Assalto Delle Gole Al Cielo

Parlare dall’Isola, parlare nella resistenza
1968…2018: voci e immagini di donne raccontano i femminismi a Sassari, Sardegna
di Giada Bonu

“In queste foto… Ci sono morti e vivi. E la cosa mi da un po’… Non posso dire che mi dà angoscia. Sento uniti i morti e i vivi. Le morte e le vive. Come se esistessero ancora. Come se non… ma non perché il tempo non sia passato. Il tempo è passato per tutte. Io mica sono più così. Ho i capelli bianchi, e lì avevo i capelli ricci e neri. Però sento come se ognuna poi anche se è morta sia ancora dentro queste cose. E chissà che percorso avrà fatto dopo la morte. Non lo so. Ma certo queste cose non se l’è dimenticate. Sono sicura. Fanno parte dell’esistenza di ognuna.”
(A, Sassari, 2018)

E poi forse un’ultima parola la vorrei spendere per la gioia di questo movimento. Io ho imparato la leggerezza attraverso il movimento femminista. Perché per educazione sono sempre stata una molto quadrata, prima il dovere poi il piacere. (…) E invece in quella fase della mia vita ho imparato a vivere le cose diversamente, mettendomi al centro, fregandomene del condizionamento di quello, di quell’altro – la figlia, il babbo, la nonna, la mamma… E devo dire che questa cosa un po’ mi resta anche se la vita poi ti fa pagare prezzi alti (…). Tutte queste cose che mie figlie in me non vedono, perché in me vedono solo la mamma, quella che da sicurezza… e quindi alcuni aspetti della persona, della donna, loro non li conoscono neanche. Però io ce li ho dentro e quindi per me sono un piccolo tesoro che mi porto dentro e che sono contenta di avere.
(B, Sassari, 2018)

 

 

È passato mezzogiorno quando l’aereo atterra all’aeroporto di Alghero. Questo viaggio a ritroso non è solo un viaggio che dal Continente mi riporta all’isola dove sono nata e cresciuta, ma anche un modo di riannodare i fili di una genealogia politica, familiare, geografica.
Un viaggio nel corpo vivo della memoria dove cammino come giovane ricercatrice, attivista femminista, sarda e sassarese, ma anche figlia, nipote, “straniera” dopo anni vissuti altrove. L’esito, le parole a seguire, sono un bilanciamento costante tra il filtro dei miei occhi e le parole delle donne che mi hanno generosamente raccontato un pezzo delle loro vite.

8 marzo 1978, Sassari, sosta in piazza Colonna mariana, Archivio AIED Sassari

L’intento di questo contributo è quello di ricostruire, per tracce e contrappunti, un pezzo delle memorie del movimento femminista sassarese dai suoi primi fermenti ad oggi, attraverso le voci di alcune di coloro che gli hanno dato vita.
La memoria è un dispositivo politico: nominare, per fare in modo che ciò che è accaduto continui ad esistere e a cambiare di senso il mondo. Quando tale dispositivo riguarda i movimenti femministi, chiama ad uno sforzo politico ancora più intenso. Le donne, il soggetto “dimenticato” della storia (Lonzi, 1974), hanno dovuto iniziare a “dirsi” come primo atto di esistenza (Libreria delle donne di Milano, 1987). Questa pratica, riferita alla memoria, implica una volontà genealogica che sottragga le voci, i volti, i corpi, le pratiche, all’oblio del tempo, rendendole una materia viva che ancora interroghi il presente (Brau et al., 1983).

8 marzo 1978, Sassari, Alternativa femminista in piazza, Archivio AIED Sassari.

Tracciare un quadro lineare della storia dei movimenti femministi a Sassari è un’operazione impossibile, se non per snodi critici. Sul finire degli anni ’60, nel quadro di generale politicizzazione che dal globale al locale rimetteva criticamente al centro l’autorità, le istituzioni, la famiglia, un gruppo di donne inizia ad avvertire l’urgenza di ripartire dalla propria esperienza. Nel 1973 nasce così il Collettivo Femminista. Nel tempo tale spinta organizzativa si confronta con una doppia esigenza: interna – il personale e politico – ed esterna – l’incalzare delle vicende storiche, come le battaglie per il divorzio e l’aborto. Nel frattempo anche nell’ambiente studentesco nascono nuovi collettivi, come Alternativa Femminista. A questo ritmo nasce l’esigenza di aprire un consultorio autogestito, nel 1975, poi diventato consultorio AIED, tuttora esistente. Nel tempo il Collettivo stesso si scioglie nel consultorio. Sono gli inizi degli anni ’80 quando un nuovo progetto vede per qualche anno la luce: La Civetta, esperimento di università femminista, dove al lavoro sui testi si affianca il lavoro dei gruppi di autocoscienza.

8 marzo 1978, Sassari corteo delle studentesse, Archivio AIED Sassari.

Questo contributo si compone delle parole di quattro tra le fondatrici o partecipanti dei movimenti femministi sassaresi, raccolte attraverso interviste in profondità con il metodo del photo-elicitation. All’inizio di ogni intervista sono state messe a disposizione 18 foto (di cui la maggior parte riportate nell’articolo) dei movimenti femministi degli anni ’70 a Sassari conservate nell’Archivio dell’AIED o in archivi privati. Attraverso la costruzione di una “mappa” personale delle foto è stato lasciato il tempo ad ognuna di ripercorrere la propria esperienza, individuale e collettiva. Ad emergere sono arcipelaghi di zone intime, tracce storiche, emotività e politica, progetti e fallimenti. Sono, soprattutto, una complessità di voci impossibili da raccogliere sotto un unico comune denominatore.
L’utilizzo delle foto ha permesso di immergersi immediatamente in quegli anni, scontando però anche il carico emotivo: i volti sono infatti gli stessi delle persone intervistate, delle amiche e compagne, di persone che non ci sono più o con cui non si hanno più rapporti. Lavorare con tale materiale visivo implica anche affondare le mani in una materia intima dolorosa, cui a volte ho sentito di essere “spettatrice” impudica.
Il tentativo è quello di riportare per quanto possibile questa complessità, senza forzare in interpretazioni univoche quella che è una coralità di voci. Il modo in cui le voci verranno intrecciate e ricomposte, e quindi anche le eventuali fallacie, sono da attribuire a chi scrive. Per rendere anonimi gli stralci citati le quattro interviste saranno indicate con le lettere A, B, C e D.

8 marzo 1978, Sassari, Elisa Pilia interviene alla manifestazione sindacale per il movimento delle donne, Archivio AIED Sassari.

Arcipelaghi di pratiche

“Il collettivo Femminista? Mah, non lo so neanche io come ci sono finita. Qualcuna mi ha chiamata e io ci sono andata… anzi mi sembrava una cosa così importante che dicevo: ma perché non l’abbiamo fatto prima?” (B, Sassari, 2018)

L’avvicinamento alla politica femminista avviene sul nascere degli anni ’70 in diversi modi per ognuna. Per alcune progressivamente al coinvolgimento nei gruppi extraparlamentari si affianca un interrogativo sul proprio sé, le proprie oppressioni, le proprie differenze. “C’era proprio un bisogno disperato di dire, di parlare, di sapere, di confrontarsi, di imparare, di conoscersi” (B, Sassari, 2018). Più come un’intuizione che come un progetto strutturato, il Collettivo Femminista inizia a riunirsi per la volontà di alcune ed immediatamente si trova travolto dall’incedere della storia.

“Quindi questo Collettivo nasce così, per ispirazione di un paio di noi che studiavano fuori, a Roma. (…) Un po’ per curiosità, diciamo, ma vediamo se ci sono delle persone che avvertano l’esigenza di approfondire delle tematiche che partano da noi stesse… Quindi cominciano queste riunioni nelle case, un po’ da una un po’ dall’altra. Una volta alla settimana, e non c’era riunione che si saltasse. Perché c’era proprio un grandissimo bisogno di parlare di noi stesse (…) c’era il bisogno di confrontarsi su cose particolari, che erano la sessualità, il rapporto con gli uomini, il rapporto con il lavoro…” (B, Sassari, 2018)

8 marzo 1978, Sassari, il corteo delle donne, Archivio AIED Sassari.

Se alcune sono state tra le prime a immaginarlo e fondarlo, altre si avvicinano al Collettivo successivamente, ad esempio su spinta dei gruppi di cui facevano originariamente parte, che interessati ai movimenti femministi mandano “le donne” del gruppo ad assistere a ciò che succede.

“Una serie di persone dei gruppi si sono ritrovate ad incontrarsi con le persone del Collettivo Femminista e quindi a parlare di cosa fare insieme. E la cosa era: andate, vedete riportate. Era un po’ questo. E invece non è andata così. Perché poi molte di noi sono andate e non sono tornate più di tanto. Nel senso che sì abbiamo continuato a frequentare il gruppo politico però io non mi sentivo più rappresentante di nessuno se non di me stessa.” (C, Sassari, 2018)

Le radici profonde di quest’urgenza oltre che nella congiuntura storica affondano nelle strutture sociali e culturali, nell’esperienza familiare, nel ruolo subalterno che “naturalmente” era stato riprodotto per le donne, ma che a un certo punto inizia ad essere svelato nella sua iniquità.

“Forse era dovuto alle prevaricazioni che c’erano in famiglia, al fatto che io ero l’unica figlia femmina, mia madre era la casalinga e l’aiuto domestico malgrado io studiassi era solo ed esclusivamente dovuto da parte mia… Chiaramente lo facevi, (…) però lo sentivi come un’ingiustizia. Quindi le cose cominciavano a scricchiolare… (…) Man mano che crescevi anche culturalmente ti rendevi conto che non avevi più voglia di fare l’ancella.” (D, Sassari, 2018)

8 marzo 1978, Sassari, Collettivi in piazza, Archivio AIED Sassari.

Il lavoro del Collettivo si concentra sulla “scoperta” della propria esperienza di donne, ma fin da subito incontra l’esigenza di aprirsi all’esterno. “E quindi da una parte questo collettivo si era consolidato e faceva parte della vita quotidiana di ciascuna di noi, e dall’altra c’era il riscontro esterno con le donne che cominciavano a prenderlo come punto di riferimento serio. Il discorso non era più solo un discorso proiettato su noi stesse e sul piccolo gruppo ma si apriva ad una quantità di persone che venivano dagli ambienti sociali, culturali più disparati” (B, Sassari, 2018).  Inizia un lungo lavoro casa per casa, specialmente nei quartieri popolari, dove si “mappano” esigenza, problematiche, desideri. E così che “siamo arrivate alla conclusione che il Consultorio era una cosa che serviva alle persone, alle donne” (C, Sassari, 2018).

“Quindi abbiamo preso in affitto un postaccio, in via Carmelo, un vecchio appartamento. Siamo andate a pulirlo, qualcuna l’ha dipinto, insomma l’abbiamo un po’ sistemato. Abbiamo trovato un medico che gratuitamente veniva mi sembra due volte alla settimana. Però era aperto tutti i giorni. (…) Diciamo che la maggior parte di noi ha pensato che il consultorio fosse comunque una cosa “vera”. Nel senso che era una cosa che poteva essere utile alle persone, poteva avvicinarti alle donne.” (C, Sassari, 2018)

L’idea di aprire un consultorio di donne e per le donne si innesta su due considerazioni: da un lato la riflessione sul corpo.

“Pensavamo che facendo un consultorio e partendo dal corpo poi si potesse parlare con le persone che non facevano parte del collettivo ma venivano per il consultorio (…). Dal corpo alla totalità di sé stesse” (A, Sassari, 2018)

E dall’altra quella sull’aborto, spesso in collaborazione con le donne del CISAL, negli anni in cui infuria la campagna per l’approvazione della 194, che avverrà solo nel 1978. Per quanto taciuto, “un tabù”, l’aborto è infatti una costante dell’esperienza delle donne, che fino alla sua legalizzazione hanno dovuto ricorrere a metodi spesso drammatici per farvi fronte.

“Erano anche gli anni degli aborti clandestini. E quindi molte di noi si sono trovate coinvolte a gestire questa faccenda che era pericolosissima, contro la legge. In situazioni di grande precarietà, con esseri umani, donne, per le quali dipendeva la vita, le scelte future. Qualche volta proprio la vita. Ci sono state molte di noi che hanno messo a disposizione le proprie case, in un giorno stabilito, notte fonda. (…) Molte volte siamo riuscite a fare collette e a trovare canali per fare aborti in luoghi come Londra, perché lì l’aborto era già garantito. (…) Poi qualche volta non era proprio possibile fare tutto questo e bisognava risolvere in loco. (…) Comunque quando poi queste donne si alzavano dal tavolo o dal letto era un sospiro di sollievo che non ti puoi neanche immaginare.” (B, Sassari, 2018)

Maggio 1981, Maria e Gianni in officina, Archivio privato.

Il consultorio consente di entrare in contatto con numerose problematiche vissute dalle donne: oltre all’aborto la contraccezione, le violenze domestiche, la scelta di maternità. Il lavoro del gruppo si innesta nello spazio pubblico con dimostrazioni di piazza, il lavoro casa per casa, la partecipazione ai movimenti locali, ma anche nelle trame interne delle vite di ognuna attraverso la lettura di libri e riviste e il ricorso all’autocoscienza.
“Siamo state molto incoscienti e molto fortunate” (B, Sassari, 2018): i piccoli gruppi scavano a fondo nell’interiorità, intrecciano la questione della sessualità e del corpo; i rapporti significativi con compagne, fidanzati/e, genitori, madri; scoperchiano la scelta di maternità – vissuta non senza contraddizioni. “Quest’autocoscienza ha avuto una profonda importanza nella vita di ciascuna. Quindi dico, eravamo pazze perché comunque quando vai a scavare inneschi delle dinamiche che se non sei in grado di controllare, di governare, rischi davvero di fare dei danni molto grossi” (B, Sassari, 2018). È solo con la formazione della Civetta infatti che il gruppo si avvale dell’aiuto di una psicanalista professionale. Fino a quel momento, l’autocoscienza è gestita interamente dalle donne del gruppo.
La connessione tra discorsi e pratiche rende le attività del gruppo un sistema di vasi comunicanti. Non senza contraddizioni: “per me l’AIED aveva mangiato il Collettivo. Non si riusciva più… eravamo inseguite dalle vicende storiche” (A, Sassari, 2018). Il lavoro quotidiano del consultorio cambia intimamente la fisionomia del Collettivo, che stretto tra la gestione pratica di un luogo – sempre più punto di riferimento e quindi fonte di responsabilità – e le scadenze della politica di piazza, perde progressivamente la sua capacità politica di elaborazione. In questo senso, se l’AIED ha coinciso con l’avvicinamento di numerose donne che iniziano a “lavorare” attivamente per le aperture quotidiane, nel tempo determinerà anche l’allontanamento di tante altre.

Arcipelaghi di relazioni

“Penso che quello che mi resta sono tutti questi strumenti (…) di analisi, queste chiavi di lettura, assolutamente estranee al giudizio verso la persona con cui ti stai relazionando. E poi la gioia di essersi comprese, di essersi riappropriate di se stesse, di non essere più quello che fino a quel momento ero stata.” (B, Sassari, 2018)

Uno degli elementi su cui si innesta la differenza della pratica politica femminista è quello dei rapporti tra donne. A differenza dei gruppi extraparlamentari e di movimento, dove “il privato chi se ne frega, non importava a nessuno. Importava solo quello che facevi all’interno del movimento” (C, Sassari, 2018) nel movimento femminista si articola la pratica del partire da sé, esplicitando le proprie esperienze, problematiche, desideri, in un rapporto di mutuo riconoscimento e ascolto. “C’era il fatto che eri te stessa. Che partivi dalle tue problematiche e da quello che eri tu” (C, Sassari, 2018).

“Certo è che credo che ci abbiano segnato, quelle giornate, quel nostro parlare, quel nostro incontrarci, il nostro uscire di casa… (…) e quindi era… una gioia infinita. Non so come dire…  era proprio bellissimo scoprire pezzi di sé stessa in un’altra, ascoltare le emozioni di un’altra o il vissuto di un’altra. Ti aiutava davvero a capire di più com’eri tu o come ti dovevi porgere, come ti dovevi rapportare con le altre, con gli uomini, con l’esterno, con il lavoro… è stata un’esperienza molto profonda.” (B, Sassari, 2018)

Il lavoro di relazione viene portato avanti nei gruppi di autocoscienza ma anche nella quotidianità dell’attività politica. La sorellanza più che una dimensione ontologica – “quando ci tagliamo le gambe ce le tagliamo a prescindere dalla sorellanza. Siamo persone, non è che solo perché siamo donne allora volemose bene” (D, Sassari, 2018) – diventa un esercizio empirico quotidiano.

“Questo tipo di amicizia, di rapporto, prevede un’accettazione dell’altra totale. Che non vuol dire che non vedi i difetti, le cose critiche, quelle che non vanno bene, però è l’accettazione nel suo complesso. (…) Non so se questo ha modificato il mio modo di essere, però di sicuro lo ha ampliato. (…) e questo era il Collettivo, un ampliamento dell’affettività.” (A, Sassari, 2018)

8 marzo 1978, Sassari, Alternativa femminista in piazza, Archivio AIED Sassari.

La costruzione di rapporti – politici ed affettivi – insiste anche su una certa dimensione fisica. Il corpo, rimesso al centro della politica, è un corpo fatto di pelle, pulsioni, affezioni, limiti, relazione. La scoperta di sé è una scoperta dell’altra, che anche nel contatto fisico ricostruisce un altro spazio di relazione e politica.

“Ho imparato in un certo senso col femminismo ad avere più confidenza con le persone, anche fisicamente. Io ricordo che c’era… adesso per esempio non lo farei mai più, forse mi vergognerei… Che allora invece ci si toccava molto, ci si teneva per mano. Anche durante le riunioni, c’era proprio questa cosa del contatto fisico. Che io non avevo… (…) In quel momento mi sembrava normale, mi sembrava piacevole tenere la mano alla mia amica, ad una compagna. (…) La vivevo come una cosa molto bella.” (C, Sassari, 2018)

La pratica dei rapporti tra donne si articola non solo all’interno del gruppo, ma anche nella relazione con le donne incontrate “fuori”, nelle strade, nelle case, nel consultorio: “Il fatto di riuscire ad andare in giro per le case e suonare, parlare, riuscire a dire e spiegare quello che volevi fare. Eri tu che stavi parlando con una donna uguale a te. E certo magari lei aveva tre figli, non aveva il tempo di leggersi un libro, di andare alle manifestazioni. Però era uguale a te” (C, Sassari, 2018). Ancor di più quando la relazione riguarda i casi di aborto, prima dell’approvazione della 194, quando l’accompagnamento della donna non è solo una faccenda da sbrigare ma una vera e propria attività di cura: “le donne erano molto spaventate. E quindi non dovevi solo soltanto offrirgli la tua casa ma offrirgli il tuo aiuto, il tuo tempo. Parlarci.” (C, Sassari, 2018).

8 marzo 1978, Sassari, Alternativa femminista in piazza, Archivio AIED Sassari.

L’intensità di queste relazioni, però, non è fatta solo di accoglienza e riconoscimento, ma anche di conflitto. Gli scontri, proprio perché maturati all’interno di relazioni così profonde, incidono a fondo nelle vite di ognuna. Se è vero che lo scontro è un elemento quotidiano delle relazioni, però a volte si trasforma in una distanza incolmabile, determinando la fine dei rapporti personali o politici stessi.
Il conflitto, e il riconoscimento, hanno anche a che fare con la riscoperta del legame materno. Tale costante riguarda la riemersione della figura della madre come relazione decisiva. “Il femminismo mi ha aiutato tantissimo a capire mia madre” (A, Sassari, 2018). Se a volte la riscoperta implica un riconoscimento, e il rinnovamento di un legame politico oltre che affettivo, per altre è l’ultimo atto di una lacerazione definitiva. Allo stesso tempo, la maternità entra nella riflessione femminista anche come esperienza incarnata, a cui restituire un significato nuovo.

“Eravamo tutte femministe eppure i bambini ce li gestivamo noi. (…) Però serviva molto questo fatto di incontrarsi, di scambiarsi le esperienze, le emozioni. E credo che quella sia stata una cosa molto importante in quel periodo della mia vita. Credo sia qualcosa che dovrebbero vivere tutte le donne che si trovano in quella situazione. Questo relazionarsi e scoprire che i propri problemi sono i problemi di tutte quante.” (D, Sassari, 2018)

Arcipelaghi di memorie

“Quello che c’è che mi colpisce molto di queste foto è che queste ragazze… (…) è che di tutte quelle che conosco, anche adesso, conosco il percorso che hanno fatto fino ad oggi e non è contraddittorio rispetto al femminismo. Nel senso che ognuna si è espressa a modo suo, in modi diversi… (…) È sempre stata una cosa carsica… ognuno prende la sua strada però… la sua strada non prescinde mai.” (A, Sassari, 2018)

La costruzione della memoria è un processo che intreccia le esperienze passate con un presente che continua. “Quando dico segnante, lo dico perché credo fortemente che nessuna di noi sia più quella che era prima” (B, Sassari, 2018). Ciò che rimane dei femminismi a Sassari non è una semplice coscienza storica, ma più una serie di traiettorie biografiche. Se da un lato l’esperienza femminista si è tradotta in un impegno nel sociale, “un impegno etico” (A, Sassari, 2018) – ad esempio nel campo della medicina per le donne, nell’accompagnamento delle persone migranti, o nell’indagine sulla violenza di genere – dall’altro “questa storia fa parte della storia personale, del privato delle persone” (A, Sassari, 2018). I conflitti e le trasformazioni nella sfera intima, nella relazione con il/la partner, la relazione con il proprio corpo, il rapporto con la maternità, sia come rapporto con le proprie madri che come rapporto con le figlie.

“Tutta quest’esperienza mi ha arricchito a non vederle soltanto come figlie mie. Mi incuriosisce vederle come persone. (…) Io sono io e tu sei tu. E in effetti ognuna di noi è un’individualità a sé stante. Con una propria sensibilità, un proprio passato, una propria storia. E questo è uno dei regali che mi ha lasciato il Collettivo Femminista. Quello di non giudicare mai a prima vista quella che è la scelta di una persona, perché a quella scelta ci si arriva tramite un percorso che io non ho nessun diritto di giudicare.” (B, Sassari, 2018)

8 marzo 1976? Sassari, piazza S. Antonio, girotondo, Archivio AIED Sassari.

Un arcipelago frastagliato, quello della memoria, che conserva intatte le tracce di una potenza politica mai conclusa.

“Se penso ma in questo momento, se volessi fare politica, che cosa farei… Se fossi più giovane, se avessi più energie, più entusiasmo, più voglia di fare le cose, qual è la cosa che mi tocca? Che mi commuove? È il femminismo. (…) quando vedo quelle grandi manifestazioni in Spagna, o in Argentina, quella è una cosa che a me ancora mi commuove molto. Una cosa che mi muove dentro moltissimo, molto più di tante altre cose. Forse la cosa che m’importa di più.” (C, Sassari, 2018)

Eppure: “la mia vita… com’è cambiata… per certi versi c’è stata anche molta sofferenza” (D, Sassari, 2018). La nuova consapevolezza e gli anni di attivismo lasciano tracce profonde, anche dolorose, quando l’esperienza personale si è tradotta in una rottura, nella fine di rapporti profondi avuti fino a quel momento, o nel fallimento di tante illusioni e desideri: “scoprire che quelli che erano i miei ideali invece non riuscivo a realizzarli, si scontravano con la realtà” (D, Sassari, 2018). La frustrazione è un sentimento ricorrente che riguarda l’impossibilità di aver determinato fino il fondo il cambiamento desiderato nella propria vita e nel mondo. Una frustrazione che riguarda anche le ineguaglianze persistenti, la capillarità della violenza maschile contro le donne, le asimmetrie sistemiche. “Ti fa davvero rabbrividire. E tutto quello che abbiamo fatto? Che ci siamo dette? Che abbiamo scritto, cantato, urlato…” (B, Sassari, 2018).

8 marzo 1978, Sassari, Alternativa femminista in piazza, Archivio AIED Sassari.

Arcipelaghi

Questa storia si colloca in una terra, la Sardegna, e in una città, Sassari. Arcipelaghi, dove la terra vicina c’è e si vede ma è sempre di là dal mare, in un gioco di prossimità e distanza che plasma gli spazi del pensiero, della politica, delle relazioni tra donne.
L’isola, per quanto (secondo il luogo comune) associata a volte alla provincia o alla chiusura, rappresenta un luogo di fermento ed elaborazione in cui negli anni viene costruita una fitta rete tra i gruppi femministi esistenti: Sassari, Cagliari, Alghero, Ozieri, Nuoro e così via. Rete che si ritrova in due momenti comuni di discussione, a Santu Lussurgiu nel 1975 e a Santa Maria Navarrese nel 1977. Più che un limite essa rappresenta la potenzialità di un fare politico autonomo, in cui scoprirsi spesso “più avanti” delle donne del Continente.

“E a noi del Collettivo di Sassari che pensavamo di essere indietro, è capitato di andare a due convegni, uno a Roma e uno a Firenze, in cui eravamo molto più avanti nell’elaborazione (…). Noi che avevamo un po’ la paura di essere la provincia, di essere provinciali, e quindi di non cogliere… e invece avevamo fatto degli approfondimenti pazzeschi.” (A, Sassari, 2018)

Così, l’esperienza dei femminismi, collettivi e intimi, si snoda fino a oggi nell’isola, dove nuovi archivi della memoria e del presente sembrano necessari per continuare a ridare il volto e la voce al “linguaggio della nostra insurrezione” (M.G.L. 2012: 29).

 

*Questo contributo non sarebbe stato possibile senza la relazione con diverse donne a cui va il mio più sincero ringraziamento. Loredana Rosenkranz, per la pazienza, l’attenzione e la passione e le quattro donne che mi hanno aperto la porta delle loro case e delle loro vite. Un regalo prezioso, a volte sofferto, di cui sono profondamente riconoscente.

Bibliografia

Brau, C., Cecaro, A., Rosenkranz, L. e Ruju, C. (1983), La torta, il disagio e “le parole per dirlo”, ICHNUSA. 3 (5), 27-33.
Centro di documentazione e studi delle donne di Cagliari (a cura di) (2012), Memorie del movimento delle donne degli anni ’70. Contributi per una storia del femminismo in Sardegna. Cagliari: CUEC.
Francioni, F, e Rosenkranz, L. (2017). I movimenti degli anni Settanta fra Sardegna e Continente. Cagliari: Condaghes.
Libreria delle donne di Milano (1987). Non credere di avere dei diritti: la generazione della libertà femminile nell’idea e nelle vicende di un gruppo di donne. Milano: Rosenberg & Sellier.
Longhi, M. G. e Milia, L. (2013). Compagne di parola. Storie di donne del collettivo femminista di via Donizetti a Cagliari. Cagliari: Aipsa Edizioni.
Lonzi, C. (1974). Sputiamo su Hegel. Milano: Scritti di Rivolta Femminile.
Rosenkranz, L. (1990). Vivere nell’isola fra differenze e utopia dell’identità, ICHNUSA, 9 (20), 4-10.

Giada Bonu is a PhD candidate in Political Science and Sociology at the Scuola Normale Superiore set in Florence and a member of the Center of Social Movement Studies (COSMOS). She is actually working on a comparative research focused on the development of queer and feminist movements in urban areas through the production of safe spaces as spaces of contention. She is specifically interested in how these spaces are imagined, produced and preserved, which boundaries crossed them, which relationship exists between the space and the city and more generally in developing the analytical framework of sexual democracy and intimate citizenship.
She’s attained her B.A. in Political Science and her M.A. in Sociology at the University of Padua and then a Master in Political and Gender Studies at the University of Roma Tre. Her Master’s research has been focused on a mapping of homationalism and homonormativity process in Italy, aiming at understanding the production of new rightful citizens against “old” others – barbarian, migrants and other misfits, especially toward the last ten years of public claims and campaigns of mainstream LGBT associations.
She has been engaged in several networks and journals on feminist and gender studies and critical theory, such as DWF – Donna Woman Femme and Archivio Luciano Ferrari Bravo. She’s also worked on several papers on the divided memories of social movements in the seventies and contemporary homonationalism and homonormativity debate in Italy.