senso /sèn·so/ sostantivo maschile
La facoltà di ricevere impressioni da stimoli esterni o interni.
Capacità di sentire, avvertire, distinguere, intuire.
«[…] Ahi troppo tardi,
E nella sera dell’umane cose,
Acquista oggi chi nasce il moto e il senso.»
Giacomo Leopardi
«Così è la vita/ Cadere sette volte/ e rialzarsi otto»
Proverbio giapponese
«Nostalgie d’Italia: Ercolino sempre in piedi»
Cronaca Vera
Premessa: orientarsi nel senso.
Questo è un cammino tra alcuni pensieri nati lavorando nei depositi dei musei, tra la statuaria, le scoperte e la comprensione di cosa sia un deposito all’interno della fenomenologia museale. In particolare quel luogo popolato dalle statue che celebravano le conquiste coloniali, dall’epoca romana a quella novecentesca, dall’imperatore Adriano alle nostalgie imperiali italiane del Novecento.
Non c’è argomento, non c’è testo da un anno a questa parte che non apra il suo discorso senza parlare di Covid-19. Sono uscite numerose pubblicazioni che cercano di ri-tracciare la strada per andare oltre, di ridare un senso ad una normalità che forse non è mai esistita se non come rimozione, dimenticanza, noncuranza; una realtà che potevamo riconoscere solo come lapsus. Gli avvenimenti hanno questo ruolo nelle nostre vite: produrre attenzione. Tutto ciò che consideravamo consuetudine, normalità ripetuta è saltata. I racconti che reggono la realtà sono saltati, siamo entrati in un periodo di grande incertezza. Abbiamo bisogno di nuove mappature per procedere, per andare avanti.
I fisici teorici ci dicono che il tempo non esiste e in fondo è vero perché non abbiamo percezione del suo passaggio. Passa lentamente, inavvertitamente, senza fare il rumore dell’aereo che vola in cielo. Perché lo si possa sentire occorre che accada qualcosa. Sono gli avvenimenti che ci fanno percepire i cambiamenti, che non riguardano la sola percezione del tempo ma anche il significato più profondo delle cose intorno a noi. Gli avvenimenti sono quelle cose che interrompono il flusso della disattenzione tipico dell’acqua che scorre: improvvisamente c’è qualcosa che non passa, resta. «Ci sono pezzi di passato che non passano, sia dal mio passato privato, sia di quello che condivido con altri, con molti altri. Ho un bel deglutire: mi restano in gola […]» (Augé 2002, p.39).
Anche lo spazio intorno a noi vive della stessa continuità senza attenzione. Attraversiamo le città presi dalle nostre abitudini, inseguendo consuetudini senza comprendere i significati dei luoghi e delle parole che si nascondono dietro ai nomi delle vie. La città è un deposito di significati legati alla nostra storia che non siamo sempre in grado di riconoscere. La disattenzione e l’abitudine sono gli organizzatori dei nostri spazi: cancellano il rischio di dover cambiare. Quando un avvenimento spezza la consuetudine improvvisamente molte cose intorno a noi tendono a mostrarsi per il loro significato, i monumenti mostrano il messaggio che contengono e portano alla possibilità di riconsiderare il loro ruolo nel nostro tempo, nel nostro spazio: così cadono statue, i nomi delle vie cambiano e con loro cambia il nostro modo di raccontare la realtà nelle varie forme possibili. Spesso vediamo gli avvenimenti come se fossero stati pianificati da qualcuno. Non credere all’accidentale e responsabilizzare qualcuno ci consente di mantenere un maggiore senso di controllo su una realtà che è confusa e imprevedibile, una realtà che è vista come nemica. «In ogni tempo coloro che hanno governato i popoli hanno sempre fatto uso dei dipinti o delle statue per meglio ispirare loro i sentimenti che desideravano infondere» (Louis de Jaucourt).
Come è potuto accadere?
Come per tanti avvenimenti fortemente impattanti hanno dell’inspiegabile – “come è potuto accadere” – non bastano le parole e le spiegazioni più ovvie ma abbiamo bisogno di trovare motivazioni, creare nuove mappature anche consolatorie: i complotti. Il complottismo è una forma di costruzione di narrazione che ha uno scopo preciso e che in qualche modo è pure utile. Perché le persone si innamorano di un complotto? In fondo, c’è un potente impulso alla comprensione causale: “perché è accaduto?” In una situazione nuova, le persone hanno bisogno di una mappa causale per navigare nell’ambiente. Possono accontentarsi di una spiegazione prima di avere tutte le informazioni rilevanti, perché l’incertezza è difficile da tollerare. Cercare spiegazioni, costruire una teoria che ci spiega come mai sia accaduta quella cosa, pensare agli effetti che la teoria costruita, la fake news, può avere sulla realtà: ri-mappare la realtà per poter navigare con più serenità.
Il complotto ha successo perché permette il controllo dell’imprevedibilità. La presenza dei monumenti di epoche lontane nelle città costruisce un orizzonte di senso intorno a noi che ci permette di muoverci nello spazio incuranti del loro significato. Sono nomi senza storia e statue senza alcun significato ma ci rassicurano perché sono lì dove devono essere. I monumenti stanno in piedi nelle nostre città per assecondare il nostro bisogno di controllo o di comprensione causale. Quello che fanno anche le favole. Tutte le teorie, vere o false, “true or fake”, soddisfano un bisogno umano di base: costruire una teoria che ci spiega il perché delle cose. Lo sperimentiamo con le fiabe, lo abilitiamo nelle città e lo combattiamo in rete. I monumenti, come le opere d’arte, quando non servono più o quando non servono ancora, dormono.
La città diventa un deposito di significati, di parti di senso che attendono di mettersi in azione attraverso una nuova narrazione. Ad attivarli sono gli avvenimenti che ridanno voce alla storia passata, dandole energia. In questi casi il racconto li stravolge e li ribalta. La loro presenza è importante per ricordare che il nostro passato è fatto di tanto rimosso: ci dimentichiamo quello che non ci piace. Questo lo sanno i Musei e le persone che lavorano al loro interno. Gli storici e i conservatori che di fronte alla caduta dei regimi raccolgono le testimonianze e non le dimenticano; piuttosto le elaborano. Le raccolgono da terra come fece Mario Bezzola, conservatore della Galleria d’Arte Moderna di Milano, che raccolse le opere cadute dai piedistalli nel momento della caduta del regime fascista. Le raccolgono e le mettono nei depositi.
Le opere nei musei dormono, in una sola apparente indifferenza, non come quella dell’uomo che dorme di George Perec, un uomo che non ha «nessuna gerarchia, nessuna preferenza. La tua indifferenza è piatta: uomo grigio per cui il grigio non evoca nessun grigiore. Non tanto insensibile, quanto piuttosto neutro […] Adesso sei l’anonimo padrone del mondo, quello su cui la storia non ha più presa, quello che non sente più la pioggia cadere, che non vede più venire la notte» (Perec, 2009). Le opere nei depositi sono conservate in attesa di raccontare la loro storia, all’interno di un nuovo percorso narrativo, all’interno di un racconto in potenza. Non dialogano ancora all’interno di un racconto ma sono presenti in fila, ordinate una a fianco dell’altra, con la loro carta d’identità in mano nell’attesa che qualcuno assegni loro un ruolo all’interno di una recita, di un pensiero esposto. Se la museologia studia i rapporti tra le opere d’arte e la società, in questo articolo mi interessa costruire un percorso tra le opere d’arte custodite nei depositi e il modo che ha la società di ridare loro un senso.
Specialmente ora che i musei sono aperti solo a singhiozzo, non esiste quasi più differenza tra sala espositiva e deposito in quanto tutto è temporaneamente ad una distanza sensibile. «I monumenti sono così palesemente irrilevanti. Nulla in questo mondo è più invisibile di un monumento» (Robert Musil). L’aforisma di Robert Musil ha assunto nuova visibilità in questi ultimi anni grazie alla furia iconoclasta dei movimenti di protesta antirazzisti come il “Black Lives Matter”. Questi gruppi hanno messo in luce i significati di molti dei monumenti che popolano le nostre piazze, hanno reso visibili quei significati che il monumento manteneva all’ombra di sguardi troppo distratti, troppo abituati a confondere le sculture come semplice sfondo senza alcun significato. I monumenti, grazie alla rinnovata attenzione portata dalle proteste, hanno recuperato una funesta visibilità presentandosi non più come semplici sculture, ma come testimoni oculari del loro complicato significato.
Con questo intendo richiamare il saggio di Peter Burke «che nella sua introduzione sulla testimonianza delle immagini scrive che “gli storici non prendono ancora abbastanza sul serio il valore documentario delle immagini” parlando di una ”invisibilità del visivo”» (Burke 2002). Nel suo saggio è chiaro il riferimento alle immagini nello studio dei periodi più bui della storia delle civiltà. Invita gli storici dell’arte a porre attenzione non ai soli documenti testuali ma a riconoscere il significato storico che le immagini portano con sé. Lo storico e critico d’arte Riccardo Venturi in un articolo per Doppiozero scrive che «le statue e i monumenti pubblici sono come i semafori, come gli spartitraffico: fanno parte dell’immagine di una città, di un paesaggio urbano efficace quanto più passa inosservato […] Finché un giorno, vuoi per un cambio di mentalità e sensibilità, vuoi per contingenze socio-politiche, vuoi per la natura intrinsecamente storica del nostro sguardo, ci si mette a guardare meglio, a osservare per la prima volta. E ci si rende conto che quell’elegante signore d’altri tempi non è un rispettabile avo, un nonno baffuto in posa come in un’ingessata foto di famiglia, ma un soldato arcigno col pastrano e il fucile» [1].
I musei nel loro complesso sono i luoghi deputati a conservare la memoria della civiltà, contengono tutte le possibili narrazioni che assumono un ruolo preciso, singolare, nella dimensione narrativa delle sale espositive. Il museo nel momento in cui espone rivela i contenuti. Ma in quello stesso momento nasconde, mette nell’ombra tutti gli altri possibili significati. L’esposizione museale mostra una selezione di opere rivelando tra tutte una delle possibili narrazioni che si legano alla storia di ciascun oggetto. Allo stesso tempo nasconde parte dei suoi significati all’interno dei propri depositi. Nasconde a volte anche a se stesso le opere d’arte in quanto non vuole “ricordarle” all’interno degli archivi, dei propri cataloghi. Ciascun oggetto è in relazione con gli altri e ciascun oggetto ha significato in relazione all’intera collezione e alle collezioni degli altri musei. Tutto prende significato dal sistema che lo contiene in relazione alle comunità che frequentano il museo.
Fotografie, immagini, pitture, sculture sono dei potenti mezzi che si offrono per costruire la storia dei fatti della nostra storia ma anche per approfondire i temi della cultura materiale. Offrono aspetti apparentemente meno importanti per comprendere le dinamiche tra le nazioni, ma utili anche solo per comprendere la storia della tecnologia, degli scambi commerciali, dei ruoli nella società. Occorre sempre fare attenzione a contestualizzare gli oggetti nel periodo nel quale sono stati prodotti perché le immagini hanno spesso significati allegorici. Per questo è importante conservarli e studiarli, perché solo grazie a questa cura si possono rendere visibili i possibili significati. Siamo abituati alle sale espositive dei musei ma non ci rendiamo conto dell’importanza che hanno le aree di deposito, quella parte di collezione non esposta e che di rado si apre al pubblico. In fondo una mostra è come una fiction: vediamo il risultato di un montaggio, la perfezione di un ragionamento. Non vediamo i tentativi, i lapsus, le cancellazioni. Solo nei docufilm, genere di successo in questo periodo, si mostrano anche i lati deboli della produzione.
Ogni oggetto ha una sua biografia in relazione al contesto.
Parlare di oggetti e di depositi aiuta la comprensione del ruolo sociale del museo e del suo deposito. Ogni oggetto ha un suo singolare percorso di vita, una “biografia” utile a rivelare qualcosa della società in cui è inserito. Gli oggetti contenuti nei depositi museali, con le loro storie, hanno un ruolo nella società che merita di essere accennato. Igor Kopytoff avanzava l’idea che, in analogia con gli uomini, anche gli oggetti abbiano una propria “biografia”, rivelatrice delle caratteristiche della società che li ha prodotti e che li conserva o li dismette. Questa biografia rivela il rapporto degli oggetti con il processo di mercificazione caratteristico del modello economico in cui viviamo, una mercificazione cui il museo si oppone attraverso un processo di appropriazione e sacralizzazione collettiva e individuale degli oggetti. Il museo, in quanto istituzione culturale, è una delle possibili vie di sacralizzazione, il luogo dove l’oggetto prende vita nella sua forma espositiva.
Ciascun oggetto è il testimone oculare del pensiero che ha individuato il curatore all’interno del racconto espositivo per trasmettere una storia di valore per l’intera società, per tutta la cittadinanza. Kopytoff sostiene che la cultura si oppone alla spinta verso questa potenziale, inarrestabile avanzata verso la mercificazione propria della nostra società. Il suo discorso ci interessa in quanto la mercificazione omogeneizza il valore, mentre l’essenza della cultura è la differenziazione; l’eccesso di mercificazione è anticulturale, proprio come tanti hanno visto e percepito. Questa non è una visione monolitica, è essa stessa complessa e quindi fragile; anche la stessa sacralizzazione implicita del museo vale solo fino a quando il deposito è riconosciuto nella sua relazione con la parte espositiva, quando il museo è inteso come un luogo complesso, non monolitico. Proprio come la punta dell’iceberg, il museo non può esistere senza la sua parte sommersa, il deposito.
I depositi museali contengono quindi l’oggetto e la possibilità di riconoscere la sua biografia e di costruire un racconto, come un ricordo che prende forma nella memoria. I depositi sono luoghi più importanti delle stesse sale, perché sono la nostra memoria visiva e tattile, collezione di testimoni oculari del nostro passato che sono custoditi, curati, tutelati e che grazie alla ricerca permettono il formarsi delle narrazioni; metaforicamente è ciò che la memoria fa quando ripropone ricordi: seleziona tra tutte le possibilità alcune utili al momento, dimenticando le altre parti. Non si può ricordare senza dimenticare. Così la mente, così il museo. Pensare di alienare, vendere, gli oggetti contenuti nei depositi equivale a invalidare un intero percorso scientifico che il museo ha costruito, svalutarlo in qualità di merce.
Questa attenzione verso i depositi non è un pensiero condiviso dall’opinione pubblica, dalla politica e da tanta informazione. Il pubblico di tutto il mondo ha spesso espresso rabbia, frustrazione o sospetto nei confronti dei musei che tengono i manufatti fuori dalla vista del pubblico. Ma sono pochi i musei che sono in grado di mettere in mostra la totalità delle loro collezioni, o che addirittura intendono farlo. Sicuramente questo è possibile per piccole collezioni museali, per i piccoli musei espressione di un territorio circoscritto. È impossibile pensarlo per i grandi musei nazionali. L’ICCROM – International Centre for the Study of the Preservation and Restoration of Cultural Property – indica che su un campione di 55.000 gallerie nel mondo, il 95% del patrimonio di un museo si trova in deposito, a fronte di un 5% esposto al pubblico. I depositi sono quegli spazi non riconosciuti come luoghi in cui si svolgono attività molto importanti di tutela, conservazione, restauro e di ricerca scientifica.
Non è noto al pubblico, ma basta entrare al loro interno per scoprire cosa vi accade, quante persone sono impegnate nella ricerca e classificazione. A testimoniare questa importante attività la BBC, con il proprio secondo canale TWO, ha in corso la programmazione di sei documentari intorno alle attività di ricerca del Victoria and Albert Museum, dove restauratori e conservatori mostrano la propria attività intorno ad alcuni oggetti scelti dai curatori dai depositi per presentarli nelle mostre. Viene mostrato l’intero backstage che parte dalla collocazione nei magazzini a tutte le indagini sul materiale e sulla biografia dell’oggetto. Il titolo della serie è “Secrets of museum”[2]. Per questo motivo molti musei hanno aperto i depositi ai percorsi di visita dove gli oggetti sono presentati nella loro moltitudine. Viene così introdotto nel percorso una visione di ciò che è e di ciò che rappresenta un deposito per il museo, non tanto le singole opere ma il deposito in sé come opera totale, la sua attività in continuo svolgimento.
Marta Ragozzino, dirigente storica dell’arte MIBACT, attualmente con incarico di direzione del Polo museale regionale della Basilicata e direttrice ad interim della Direzione regionale Musei Campania, scrive nella presentazione del mostra Blind Sensorium di Armin Linke per Matera 2019 che la mostra offre tra le altre cose di «incontrare, per la prima volta da vicino e senza distinzioni e privilegi disciplinari, gli affascinanti materiali di scavo del fondatore del museo e dei suoi successori, frammenti, reperti, cassette di cocci, finalmente visibili nel loro essere tracce di una storia ancora da scrivere e pur sempre già nostra, radice inesausta di identità in evoluzione. E nei ripiani degli scaffali dove si stratificano e accumulano i materiali scavati, restaurati e da restaurare, interi, frammenti e scarti, Linke ha inserito altri documenti culturali e scientifici necessari per completare il suo racconto che gemma per rimandi e analogie: oggetti archeologici, dipinti, fotografie, libri, documenti scientifici chiesti in prestito alle principali istituzioni culturali e scientifiche del territorio.
Impossibile non pensare al grande Atlante di Warburg, l’idea rivoluzionaria di un sistema aperto che conserva e connette la memoria per via analogica» (Ragozzino, 2019). Le sale espositive sono sempre state il palcoscenico dove cura, tutela e valorizzazione della collezione vanno in scena, vengono messe in mostra attraverso la cura dell’allestimento, dove gli oggetti da muti prendono la parola attraverso la comunicazione di sala. Ma come per la mostra di Matera, il deposito è sempre più palcoscenico a sua volta, per celebrare il lavoro di studio e ricerca, il lavoro culturale che sperimenta nuove forme di narrazione coinvolgenti tutto lo spazio e tutte le persone dell’istituzione museale.
L’opinione pubblica pone tante domande ai musei, a torto o a ragione. Tra le domande più frequenti ci sono quelle relative alla quantità di opere “nascoste” nei depositi.
Perché tanti musei hanno così tante cose che non mostrano?
Cosa succede agli oggetti collocati nell’archivio?
Perché le esposizioni espongono una così piccola frazione delle loro collezioni?
Cosa accade nel backstage del museo?
Perché conservare e spendere soldi pubblici in locali del museo che non servono alle mostre?
Sono domande che leggiamo spesso come critica al museo. Le opere non esposte vengono viste dall’opinione pubblica come opere abbandonate, non come luogo nel quale sono conservate per essere a disposizione di qualsiasi progetto che le coinvolgerà. Dopotutto è anche vero quanto scrivono Mirjam Brusius e Kavita Singh nell’introduzione al loro saggio Museum Storage and Meaning: Tales from the Crypt: «Mentre le guide pratiche e tecniche per l’archiviazione museale sono state pubblicate per decenni, gli studi che esaminano esplicitamente l’archiviazione museale attraverso una lente analitica, teorica, filosofica ed etica sono ancora rari, se non assenti. Nonostante alcune pubblicazioni sull’archiviazione e l’interesse generale e crescente (in particolare per l’antropologia e la storia della scienza) nelle pratiche museali e nei processi che si celano dietro le esposizioni e le mostre nelle gallerie, i settori in rapida crescita della storia dei musei, degli studi sui musei e della storia del collezionismo, che mirano ad analizzare la politica del museo, hanno avuto la tendenza a leggere il museo attraverso la sua esposizione, piuttosto che attraverso la sua capacità di contenere e immagazzinare una varietà di oggetti che potrebbero raramente o mai essere mostrati» (Brusius, Kavita, 2018, p. 35).
Come entrano i depositi museali nella costruzione dei racconti della nostra contemporaneità?
L’esperienza che il pubblico ha nel museo è quasi sempre e solo legata alle sale museali, il luogo della visibilità. Raramente l’informazione tratta di questioni legate alla conservazione e ne racconta il backstage. La parola backstage richiama subito l’idea del teatro e quindi della scena, un luogo dove un lungo lavoro di preparazione, studio e progettazione prende la sua forma finale e si offre alla visibilità del visitatore. Quella è una costruzione narrativa che verrà giudicata dalla critica in quanto, come tutte le scritture, è soggetta a interpretazione. Come un percorso museale così una scrittura scenica è fatta di scelte, di decisioni prese che altro non fanno se non mettere in narrazione e quindi rendere visibile solo quella parte che interessa. Questo accade nei teatri come nei musei.
La parte espositiva dei musei è offerta alla visibilità per merito delle tante persone che hanno potuto scegliere e studiare i significati, conoscerne le storie, le differenti attribuzioni di significato che gli oggetti sono in grado di produrre. In altre parole hanno potuto ricostruirne la biografia. Una prima causa di questo modo di intendere il museo come luogo della visibilità espositiva si associa direttamente ad una questione simbolica: la redistribuzione simbolica operata attraverso la trasformazione da tesori privati in beni pubblici avvenuta, da collezioni private a collezioni pubbliche. Molti dei musei che visitiamo un tempo erano collezioni private. Tra tutti il Louvre e l’Ermitage, ma pure la Galleria degli Uffizi e la Pinacoteca di Brera. I musei si sono dimostrati dediti ai principi di cittadinanza e democrazia già nel diciannovesimo secolo ed è attraverso la sala espositiva aperta alle visite che la trasformazione da pubblico a privato si rende potente come gesto politico. Poter accedere alle sale e poter guardare le opere, poterle vedere e anche toccare in una dimensione inclusiva è una prova tangibile del grado di democratizzazione raggiunto dalle nazioni nel corso dei secoli.
Anche per questo non si comprende il motivo per cui non mostrare tutte le opere, perché tenerle nei depositi viene letto come un retaggio feudale, come un atto mancato legato al principio di democratizzazione. «Cosa si pensa di un Renoir che finisce in una collezione privata e inaccessibile? O che giace abbandonato nello scantinato di un museo? […] Le biografie degli oggetti possono rendere significativo ciò che altrimenti rimarrebbe oscuro. Per esempio in situazioni di contatto culturale, possono mostrare ciò su cui gli antropologi hanno così spesso insistito: non è così importante che gli oggetti estranei vengano adottati, ma come sono culturalmente ridefiniti e resi utilizzabili» (Kapitoff 2005, p. 81). «L’idea che il museo apprezzi maggiormente ciò che mostra in modo più prominente ha portato a discussioni su ciò che dovrebbe essere esposto e sono state organizzate campagne per fare in modo che i musei riconoscano il lavoro di gruppi svantaggiati – donne artiste, artisti di colore o le conquiste culturali di diversi gruppi etnici – non solo raccogliendo le loro opere ma mettendole in mostra, facilitando il loro inserimento nel canone dell’arte» (Brusius M., Kavita S., p. 18).
L’oscuro del museo.
Ci sono molti luoghi comuni sui depositi museali. I depositi sono universi chiusi, sotterranei polverosi, custodi impenetrabili pieni di tesori nascosti e ignorati, i depositi dei musei sono un mito associato, nell’immaginario collettivo, al sepolto e al mistero. Nell’immaginario il deposito è per i musei quello che per la casa è la cantina: esprime l’essere oscuro della casa, ciò che partecipa delle potenze sotterranee, l’irrazionalità del profondo. Luogo oscuro, prossimo alla terra, posto sovente sotto terra, sotto il livello della strada, il deposito, come la cantina, contiene l’immaginario del riposo. Questo mette in luce come noi intendiamo il museo, come noi crediamo che il museo funzioni. I giornalisti e chi si occupa di politica culturale riconoscono la funzione di un museo alla sola attività espositiva: che svolge il suo compito solo quando mette in mostra i suoi oggetti.
Ma in realtà al fianco dei luoghi comuni del museo ci sono molti spazi reali dove accadono cose. Così come la terra contiene anche il futuro delle piante che cresceranno. È il luogo della semina, della elaborazione e trasformazione di vita futura. Così il deposito è anche il luogo dove il futuro è nella sua dimensione onirica, conserva i semi che lo porteranno a fiorire, a diventare la forma del museo futuro. Ci sono poi spazi che sono legati alla virtualizzazione che trovano origine e vita proprio nello spazio museale. Il museo del quale parliamo è inteso: non è un luogo abbandonato del museo, ma il luogo dove si sperimenta e si innova. Nel mio passato di progettista e ricercatore intorno ai musei devo ricordare il primo lavoro di riordino e l’inventariazione del patrimonio delle opere della Galleria d’Arte Moderna, un progetto di completo riallestimento sotto la direzione dell’allora conservatrice Maria Fratelli, oggi Dirigente Unità Case Museo e Progetti Speciali presso Comune di Milano – Cultura.
In quell’occasione parallelamente alla sistemazione delle collezioni, al loro restauro e all’allestimento di un sistema di allestimento aperto per la visita del pubblico, venne interamente digitalizzato l’intero catalogo delle opere sia delle sale che del magazzino. Tra le opere ricordo che due mi colpirono: una testa in bronzo di Hitler e un celebre busto di Mussolini opera di Wildt. Del busto di Mussolini ce ne sono diverse copie. Celebre è la copia uscita alla ribalta nel 1999, attualmente collezionata da un privato, che mostra visibili i colpi di piccone inferti dopo il 25 Luglio 1943, alla caduta del fascismo. Picconate che sfregiano il volto di Benito Mussolini non ancora Duce. Fu la Sarfatti a presentare l’artista milanese figlio di un portinaio a Mussolini mostrandogli l’opera che Wildt fece senza averlo mai conosciuto personalmente. Il fatto è ben raccontato anche da Antonio Scurati nel suo lavoro M, l’uomo della provvidenza [3].
Il tema non è rimettere in piedi i significati ma comprendere il senso degli eventi storici connessi con la produzione artistica e quindi simbolica. Mussolini si riconosce nelle forme di Wildt. La presenza nella storia di due copie della stessa opera che hanno subito due destini differenti è molto significativa anche del senso del museo per la società: le opere del regime furono salvate dalla distruzione da Mario Bezzola, il conservatore della Galleria d’Arte Moderna non per una sua adesione al fascismo ma in quanto opere d’arte, testimonianza del lavoro dell’artista che interpreta la realtà del suo momento dandogli forma con la materia. Mario Bezzola, artista a sua volta e figlio di artista, con questa azione di salvataggio riconosce all’artista e al suo lavoro creativo sulla materia l’“andare in fondo alle cose” del quale parla Gaston Bachelard nella Poetica della Réverie.
Questo è uno tra gli episodi che si è aperto ai miei sensi nei depositi della Galleria d’Arte Moderna di Milano e che continua a raccogliere argomenti, tracce, racconti. Nel 2005 l’intera collezione della GAM era stata fotografata, catalogata e pubblicata on line per renderla disponibile al pubblico e agli studiosi. Il database digitale offerto in rete diventa un altro tipo di memoria visibile e visitabile. Da un lato, le banche dati digitali rendono visibili le collezioni di riserva; d’altra parte, la disponibilità di immagini digitali ha reso la possibilità di studiare effettivamente l’originale, opzione più difficile da ottenere. I custodi dei musei sono riluttanti a ritirare gli originali dal magazzino, con i relativi rischi inerenti al loro trattamento, quando gli studiosi o il pubblico curioso possono esaminare immagini ad alta risoluzione su Internet.
In altre parole, l’archiviazione digitale guida gli oggetti in un’archiviazione fisica più profonda. L’immagine virtuale diventa l’alternativa più semplice, economica e sicura alla manipolazione dell’oggetto originale e il virtuale circola mentre l’oggetto originale rimane nel caveau. Se ha senso parlare della rappresentazione nel virtuale non è per creare immagini dinamiche interattive delle sale ma pubblicare il catalogo in alta qualità per lo studio delle opere. L’accesso virtuale promette in molti casi per chi studia un forte risparmio economico, più conveniente, per raggiungere un raggio d’azione che interessa il globo e per “democratizzare” l’arte.
Come scrive Mirijam Brusius «l’era digitale cambia il modo in cui le persone raccontano storie – e la gamma di persone che possono raccontare storie – sugli oggetti immagazzinati e su come vengono compresi. Ma la digitalizzazione delle collezioni museali non rende necessariamente gli oggetti più “democratici”». I musei con i maggiori fondi per la digitalizzazione e siti web elaborati popolano il dominio digitale con i loro oggetti, e i loro oggetti continuano a dominare il canone. Inoltre, le riproduzioni non muovono necessariamente gli oggetti o anche i loro doppi virtuali alla portata di un pubblico o di uno studioso. Con tariffe elevate, la digitalizzazione può forse essere descritta come una nuova potenza economica nella museologia. L’archiviazione digitale ha anche sollevato questioni difficili relative ai vantaggi di mantenere costose strutture museali. Se sono presenti archivi virtuali, dobbiamo conservare gli oggetti fragili o dovremmo consentire loro di deperire dato che abbiamo tutte le fotografie ad alta risoluzione di cui potremmo aver bisogno? La copia digitale potrebbe eventualmente influenzare lo stato o il futuro dell’oggetto originale?
Poiché l’accesso agli oggetti virtuali diventa più facile e meno costoso anche per il museo, questo potrebbe voler utilizzare le immagini del proprio oggetto in mostre virtuali, su siti Web o anche nelle gallerie stesse. La copia digitale potrebbe sostituire l’originale. Ma questo andrebbe contro a un principio di accessibilità universale e ai principi dell’inclusione. Un giorno i musei potrebbero rimpiangere l’investimento che hanno fatto nel settore digitale, se ciò andasse a discapito dell’attenzione prestata agli oggetti stessi. Nonostante tutte le sue promesse di economia, mantenere i database digitali non è poco costoso, né è stabile o durevole. I server che contengono i materiali hanno costi elevati e viene comunque e sempre richiesta la possibilità di accedere in qualsiasi momento alla banca dati.
Conserviamo storie
I depositi contengono la potenza narrativa del museo europeo.
L’idea di museo è nata in Europa e si è alimentata di collezioni che arrivavano dal mondo intero. A differenza dei musei extra europei, la logica collezionista (non patrimoniale) porta i Musei a essere responsabili di un patrimonio inalienabile, eredità storica e identitaria: le collezioni devono essere preservate nella loro unitarietà, ogni singola opera è considerata non solo come esito di un gusto artistico ma anche come testimonianza storica, a prescindere dal valore estrinseco. Questo fa sì che vengano conservate anche opere scomode, opere testimoni di narrazioni che non sono più correnti. Il deposito di un museo moderno è il risultato di una selezione fatta dai direttori e dai curatori, che riflette lo stato della storia dell’arte e i suoi racconti in un dato periodo. Contrariamente alla percezione popolare, molti oggetti nelle collezioni dei musei sono destinati a non essere mai mostrati durante la loro vita museologica.
Si tratta di oggetti che sono stati giudicati degni di essere collezionati ma che sono stati allo stesso tempo giudicati indegni di essere esposti. Come può un oggetto essere abbastanza importante da essere acquisito da un museo, ma non degno di essere mostrato al suo pubblico? Una situazione del genere può verificarsi per molte ragioni. Alcune cose potrebbero essere state acquisite accidentalmente, come oggetti minori che si presentano negli scavi archeologici e vengono accolti insieme ai reperti principali. Alcuni potrebbero essere duplicati di articoli già in mostra. Alcuni oggetti possono far parte di collezioni donate, che il museo è stato “obbligato” ad accettare nel suo insieme, e quindi deve preservare per un obbligo legale o un senso di gratitudine, ma non sono considerati degni di essere messi in mostra.
Alcuni oggetti potrebbero essere giudicati moralmente o socialmente sensibili e potrebbero essere raccolti dal museo ma conservati per essere esaminati da pochi eletti. Altri oggetti possono restare nascosti in un deposito a causa delle circostanze screditate della loro acquisizione coloniale. Una volta raccolti con entusiasmo dai musei, questi oggetti ora diventano imbarazzanti ricordi di un tempo passato e sono destinati a vivere nel deposito come serbatoi di conoscenza dimenticata. In ultimo le precedenti culture espositive nei musei di storia naturale potrebbero non essere più considerate abbastanza moderne, minando tassonomie consolidate.
Storie/racconti
«La nostra tattica fondamentale di autoprotezione, di autocontrollo e di autodefinizione non è quella di tessere ragnatele o costruire dighe, ma quella di raccontare storie, e più in particolare di architettare la storia che raccontiamo agli altri, e a noi stessi, su chi siamo» (Dennet 1991, pag 464). Lo facciamo a partire dalla nostra capacità di mettere in relazione le tracce che ci hanno preceduto. La nostra è una cultura prevalentemente testuale, apprendiamo sulle tracce di filosofi e storici, letterati che attraverso la parola ci portano a conoscenza della storia del nostro passato. Ma oltre agli archivi dei grandi pensatori le nostre città hanno proprio nei depositi museali testimonianze tangibili, visibili e sensoriali del nostro passato: oggetti e opere d’arte capaci di rispondere alle domande che ci facciamo. Sarebbe difficile scrivere sulla preistoria europea senza tenere in considerazione i dipinti rupestri di Altamira e di Lascaux o di Chauvet, così come scrivere della storia dell’antico Egitto sarebbe sicuramente meno potente senza affiancare al racconto la testimonianza delle pitture tombali.
La narrazione si nutre delle testimonianze visive, la alimenta. In entrambi i casi europei, le immagini offrono virtualmente le sole prove relative a pratiche sociali quali la caccia. C’è chi vi legge motivazioni rituali, chi artistiche. Sicuramente sono documenti, rappresentazioni di ciò che hanno visto le persone e hanno trasmesso in forma di rappresentazione, documento. Le grotte sono state scoperte e non sono spostabili ma oggi non sono visitabili, sono diventate il deposito di un museo che le rende visibili in una forma virtualmente riprodotta in spazio fisico: un modello in scala naturale che espone una copia contenuta in un edificio pensato come scena, come teatro. Solo agli studiosi è permesso visitare il “deposito” del museo, la vera grotta scavata dall’acqua dal Pleistocene ad oggi e che che contiene l’unico originale. I depositi museali sono dei contenitori di tessere dai diversi colori e dai diversi significati che attendono di essere ricomposti, risignificati.
Ma va anche detto che le immagini e gli oggetti conservati non sono state create, almeno per la maggior parte, pensando agli storici a venire. Chi le ha create aveva i suoi interessi, i suoi messaggi. “L’interpretazione di queste immagini si lega a due termini apparentemente sinonimi, ma da considerare distinti: l’iconologia e la l’iconografia”. Non è questo il luogo per entrare nella distinzione tra i due termini ma è importante comprendere come questo tipo di pensiero abbia la sua origine a partire dal deposito museale, il luogo nel quale è possibile decidere la strada da prendere per costruire il racconto, pensare a quale curatela seguire per costruire un qualsiasi progetto espositivo. Senza la conoscenza della collezione, dei significati e delle possibilità di lettura non è possibile dare forma ad alcuna forma espositiva. Qui si comprende come quel cinque per cento esposto sia sostenuto scientificamente e narrativamente da una serie di cose che non trovano parola ma che hanno in quella scelta la propria ragione di essere.
Una esposizione chiama quasi sempre l’idea che ogni oggetto esposto abbia una sua singolarità, sia cioè differente dagli altri perché assume un suo preciso ruolo all’interno del racconto scenico della mostra. Ma nei musei ci sono spesso numerosi esemplari del tutto simili o solo in parte differenti. A un primo sguardo si potrebbe pensare che quella moltitudine di variazioni potrebbe anche essere abbandonata in vista di un risparmio conservativo. Ma anche il dato della serialità assume un valore in relazione al fatto che nei confronti della copia unica siamo naturalmente portati a pensare che abbia maggiore valore. La dialettica tra serialità e unicità dell’opera trattata da Walter Benjamin si ripropone costantemente. Ma per chi studia e fa ricerca sulle opere questo non è necessariamente elemento che mina l’aura delle opere o dei materiali conservati. È attraverso l’interpretazione e quindi attraverso un sapiente riconoscimento studio e attribuzione di significati che le immagini prendono la parola le immagini ci dicono qualcosa e in un certo senso è così: le immagini sono state concepite per comunicare. In un altro senso però le immagini non ci dicono nulla, sono irrimediabilmente mute. Per dirla con Foucault «ciò che vediamo non risiede in ciò che diciamo» (Michel Foucault).
Iconoclastia e memorizzazione
Questo testo aveva uno scopo: ragionare sul ruolo che hanno i depositi all’interno della nostra società contemporanea, in questo tempo presente segnato da una parte da una pandemia che ha chiuso tutti i musei e dall’altro da un fenomeno molto chiaro di iconoclastia nei confronti di monumenti che sono espressione di un retaggio coloniale. Come detto in principio queste condizioni portano a porre attenzione anche agli oggetti collezionati, alla grande massa di cose contenute e alle loro biografie che richiamano significati. Il secondo motivo riguarda invece l’idea che il deposito è in continua espansione in quanto la società continua a produrre nuove immagini, nuove cose, nuovi prodotti che entrano nel processo di sacralizzazione e cioè vengono musealizzati. Non c’è attività dell’uomo che non produca tracce di sé, che non produca documenti di qualsiasi natura che diventano esse stesse immagini, oggetti del museo vengono cioè culturalmente ridefiniti e resi utilizzabili per fini culturali. Dopotutto il museo non è un’idea astratta stabile ma è in continua modificazione in quanto sempre attento alla dimensione relazionale, cioè in dialogo con la comunità che lo sostiene.
Una comunità che a sua volta segue le spinte del tempo e che prende parte ogni qualvolta ci sia motivo di farlo in un continua dialettica tra iconoclastia e memorizzazione. «Una delle caratteristiche più paradossali degli eventi iconoclastici che la guerra, ogni guerra, comporta, è senza dubbio la stretta relazione che essi instaurano con il processo di memorializzazione. Iconoclastia e memoria sono, in effetti, già compresi nel concetto stesso di conflitto e ne costituiscono i margini opposti, i due dispositivi fondamentali attraverso i quali ogni guerra si incardina nella storia. L’idea tuttavia che il processo, da un lato, di distruzione delle immagini e, più latamente, di censura di uomini e cose, e quello, dall’altro, di affabulazione, giustificazione e creazione di un senso degli eventi bellici, che possa essere mantenuto di generazione in generazione e tesaurizzato nel tempo, siano di per sé antitetici è un mito concettuale, necessario, forse, sul piano retorico ma sul quale la storiografia si è spesso troppo comodamente adagiata» (Versari 2016, p. 109).
Maria Elena Versari è Visiting Professor of Art History alla Carnegie Mellon University. Normalista, ha studiato a Pisa e all’Università di Ginevra. Attraversa archivi, depositi riconnettendo le relazioni lacerate dal tempo, ricostruendo i percorsi che le cose conservano. Quanto riportato è l’introduzione a un saggio che tratta il ritrovamento nel 2013 di una collezione di oggetti all’interno della scantinato dell’archivio di stato di Forlì e la cui provenienza non era documentata. Il suo lavoro di ricerca non si è esaurito all’interno dell’istituto ma l’ha portata all’interno di altri archivi. La scoperta è significativa per diversi aspetti: «In primo luogo, ci rivela l’identità problematica che questi oggetti assunsero durante e all’indomani della guerra, agli occhi dei primi governi post-fascisti in Italia. In secondo luogo, ci costringe a riconsiderare i criteri finora usati nello studio della propaganda e della cultura di massa durante il fascismo.
Gli oggetti rinvenuti portano alla ribalta un tema per nulla studiato finora, e cioè quella produzione spesso minore, di oggetti creati per essere donati al dittatore non solo da privati cittadini, ma anche da imprese commerciali e associazioni grandi e piccole»(Versari 2016, pag 112). Gli oggetti dei quali tratta fanno parte della collezione di Mussolini presenti alla rocca delle Caminate e Villa Carpena all’epoca della caduta del regime. Tutti gli oggetti sequestrati, ritrovati o mancanti, erano per lo più di limitato valore artistico e commerciale. «si tratta di doni ricevuti dal dittatore da privati, municipalità, piccole aziende e associazioni. la maggior parte proveniva dalla rocca delle Caminate, mentre solo 5 su 25 da Villa Carpena» (Versari 2016, pag 113).
Non siamo di fronte al caso della GAM di Milano dove l’iniziativa del conservatore, senza aver ricevuto alcun ordine, permette di salvare opere d’arte che testimoniano non solo una ricerca artistica di qualità ma anche il valore documentale – non solo simbolico – che quelle opere conservano al loro interno. I fenomeni iconoclasti sono già presenti in Italia il 25 Luglio 1943, con la caduta del regime fascista e il passaggio del potere dalle mani di Mussolini alle mani di Badoglio. A fianco di quelli i furti delle opere d’arte. Chi ha potuto ha sottratto le opere di maggiore valore. Questi fatti sono stati largamente riportati nei resoconti storici, ritroviamo infatti anche una serie di prese di posizione legislative rivolte a gestire su un piano ufficiale ciò che rimaneva del Fascismo. Ma la più generale incapacità, anche in epoca repubblicana, di gestire la dimensione simbolica ha prodotto che il patrimonio di opere laddove non è stato oggetto dell’iconoclastia sia caduto nell’oblio.
Solo immagini
Se si trattasse di solo immagini Mario Bezzola, alla caduta del fascismo non si sarebbe preoccupato di conservarle.
«In realtà, la distruzione delle immagini si realizza sovente come processo di produzione di nuove immagini» (Koerner, 2002, p. 22).
Quest’ultima è la tesi che Bruno Latour difende nella mostra Iconoclash, organizzata allo ZKM di Karlsruhe nel 2002, dove sostiene che le immagini sono comunque sempre necessarie e vietarle non sarebbe altro che un modo per crearne di nuove. Nella sua mostra Bruno Latour tratta della capacità delle immagini di scatenare passioni che nel corso della storia si sono spesso tradotte in forme più o meno violente di distruzione delle immagini stesse. «Il termine che usiamo abitualmente per descrivere questi fenomeni – che storicamente hanno avuto una serie di importanti risvolti di carattere religioso, politico e artistico – è iconoclastia (letteralmente: distruzione delle immagini), ma alla radice di ogni furia iconoclastica c’è, secondo Latour, la tendenza costante a considerare le immagini come terreno di scontro, come fulcro di un qualche tipo di iconoclash. Dalle dispute sullo statuto delle icone nel mondo bizantino alla furia iconoclasta· che accompagna la Riforma luterana» (Latour, p. 287).
Le immagini sono dei potenti conduttori di significato e hanno il valore di intermediazione. Non possiamo vivere senza immagini, senza intermediari, senza mediatori di qualsivoglia forma o natura, dal momento che questo è l’unico modo che abbiamo per avere accesso a tutte le nostre credenze che siano legate a un Dio, alla Natura, alla Verità o alla Scienza. Per immagine intendiamo ogni segno, opera d’arte, inscrizione o immagine materiale, che funge da mediazione per accedere a qualcosa d’altro che genera una passione. L’iconoclastia è prova di fede, l’estrema prova della validità della fede, della scienza o dell’acume critico o della creatività artistica di qualcuno e per taluni l’estrema forma di religiosità. Per chiudere, il deposito museale conserva per mantenere e custodisce anche le immagini che un determinato tempo non sa come spendere non sa come mostrare. Ma l’importante è sottrarre sia dall’iconoclastia che dall’oblio. Attraverso il deposito il museo conserva per ricordare, per mantenere vive le parole di natura visuale che possono sempre essere rilette per creare nuove mappature del presente, per superarlo e per non ripetere gli errori passati.
Note
[1] Per approfondire il tema si veda l’articolo sul sito Doppiozero
[2] Secreats of the Museaum
[3]Secreats of the Museaum
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Fabio Fornasari costruisce dispositivi per mostrare e raccontare storie di valore all’interno di progetti e installazioni museografiche e ambienti di apprendimento. Tra queste Museo del Novecento Milano (con Italo Rota) e Museo Tolomeo (con Lucilla Boschi). Sviluppa progetti che hanno una dimensione di relazione: coinvolgono il pubblico all’interno di dinamiche di interazione cognitiva e sensoriale. A fianco di psicologi e pedagogisti sviluppa modelli educativi di frontiera in diversi centri di ricerca.