: la svolta relazionale della curatela. Opera Viva. Consultabile su: http://operaviva.info/curare-e-governare/.
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Marco Baravalle è curatore e attivista a S.a.L.E.Docks, spazio autogestito per le arti contemporanee a Venezia. E’ assegnista di ricerca presso il M.A.C.Lab (Università Ca’ Foscari di Venezia). Si concentra sull’aspetto sociale e attivista delle pratiche artistiche e curatoriali, con particolare attenzione alla dimensione dell’urbano. La sua ricerca tocca inoltre i temi del lavoro creativo e della valorizzazione neoliberale di cultura e creatività. Ha curato il volume “L’arte della Sovversione” (Manifestolibri).