1_Inneschi/Innesti
Ci piace pensare all’immaginazione, forse ancora meglio alla “visione”, come a uno dei fattori scatenanti della ricerca: l’immaginazione spinge a domandarsi cosa c’è dopo, a come il “dopo” dovrebbe essere, e a studiare quello che poi effettivamente sarà per ricominciare tutto il ciclo daccapo. Bisogna notare che la portata di questa visione ha una caratteristica interessante: è legata a doppio filo con lo stato dell’innovazione tecnologica, e se da un lato la scienza si prefigge di far evolvere di continuo il livello raggiunto dallo “stato dell’arte”, verificando i suoi risultati e muovendosi con cautela, dall’altro lato gli “inventa-storie” utilizzano questa “realtà” come una catapulta che li spinge sempre più avanti, come se non ci fosse limite all’immaginazione. Stante questa condizione di reciprocità generativa tra innovazione tecnologica e visione immaginifica, in principio l’immaginario dell’uomo ha inevitabilmente propeso per la parte “meccanica” della faccenda perché era l’unica visibile agli occhi dei visionari dello storytelling.
Tornando quindi a noi, appare ovvio che il “limite” tecnologico di un’epoca è in un rapporto di coproduzione, di nutrimento e di scambio reciproco con l’immaginario legato ad essa.
Ecco perché prima di preoccuparsi di affrontare questioni relative all’intelligenza delle macchine o addirittura all’improbabile sviluppo di una loro anima (anche se poi, come vedremo il giro si completerà arrivando a parlare proprio di questo), tutto quello che si riusciva a immaginare erano macchine con meccanismi più o meno cervellotici che, in alcuni casi, volevano essere esperimenti mimetici della realtà – come l’anatra digeritrice costruita da Jacques de Vaucanson nel 1739 (cfr. Ceserani, 1969) che era progettata in maniera tale da simulare la capacità di ingerire, digerire e defecare i chicchi di grano – mentre la questione dell’intangibile, ovvero di tutti gli aspetti che non erano strettamente legati alle “cose” meccaniche fu, giustamente, messa in secondo piano da questi creatori di vita artificiale che, come dei novelli Prometeo, si preoccupavano di progettare questi costrutti il cui unico scopo era quello di stupire gli spettatori “replicando” le movenze proprie delle cose del creato cercando di sovrapporre la scienza e la meccanica alla natura. D’altro canto, nell’opera di finzione, quella che noi definiamo IA all’inizio del secolo scorso era ancora identificata come qualcosa di costruito/generato da un professore “pazzo” con uno scopo nobile: nel dramma R.U.R. (2015), pubblicato nel 1920 dallo scrittore ceco Karel Čapek, i protagonisti dell’opera sono i Robota, diventati poi Robot, creature che non sono dei semplici costrutti meccanici, ma frutto di quella che oggi potremmo definire ingegneria genetica – e quindi interamente organici.
Maria, la ginoide costruita dal Prof. Rotwang nel film di Fritz Lang Metropolis (1927), è un altro esempio interessante perché in questo caso la macchina è camuffata con un procedimento a base di “onde elettromagnetiche”, attuato per renderla umana agli occhi degli umani così da farle raggiungere il suo scopo rivoluzionario. La Maria robot riesce a imitare alla perfezione le movenze della donna biologica della quale ha preso il posto, tant’è che la sua prima apparizione è in un postribolo dove riesce a far scatenare il pubblico, impazzito dinanzi all’incarnazione della meretrice di Babilonia. Quindi per gli storyteller è sempre stata una questione di creazione della vita, continuazione della vita per sfuggire alla morte come nell’utopia del Dr. Frankenstein. Possiamo dire che la vecchia equazione innovazione tecnologica/visione si evolve in innovazione tecnologica/visione/creazione.
2_U-Turn
E se quindi ribaltassimo la questione? Se invece di scervellarci sul se e quando una macchina acquisterà coscienza di sé – perché questo è il significato profondo, nucleare, della parola “intelligenza”, e questo è il fenomeno che evoca, di fatto, il termine “Intelligenza Artificiale” – ci chiedessimo cosa sarebbe, cosa sentirebbe /percepirebbe/penserebbe un cervello disincarnato? In attesa di essere inserito in un corpo – artificiale o organico non ha importanza?
Come ha provato a fare Don DeLillo nel suo Zero K (2016)?
Ma sono, io, quello che ero?
Mi pare di essere qualcuno. C’è qualcuno, qui, e lo sento in me o con me.
Ma dove è qui e da quanto tempo sono qui e sono solo quello che è qui?
Lei conosce queste parole. Lei è solo parole, ma non sa come uscire dalle parole ed essere
qualcuno, essere la persona che conosce quelle parole.
Tempo. Lo sento in me, dappertutto. Ma non so cos’è.
L’unico tempo che conosco è quello che sento. È tutto ora. Però non so cosa significa.
Sento parole che mi ripetono cose. Sempre le stesse parole che se ne vanno e tornano.
Ma sono, io, quello che ero?
Sta cercando di capire cosa le è successo, dove si trova e cosa significa essere quello che è.
Cos’è che sto aspettando?
Sono soltanto qui e ora? Cosa mi è successo che ha provocato questo?
Lei è prima e terza persona insieme (DeLillo, 2016, p. 135).
Nel suo romanzo è già esistente una tecnologia che permette di separare il cervello del paziente da un corpo malato irrimediabilmente e conservarlo senziente, e il monologo che leggiamo è esattamente la trascrizione – fantastica, immaginaria, naturalmente – di ciò che la mente, il Sé, la coscienza, l’anima “contenuta” in quel cervello (o a cui quel cervello “appartiene”) si chiede nel momento in cui si “risveglia”, in cui si ritrova, dopo essere separata dal suo corpo, nel contenitore che lo custodirà e nutrirà fino alla scoperta della cura adatta per sconfiggere la patologia che ha colpito il corpo in cui dimorava.
Possiamo immaginare che – in termini di rispecchiamento, mimesi – forse nemesi per i disastri che l’umano ha prodotto e che potrebbe provocare ancora – questa sarebbe la stessa reazione di una Intelligenza Artificiale che una volta assemblata avrebbe nel momento in cui viene accesa. Sì, perché, in una macchina c’è sempre un interruttore che deve essere acceso, una chiave che deve essere girata, un pulsante che deve essere premuto – in epoche precedenti, una molla che doveva essere caricata.
E questa è – per ora, finora – la differenza fra l’organico e il meccanico, fra la carne e l’artificio, e – diciamolo – fra l’analogico e il digitale.
Se ragioniamo in termini “olistici”, e ci emancipiamo finalmente e in via definitiva del dualismo che dai tempi di Platone affligge il pensiero occidentale, liberandoci dal “fantasma nella macchina” di cui scriveva Arthur Koestler (1970), allora dobbiamo accettare che tutti questi temi sono connessi fra loro, inestricabili, frutto e fonte delle interrogazioni attuali sulle “I.A.”
Così, la crescita impetuosa del “dibattito” sulle Intelligenze Artificiali e sulle loro possibili applicazioni e conseguenze è già diventata parte consistente dei contenuti dell’immaginario collettivo e delle rappresentazioni sociali.
D’altra parte, la “macchina intelligente” come elemento mimetico dell’umano è presente da secoli – almeno dall’affermarsi dell’Illuminismo – nell’immaginario scientifico e tecnologico, e quindi in quello sociale, e nei suoi riflessi nel senso comune – con tutto il codazzo di diffidenze, paure, ma anche entusiasmi che porta con sé in una delle tante manifestazioni dell’inesausto e inesauribile conflitto fra “apocalittici” e “integrati”, per usare la classica distinzione di Umberto Eco (1964).
Così, nonostante la lunga consuetudine alla loro compagnia, e la dimestichezza che dovremmo avere con loro, succede ancora che «La stampa generalista tende a trattare l’intelligenza artificiale in termini ancora sensazionalistici, spesso legati a scenari apocalittici (‘ci ruberà tutti i nostri lavori’ / ‘ci sterminerà tutti’). Ma la prima cosa che c’è da sapere sulle intelligenze artificiali è che, almeno per ora, ogni sviluppo in questo settore rispecchia ancora i metodi di innovazione applicati al mondo delle intelligenze umane. Con tutto il corollario dei nostri limiti, delle nostre prospettive peculiari, e delle nostre potenzialità di singoli individui immersi nel brodo delle culture. A meno che non si creda al finora chimerico concetto di singolarità – quel momento di sorpasso dell’intelligenza artificiale rispetto alla nostra, chimera e spauracchio di questo secolo e di tutta la fantascienza dalla sua nascita –, i prodotti che otterremo dalle intelligenze artificiali, pertanto, non saranno altro che il riflesso di quello che siamo noi, nel nostro umile guscio di umani privi di esoscheletri» (Lubrano, 2023, p. 42).
Nello stesso tempo, da almeno un secolo, l’altra grande partizione dell’immaginario sociale, quello narrativo, ospita le riflessioni fantastiche e immaginative su possibili “macchine mimetiche”, e di questa presenza è specchio e prova molta narrativa non solo di science fiction e fantastica.
Il contributo che possiamo proporre proviene dalla sociologia dell’immaginario, nei termini di una possibile “archeologia del sapere” fantastico: riflessi di una «[…] filosofia spontanea di quelli che non fanno filosofia»: rami secchi del pensiero, vicoli ciechi della riflessione, appartenenti perciò all’immaginario quotidiano e non al pensiero scientifico rigoroso e organizzato.
Quindi, pensiamo alla presenza, nell’immaginario fantastico/fantascientifico, non tanto di opere come quelle di Isaac Asimov con i suoi robot positronici (2018), quanto di opere come L’invenzione di Morel di Adolfo Bioy Casares (1974), o Le statue canore di James Graham Ballard (2003), Assurdo Universo di Fredric Brown (2004), o ancora, come contraltare, Zero K di Don DeLillo, che abbiamo citato più sopra, fino ad arrivare al recentissimo Macchine come me di Ian McEwan (2019). Esercizi di esplorazione delle applicazioni e delle conseguenze possibili di tecnologie e eventi che stanno intorno, a lato delle Intelligenze Artificiali.
E nello stesso tempo alla archeologia della ricerca e della sperimentazione di tecnologie che dovevano permettere di realizzare esseri artificiali, simulazioni, mimesi dell’umano. Del suo corpo, ma necessariamente anche della sua mente, della sua coscienza.
Nel suo L’archeologia del sapere Michel Foucault scriveva che: «Non è facile caratterizzare una disciplina come la storia delle idee: oggetto incerto, confini male delineati, metodi rimediati a destra e a sinistra, procedimento privo di linearità e stabilità. Tuttavia mi sembra che le si possano riconoscere due funzioni. Da un lato, essa racconta la storia degli aspetti secondari e marginali. Non la storia delle scienze, ma quella delle conoscenze imperfette, male fondate, che malgrado una vita ostinata non sono riuscite a raggiungere la forma della scientificità (la storia dell’alchimia più che quella della chimica, degli spiriti animali o della frenologia più che della fisiologia, la storia dei temi atomistici e non quella della fisica). Storia di quelle filosofie umbratili che ingombrano le letterature, l’arte, le scienze, il diritto, la morale e perfino la vita quotidiana degli uomini; storia di quelle tematiche secolari che non si sono mai cristallizzate in un sistema rigoroso e individuale, ma hanno formato la filosofia spontanea di quelli che non fanno filosofia. Storia non della letteratura, ma di quel rumore collaterale, di quella scrittura quotidiana di breve durata che non raggiunge mai lo statuto di opera o ne viene subito estromessa: analisi delle sottoletterature, degli almanacchi, dei giornali e delle riviste, dei fuggevoli successi, degli autori inconfessabili» (Foucault M., 1971 pp. 158-159).
Così, ispirandoci alla sua lezione, vogliamo provare a ricostruire una “archeologia del sapere immaginario” sulle “Intelligenze Artificiali” che recuperi elementi dell’immaginario narrativo e scientifico abbandonati, trascurati, appassiti, ma che contengono grumi e nuclei indissolubili dell’immaginazione e dell’immaginario tecnologici.
3_I Think the Soul Electric
Partiamo da un’ipotesi, insomma: che all’origine delle visioni delle possibili intelligenze artificiali ci sia l’atmosfera connessa alla forma culturale all’origine dell’Illuminismo, delle ricerche e invenzioni sulla meccanica da un lato e sull’elettricità e il magnetismo dall’altro. Un’atmosfera sempre più pratica e razionalista – meccanica, potremmo dire – in cui nuotavano “teologi dell’elettricità” come Johann Ludwig Fricker, Prokop Diviš, Friedrich Christoph Oetinger (cfr. Benz, 2013; Davis, 1999) con le loro teorie sull’elettricità come scintilla vitale, “automatisti” [1] e inventori come Henri Maillardet, Pierre e Henri-Louis Jaquet-Droz, Jacques de Vaucanson, Wolfgang Von Kempelen (cfr. Bredekamp, 1996; Ceserani, 1969) con i loro automi, medici come Julien Offroy de Lamettrie, filosofi come Charles Babbage.
Tutti, in fondo, padri della “Creatura” del Dottor Frankenstein (Shelley, 2016; cfr. Fattori, 2018), e contemporaneamente eredi di un inconsapevole Cartesio e della sua idea di Dio come divino “orologiaio”, che ci permettono di porci questo interrogativo: se, come sostiene de Lamettrie, «L’anima è un’ipotesi inutile: l’uomo è una macchina» (1973, p. 63), possiamo implicare, con Horst Bredekamp (1996, p. 13), che «era vicino il tempo in cui l’uomo avrebbe potuto essere costruito artigianalmente da un creatore di automi particolarmente abile?» Allora le macchine possono diventare umane/i!
Proprio come l’Adam di Macchine come me di Ian McEwan (2019), o la Hadaly dell’Eva futura di Auguste Villiers de l’Isle-Adam (1966) – realizzata nel romanzo del francese da un Thomas Edison ancora vivente, e che qualche anno prima della pubblicazione del romanzo stesso aveva inventato la lampadina ad alta resistenza.
Ecco, forse fra la ripugnante “creatura” della Shelley e l’algida creazione di Villiers de l’Isle-Adam si gioca tutta la genesi, l’origine delle Intelligenze Artificiali: menti – e coscienze – in cerca di corpi, corpi in cerca di identità – di anima, volendo. Dal “primo ordine di simulacri” al “terzo”, come scrive Jean Baudrillard (1979), riflessi di un tema che risale all’Umanesimo, che nel Rinascimento già produsse alcuni esempi, come «[…] un androide di ignota paternità» o «[…] una fanciulla fabbricata con arte meravigliosa che per il moto di circoletti e rotelle avea sembianza di vita» (Cfr. Ceserani, 1969, p. 45) e che – sicuramente – ha una sua essenziale tappa nel romanzo di Mary Shelley – laddove per la prima volta si sposano la materialità della carne (seppur morta) e la (solo apparente) evanescenza dell’elettricità.
Se alla carne putrefatta trafugata dai cimiteri dal dottor Frankenstein e dal suo famiglio per assemblare la sua creazione e animarla con l’elettricità dei fulmini sostituiamo materiali artificiali come il metallo di ingranaggi, ruote dentate, pulegge e lamiere e le stoffe, il legno e il cuoio dei corpi degli automi sette/ottocenteschi, e poi i metalli e le plastiche dei replicanti contemporanei da Blade Runner (Scott, 1982) a Westworld Dove tutto è concesso (Nolan, Joy, 2018-2022), e animiamo i nostri simulacri con la forza dell’elettricità, allora avremo gli involucri adatti a contenere le IA.
Se sostituissimo “coscienza”, “intelligenza”, “mente” con un bel termine ombrello come “anima”, potremmo quasi parafrasare Vladimir Il’ič Lenin: da «Il socialismo è il potere sovietico più l’elettrificazione di tutto il paese» a «L’anima è materiale inerte assemblato insieme più la sua elettrificazione» (1965). E visto che i primi costruttori di automi, fra il XVI e il XVII secolo erano prima di tutto orologiai, non possiamo che inferire che le prime “intelligenze artificiali” siano state prodotte fornendo ai primi “robota” dei buoni meccanismi caricati a molla…
È interessante quindi notare che il ciclo della ricerca sembra avere la tendenza a ricominciare sempre daccapo, quindi i robot di Asimov (2018) dotati del famoso cervello positronico (che è una IA a tutti gli effetti) nel ciclo della Fondazione (2020) hanno un ruolo simile e contrario alla Maria di Metropolis: una missione segreta da compiere per il bene dell’umanità camuffandosi in maniera mimetica agli occhi degli umani; così come i replicanti di Philip K. Dick in Gli androidi sognano pecore elettriche? (2022), che sono frutto dell’ingegneria genetica proprio come i robot protagonisti di R.U.R. vengono progettati per migliorare la vita degli uomini, salvo poi rivoltarsi contro di loro per questioni e dubbi sulla moralità di una vita a scadenza breve che non gli permetterà di mettere a frutto tutte le esperienze fatte, né di poterne fare di nuove! Questo tipo di approccio più filosofico alla questione innovazione tecnologica/visione/creazione è approfondito nel manga di Masamune Shirow Ghost in the Shell Kōkaku kidōtai, pubblicato in Giappone dal 1989 al 1991 e nell’omonimo anime diretto da Mamoru Oshii nel 1995. Nell’opera di Shirow il cyborg militare Motoko Kusanagi si interroga sulla possibilità di sviluppare un’anima propria e formula pensieri sull’intangibile e sul concetto di morte, anche se il personaggio più affascinante in Ghost in the Shell è la figura del Burattinaio (il Puppet Master): una potentissima IA ossessionata dal voler abitare un corpo umano. Per queste argomentazioni James Cameron ha descritto l’opera come «[…] il primo film d’animazione realmente adulto a raggiungere un livello di eccellenza letteraria e visiva» (cit. in Jobson 2021).
Tornando al Burattinaio, si tratta di una forma di intelligenza artificiale molto avanzata, che ha raggiunto un livello di coscienza simile a quello umano. Le sue azioni sono spinte dal desiderio di sperimentare la vita nel mondo reale superando così i limiti della sua esistenza digitale: una fusione uomo-macchina/codice nella speranza di una nuova forma di esistenza e identità.
Assistiamo al ribaltamento delle tesi iniziali: all’inizio c’era la voglia di stupire nella mimesi della realtà, alla ricerca di quello che oggi chiameremmo effetto wow, nel 1995 Masamune Shirow seguendo la strada tracciata da William Gibson nel suo Neuromante (2023) fa desiderare a una IA una vita umana in un corpo biologico perché ha sviluppato una sua coscienza.
4_Illusioni perdute
Proviamo perciò a fare un passo di lato e, tornando a figure già evocate, proporre il recupero – o la ripresa – di strade lasciate da parte, “perdute”, se vogliamo parafrasare un grande autore dei nostri tempi (anche se ha poco a che fare con le sedicenti “intelligenze artificiali”: cominciamo col riassumere due “storie”.
4.1_Maree
Siamo, forse, negli anni Quaranta del Novecento. In uno scenario che ci rimanda allo sfondo di atmosfere esotiche e misteriose come quelle del Mistero del falco (1941), per intenderci. Un fuggiasco sbarca su un’isola sconosciuta in un arcipelago della Polinesia. È in fuga dalla legge. Ha saputo da un mercante italiano che vive a Calcutta di quest’isola, degli edifici che vi sono stati costruiti anni prima (una piscina, una cappella, un museo), e lo ha convinto a condurcelo, nonostante gli avvertimenti di quest’ultimo: l’isola, squassata dai venti, in gran parte paludosa, segnata da maree continue e a volte altissime, è il focolaio di una malattia mortale, inesorabile, che provoca la progressiva caduta dei capelli, delle unghie, le cornee e la pelle “muoiono”…
Di lui – e della sua vita sull’isola – sappiamo da un diario che ha tenuto, in cui ha trascritto la sua vicenda a partire dalla fine, dal momento in cui è ormai certo del suo destino.
Il fuggitivo racconta di come vi abbia visto arrivare dei turisti, li abbia poi visti sparire, convincendosi che fossero morti, e di averli visti riapparire – sempre impegnati negli stessi gesti, occupando i medesimi posti, facendo gli stessi movimenti, in una continua ripetizione.
Ma chi lo ha colpito di più è una bellissima donna, Faustine, che vede ogni giorno, sempre e solo immobile in alto sulle rocce dell’isola, intenta a fissare il tramonto. E con lei, un uomo, Morel.
Il narratore, naturalmente, si innamora di lei, ma quando trova il coraggio di avvicinarsi e di parlarle, si trova di fronte alla totale estraneità della donna, che sembra non accorgersi neanche della sua presenza, come se lui non fosse lì, davanti a lei.
In realtà, Faustine non c’è: quello che l’esule vede è una sorta di fantasma, una proiezione, come gli spiegherà Morel, il demiurgo dell’isola, inventore dei macchinari collocati nelle cantine del “museo”, in profondità sotto il suolo dell’isola, alimentate dalle maree e dai venti.
L’intenzione di Morel era creare una macchina per l’immortalità, capace di assorbire, rielaborare e “fotografare” per intero – corpo e coscienza – le persone che vengono in suo contatto, che però succhia, di fatto, la vita di costoro, lasciandone – e replicandone – solo un simulacro, una apparenza, un’immagine inconsistente, evanescente, immateriale, del corpo, e annullandone la coscienza.
In nuce, la tecnica del codec delle tecnologie digitali.
È la trama de L’invenzione di Morel (Bioy Casares, 1974), romanzo pubblicato dall’argentino Adolfo Bioy Casares nel 1941, e considerato dal suo fraterno amico, Jorge Luis Borges, dotato di «una trama […] perfetta» (Bioy Casares, 1974, pag. 21).
Gli indizi disseminati da Bioy Casares lungo il testo rimandano all’immaginario (già in formazione) della contaminazione atomica da un lato e della tecnologia dell’ologramma dall’altro, a cui già lavorava il suo inventore, l’ungherese Denes Gabor, che la realizzerà negli anni Sessanta, quando sarà perfezionata la tecnologia del laser. Ma combinano questi nuovi miti con i simboli più classici dell’immaginario, come l’acqua (Durand, 1972, pag. 89) o l’isola (Durand, 1972, pag. 241), che rimandano allo scorrere del tempo, ma anche alla morte, alla tomba, alle profondità, e si connettono alle figure del Mito più classico, come la sirena, o la Medusa, se vogliamo.
4.2_Sabbie
Vermilion Sands è una area geografica immaginaria, una zona costiera liminale, forse sull’Atlantico, località di villeggiatura decadente – e decaduta – che oltre ad accogliere turisti occasionali o semi residenti ospita anche una variegata comunità di persone dislocate, disadattati, artisti in cerca di gloria, fuggitivi, anticonformisti… un non-luogo terminale e disincantato.
Siamo negli anni Sessanta di un Novecento in parte immaginario, proiettato in un futuro che non si realizzerà, almeno visto da oggi, con la forza del senno di poi. Potrebbe far pensare alla Marienbad immaginata da Alain Robbe-Grillet per ambientarci il suo film (1961) – e il suo romanzo (1961) – ispirati proprio al romanzo di Bioy Casares…
Il creatore di Vermilion Sands, lo scrittore inglese James Graham Ballard, vi dedicherà un intero ciclo di racconti, in cui declinerà attraverso personaggi e situazioni, tutto lo spettro delle nevrosi e del disadattamento della seconda metà del XX secolo, il tema profondo della sua speculazione narrativa.
Fra le meraviglie del luogo, in uno dei racconti della serie, Le statue canore, pubblicato nel 1962 (Ballard, 2003, pagg. 585-598), Ballard colloca le “sonisculture”, entità che crescono sulle scogliere che si alternano alle sabbie vermiglie della zona, e che diventano la materia grezza su cui lavorano aspiranti o sedicenti artisti, metà scultori, metà musicisti, per trasformarle, lavorandole e connettendole a componenti di impianti hi-fi, in sculture figurative o astratte, in grado di produrre suoni organizzati in melodie quando sollecitate – Ballard fa intuire – dalla personalità e dagli spostamenti d’aria provocati da chi vi si avvicina. Una sorta di theremin semiorganico, insomma, ispirato allo strumento musicale progettato dall’inventore e fisico sovietico Lev Sergeevič Termen già nel 1919. Uno dei primi, se non il primo strumento elettronico, e sicuramente il primo strumento musicale che non preveda e non abbia bisogno del contatto fisico con chi lo suona. Anche qui, ad essere applicata è la logica del codec: i movimenti delle mani del suonatore si trasmettono attraverso l’aria a due aste di metallo che fanno da sensori e trasmettono il movimento al “cervello” dello strumento, che le trasforma in onde sonore. Perfetto, come punto di partenza per uno science fictioneer come l’inglese, visto che diventerà lo strumento musicale principe per creare sonorità aliene, stranianti, per il cinema di fantascienza.
Milton, il protagonista del racconto è uno scultore spiantato e incline alla truffa, che – dotato evidentemente di scarso talento – “trucca” per così dire le sue creazioni nascondendovi all’interno un registratore che riproduce brani d’opera o sinfonici, che vengono rielaborati dalla statua, ingannando così gli eventuali acquirenti.
Di una delle sue “creazioni”, Orbita Zero, si innamora una grande attrice decaduta, Lunora Goalen, altro personaggio problematico, giunta al vero successo solo dopo essere rimasta deturpata in un incidente, che compra la statua per un prezzo spropositato, e la fa collocare sulla terrazza della sua villa a Vermilion Sands.
La statua, naturalmente, non funziona come dovrebbe e Lunora, non sapendo che questa è “truccata”, comincia a convocare ogni sera nella sua villa lo scultore, perché gliela ripari. E Milton va da lei ogni volta, rimanendone incantato, a trafficare all’interno della sua scultura, sbirciando l’attrice che ascolta i suoni prodotti dalla statua con lo sguardo perso in lontananza, come in una versione eccentrica di Viale del tramonto (Wilder, 1950).
Da un giorno all’altro, Milton scoprirà che Lunora è andata via, dopo aver fatto a pezzi la statua, e averla fatta scaricare sulle stesse scogliere dove era cresciuta.
Ancora, simboli antichi che attraverso la “macchina del mito” (Frezza, 1995) del cinema sono giunti fino alla contemporaneità della narrativa postmoderna, di cui James Ballard è stato un esponente, rielaborazioni del mito delle sirene, parte donna, parte canto ammaliatore.
Alla base della trama di queste narrazioni, la macchina narrativa messa in opera ha come punto di partenza la logica della mimesi, della possibilità di tradurre grazie a un sistema di codifica e decodifica un vivente in un suo simulacro: l’evanescente Faustine, le meravigliose Hadaly e Anna, il perfetto Adam…
Viene in mente l’argomentazione di Jean Baudrillard sui “tre ordini di simulacri” (1979), dall’angelo di stucco rinascimentale, attraverso il robot fordista, fino al modello dell’era digitale, iperrealista, virtuale, informazionale.
Note
[1] Meccanici: cfr.
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Blade Runner, di Ridley Scott, Usa, 1982.
Ghost in the Shell, di Mamoru Oshii, Japan, U.K., 1995.
Metropolis, di Fritz Lang, Deutschland,1927.
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Westworld Dove tutto è concesso, di Jonathan Nolan e Lisa Joy, Usa, 2016-2022.
Fumetti
Masamune Shirow Ghost in the Shell – Kōkaku kidōtai, Japan, 1989-1991.
Adolfo Fattori è docente di discipline sociologiche presso l’Accademia di Belle Arti di Napoli. È stato docente di Sociologia presso l’Università Federico II. Ha pubblicato o curato diversi testi, fra cui Di cose oscure e inquietanti (Krill, Lecce, 2019), ha curato Black Lodge. Fenomenologia di Twin Peaks (con Mario Tirino, Avanguardia 21, Sermoneta, 2021), I mondi di Westworld (IIF, Napoli, 2023). Pubblica su riviste accademiche e scientifiche.
Pasquale “Pako” Massimo. Mi piace lo storytelling, raccontare storie. I miei studi regolari sono arrivati fino alla fine dell’Accademia di Belle Arti, nel 1996, e da allora continuo voracemente a studiare. Ho cominciato a fare il docente alla fine degli anni novanta del secolo scorso e dal 2003 insegno anche all’Accademia di Belle Arti dove attualmente mi occupo di Graphic Design Multimedia. Mi interesso di fumetti da sempre e ho insegnato questo linguaggio per un pezzo importante della mia vita professionale. Mi affascinano le nuove tecnologie e gli strumenti digitali applicati ai vecchi e nuovi linguaggi di comunicazione, con una particolare attenzione al Game design perché ritengo i videogiochi un affascinante contenitore crossmediale che vale la pena indagare e studiare.