“Scusi, mi sa dire dov’è via Garibaldi?” “Guardi vada dritto fino all’incrocio, poi giri a sinistra. In fondo vedrà una statua a cavallo, grande eh, si vede bene, lì comincia via Garibaldi.” “Grazie, molto gentile.”
Rivolta al marito: “Bisogna sempre chiedere, perché ‘ste vie Garibaldi, sono lunghe e non si sa mai dove incominciano”.
Monumenti. Strano destino quello di queste opere d’arte che occupano in vario modo gli spazi della città, percepite perlopiù come punti di riferimento nella topografia dei quartieri e delle strade, a volte anche quelle di campagna. Segnaposto nell’immaginario spaziale più che autentici portatori di valori. Eppure se ne sta parlando molto da qualche tempo a questa parte. Un fenomeno strano ma ricorrente nella Storia: ogni volta che il “popolo” rialza la testa, quelle dei monumenti tendono a cadere.
Pur essendo spesso di dimensioni notevoli, di materiali propri della tradizione scultorea e architettonica – pietra, metallo, mattone, etc. – perdono forza nel tempo a differenza delle opere conservate nei musei. Sarà perché l’aura della città e degli spazi dove si trovano è più forte di quella dei suoi singoli componenti, sarà perché l’uso dello spazio pubblico cambia nel tempo e perché anche la memoria di quel che rappresentano se ne va insieme alle persone che li hanno voluti. Un paio di generazioni sono più che sufficienti.
Eppure molti di questi monumenti rappresentano tappe della Storia, delle élite, del potere e persino, a volte, del contropotere, parlano delle stratificazioni del nostro stare nel mondo, e spesso con più veemenza di altre forme d’arte proprio perché si configurano come strettamente radicate nel tessuto spaziale che abitiamo. Non necessitano, almeno apparentemente, di spiegazioni, i monumenti, sono semplicemente costitutivi dello spazio collettivo.
Il dibattito attuale si lega al risorgere di istanze politiche delle minoranze – che a dire il vero tali non sono se si pensa alle donne – le quali nel rileggere la propria storia hanno identificato in alcuni monumenti gli idoli da abbattere con azioni giudicate violente e scandalose, che violente non sono perché rivolte a quelli che non sono altro che oggetti [1]. A ragion veduta però il potere le giudica tali, riconosce nella rabbia del gesto, nella rivolta, quella sì tutta umana e politica, un attacco inaccettabile alla propria visione del mondo.
Riconnettere le persone ai monumenti è stato l’oggetto di un paio d’anni di ricerca di Patrizio Raso, con una serie di azioni che coinvolgono due diverse e opposte tipologie di opere, a partire dall’idea che sia lo spazio pubblico il luogo principe in cui agire. Questa attitudine, condivisa oggi da tanti artisti, si collega a quel risorgere di un’urgenza politica del fare arte che non ha come fine l’arte politica in sé e non è in quanto tale in opposizione al mondo dell’arte, quanto, in modo ben più radicale, al mondo così com’è e rivendica all’artista la possibilità di trasformare l’idea e il vissuto dello spazio pubblico.
Nell’ottobre del 2017, su invito dell’artista Valentina Bonizzi, all’interno del COD – Center for Openness and Dialogue situato nel palazzo della Presidenza del Consiglio a Tirana [2], vengono messi in mostra i lavori dei diversi artisti e gruppi [3] che partecipano a L’Arte del Processo. Imprenditori Sociali in Albania.
Raso conosce bene Tirana, che ha visitato più volte nel mezzo di una trasformazione sociale che ha preso l’avvio nei primi anni ’90 e che ancora non può dirsi conclusa; il passato dell’Albania gli è ben presente attraverso i racconti e la storia della famiglia di sua moglie. È interessato a capire quale relazione abbiano le persone che partecipano ai workshop con il passato e in particolare con la dittatura di Enver Hoxha che ha profondamente segnato la vita di tutti, artisti compresi.
Essere un artista di regime significava non soltanto aderire al Realismo Socialista ma anche concretamente realizzare le opere celebrative del dittatore. I ritratti in bronzo e pietra di Hoxha costellavano i punti nodali della città, oltre che le fabbriche, le scuole e le case. Ma come si diceva, insieme ai dittatori cadono le loro statue che lasciano dei vuoti nel tessuto urbano. Solo che quei vuoti si riempiono di altro, ne cancellano la memoria.
Il lavoro nasce dai numerosi dialoghi e racconti tenuti in quel periodo con Valentina Bonizzi e un gruppo di persone che frequentano gli appuntamenti al COD. Dall’Italia, Raso ascolta e immagina una città che appare attraverso le narrazioni degli altri, gli abitanti. Da questi racconti emerge la descrizione di un luogo in cui giacciono deposte alcune statue del periodo comunista. Uno spazio sospeso della città, un “bug” urbano nella memoria storica del paese.
L’artista invita il gruppo di persone a disegnare il profilo dell’ombra di queste statue, l’azione diventa un’interrogazione della memoria di chi aveva vissuto quei tempi. Le ombre delle statue si mescolano nel sovrapporsi a quelle dei partecipanti. Sono state disegnate e ricopiate più volte, a più mani, si moltiplicano in altri luoghi, forse le stesse piazze dove erano prima. Qualcuno ne riconosce il profilo, riaffiora il ricordo e qualche circostanza. In questo ripercorrere le loro storie condivide con i partecipanti una presa di coscienza del presente. I monumenti, le statue non sono l’oggetto del lavoro, il fulcro sono le persone con i loro vissuti e le azioni che compiono in prima persona. Pur essendo un evento politico maggiore – il cambio di regime e il conseguente abbattimento delle statue – a determinare la possibilità del gesto artistico, quest’ultimo è generato dalla relazione tra le persone. Un piccolo gruppo, nessun gesto spettacolare ma una densità emotiva che è quella di ogni singolo partecipante.
Questa esperienza si ripete con un monumento di segno opposto, a Milano. La forza del movimento di protesta sociale e politico degli anni ’70 lascia dei segni in città. Tra questi uno dei più significativi, perché frutto di un acceso dibattito tra artisti e intellettuali, è il monumento a Roberto Franceschi, uno studente dell’Università Bocconi ucciso il 23 gennaio 1973 da un proiettile sparatogli alle spalle dalla polizia, chiamata dal Rettore che voleva impedire l’accesso ad un’assemblea agli esterni all’università. Il 3 febbraio si tengono i funerali del ragazzo seguiti da decine di migliaia di persone che attraversano la città strette le une alle altre, attonite. Un altro caduto negli anni delle lotte di studenti e operai, in una linea di continuità che connetteva, allora, la Resistenza al presente.
Quasi subito viene posta una lapide a ricordo dell’uccisione dello studente – la città è piena di lapidi, una forma che risale ai tempi dei Romani. Come se fosse un segno più semplice, che richiede meno passione civile, meno invasivo – del resto anche i nomi delle strade erano e sono pietre incastonate negli edifici. Servono appunto a nominare le persone nel luogo esatto dove sono nate o morte. Ma anche queste sono oggetto di dibattito politico, sono significative. Infatti quella a Franceschi, voluta dai suoi amici, viene distrutta più volte dai fascisti. Per questo nell’inverno del 1973 alcuni studenti contattano Alik Cavaliere per farne una nuova [4]. Avevano forse compreso che una lapide d’artista avrebbe rimesso in circolo quella solidarietà che la città aveva dimostrato al momento dei funerali? Riconoscevano al lavoro dell’artista una dignità condivisa socialmente? Anche gli artisti partecipavano dei cambiamenti in atto, si erano schierati.
Cavaliere decide così di promuovere un dibattito fra gli artisti, si forma il Comitato promotore per il monumento a Roberto Franceschi e ai caduti nella Nuova Resistenza dal ‘45 a oggi, che esplicita nel nome quella continuità generazionale condivisa dai più.
Il Comitato indice un concorso d’idee, fra i progetti ricevuti anche l’idea di installare un crogiuolo della Breda, la grande fabbrica siderurgica di Sesto San Giovanni, in cui era morto un operaio. Un’ipotetica unità fra studenti e operai, morti, che i movimenti erano riusciti a saldare per un breve momento e che costituivano la base politica del mondo migliore che avrebbero voluto realizzare. Ma il Comitato non riesce a decidere, si forma una nuova commissione – che comprende Enzo Mari – per riformulare il progetto, estendendo il coinvolgimento ai designer. Nel 1975 si avviano i contatti con i consigli di fabbrica e il sindacato dei metalmeccanici delle grandi fabbriche dell’hinterland milanese e prende forma l’idea del reperto industriale; il Movimento Studentesco [5] incarica Ezio Rovida come proprio rappresentante e nel 1976, scelto un maglio, il progetto viene presentato alla Biennale di Venezia e poi alla Galleria Milano. Finalmente nel 1977 il maglio viene collocato davanti all’Università Bocconi. Ma è un monumento “illegale”, non è riconosciuto dalla città: lo sarà nel 2013, sindaco Pisapia. Per 36 anni quel monumento è stato l’affermazione fisica di un contropotere che si era appropriato dello spazio pubblico. Si trova su un largo marciapiede con l’epigrafe rivolta verso i passanti, accanto a un albero, e proietta soltanto la sua ombra sulla strada dove Franceschi venne ucciso.
Dall’ombra, il lavoro di Patrizio Raso su questo monumento è parte di Hacking Monuments un progetto di Simona Da Pozzo promosso dal Comune di Milano e da Triennale Milano. Di nuovo è sulle ombre che l’artista lavora. L’ombra è immateriale, fuggevole, si deforma, cambia insieme alla luce naturale e scompare col buio. Partire dall’ombra del monumento per vederlo di nuovo e significarlo nel presente: è questa l’idea. Ma partire dall’ombra è paradossalmente un modo per negarne l’ingombro come monumento. «Recuperare l’ombra di un monumento per proiettarla altrove. In quest’ottica, l’ombra smette d’essere un fenomeno naturale, diventando puro oggetto simbolico: guardarla implica il desiderio di individuare la parte sospesa e irrisolta dell’oggetto monumentale. […] Questo contro-monumento porta alla luce problematiche sociali reali, diritti negati, disuguaglianze e violenze», dice l’artista. Il progetto viaggia perciò su due binari. Una prima parte condivisa con i ricercatori della Fondazione Roberto Franceschi – Sofia Anni, Giacomo Battiston, Mariapia Mendola, Samuele Davide Molli e Valentina Rotondi – per una serie di azioni di analisi e incontro con i cittadini sul tema delle migrazioni che si sono svolte alla fine di agosto sul territorio della città. La seconda azione, nata dalla necessità di incontrarsi fisicamente – il progetto è inciampato nel lockdown della pandemia da covid-19 – è stata quella di collocare i ricercatori e alcuni membri della Fondazione, nell’ombra del monumento. Essi appaiono soli nella strada deserta, vivi. Sono il monumento.
Note
[1] Anche se la vernice rosa usata nel 2019 dalle femministe di Non una di meno per sottolineare la vergogna dell’onore reso a Indro Montanelli – che ha stuprato una dodicenne durante la guerra coloniale in Eritrea – è lavabile, il gesto è stato considerato violento, con un’incredibile inversione di senso tra chi la violenza l’ha perpetrata e chi la chiama col suo nome.
[2] Il Primo Ministro dal 2013 è l’artista Edi Rama.
[3] Il progetto, sostenuto dall’Istituto Italiano di Cultura di Tirana, ha visto la partecipazione di Fondazione Wurmkos (Sesto San Giovanni), Fondazione Lac o Le Mon (San Cesario di Lecce e Cavallino), Stalker Osservatorio Nomade (Roma), Museo Wunderkammer (Trento), Fondo Speculativo di Provvidenza (Luigi Coppola e Christophe Meierhans, Italia / Belgio), Baubaus (Milano).
[4] Per la cronologia completa e l’elenco degli artisti vedi il libro Che cos’è un monumento.
[5] Il Movimento Studentesco, a cui Roberto Franceschi apparteneva, è uno dei gruppi che compongono la sinistra extraparlamentare italiana a partire dal 1968. Si veda la voce di Wikipedia, abbastanza affidabile.
Bibliografia
Poli F., Rovida E., Che cos’è un monumento. Storia del monumento a Roberto Franceschi, Mazzotta, Milano 1995.
Simona Bordone (1959) ha attraversato diversi mondi professionali: la scrittura, la curatela di mostre, l’insegnamento. Dal 2008 al 2017 è responsabile dei contenuti del sito domusweb.it; dal 2018 si occupa di progetti speciali sempre per Domus. Nel 1991 fonda la galleria bordone, che dirige fino al 2001. Ha pubblicato, dal 1998, articoli e testi in cataloghi d’arte, riviste, siti web. Dal 2004 è docente di Storia del design presso IED Milano. Dal 2011 è presidente di Fondazione Wurmkos onlus; con Wurmkos, gruppo di artisti con e senza disagio psichico, lavora dal 1993.