Prima avvertenza: useremo la parola “educazione” per essere comprensibili e utilizzare un codice comune. Lo stesso vale per la parola “scuola” e per la categoria inventata recentemente di “infanzia”. Tuttavia, vogliamo che chi legge sappia che al posto di “educazione” preferiamo la parola “relazione” e al posto di “scuola” la parola “tempo libero”. Seconda avvertenza: scriviamo questo articolo allineandoci alla convenzione della lingua italiana secondo la quale, per denotare un gruppo di esseri umani o di cose di genere misto si usa il genere maschile. Lo facciamo per rendere scorrevole la lettura ma siamo consapevoli che anche questa riflessione è connessa alla questione della colonizzazione dei nostri corpi e delle nostre menti da parte di alcuni paradigmi che potrebbe essere utile disimparare.
1. L’educazione è una pratica per felicità non addomesticate
«Tutti i bambini […] hanno diritto
di essere felici fin dai primi giorni di vita»
Mario Lodi
La felicità umana, come ogni possibile umanizzazione dell’esistenza, è fuori dal dipinto politico di una società che cerca nell’educazione la coltivazione di fiori artificiali. Nonostante quegli stessi fiori rassicurino il nostro sguardo con un illusorio respiro, essi sono semplicemente la facciata esteriore della nostra presunta evoluzione di specie. E non sta neanche al livello successivo di una pianta d’appartamento adattata per estetica a un ambiente artificiale che modifica la sua stessa ragione d’essere. La pianta della felicità è prima tutto essa stessa un corpo che ha bisogno di far muovere le sue radici nella terra, che ha necessità di stare in dialogo con il vento, di essere bagnata dalla pioggia, di sentire i cambiamenti delle temperature atmosferiche.
È un corpo che accompagna altri corpi in un delicato processo di conoscenza umana, che sta dentro a un tempo storico che conserva una visione dell’umano da controllare e dominare. L’educazione abita una casa a cielo aperto in cui ogni corpo ospitato è accompagnato nella sua profonda necessità di andare verso qualcos’altro, uscendo dalla propria individualità e separatezza. Eppure la cosiddetta educazione, quella istituzionalizzata e quindi riconosciuta come tale, è abbondantemente intrisa di ideologie autoritarie che non contemplano approcci di politiche sociali, locali e planetarie capaci di generare pratiche che possano dare adito ad azioni liberatorie e umanizzanti del corpo.
Si ritrova strumento per un corpo s-oggetto da allontanare, dividere, bloccare, immobilizzare, neutralizzare, dominare, disattivare, escludere, amministrare, normalizzare, normare. Potremmo andare avanti con un lungo elenco di parole che esprimono la primaria e tacita condizione in cui il nostro corpo è coinvolto fin dai primi anni della nostra vita, in quel lungo processo di crescita che da quando veniamo al mondo ci vede rimbalzare dentro a sovrastrutture stereotipate verso l’obiettivo universalmente inteso: diventare buoni cittadini. O meglio, per precisione, efficienti s-oggetti lavoratori.
Ti invitiamo qui ad ascoltare la traccia audio numero 1.
Quella che hai appena ascoltato è una versione del periodo perinatale di un essere umano che, per quanto inusuale alle nostre latitudini e nel nostro tempo, è prevista dal nostro codice genetico e dalla nostra natura più primordiale, più profonda e antica. La nostra natura di mammiferi prevede questo tipo di accoglienza e accudimento nei primi anni di vita[1]. Quello che avviene più spesso nel nostro tempo e alle nostre latitudini è che da quando il nostro corpo lascia quella prima casa che è il corpo materno inizia un viaggio non deciso da noi di cui qualcuno, a nostra insaputa, ha già preparato un itinerario verso una precisa meta. E questo punto di arrivo ci introietta costantemente questo bisogno di stare fuori da noi stessi, fuori e distanti da ciò che il corpo esprime o ci comunica. Sempre in avanti, tesi verso qualcosa che è in un altro tempo, mai nel presente.
È come se l’esperienza umana dovesse essere una sorta di galleggiamento in uno spazio liquido che ci contiene e non ci permette mai di muoverci, di trasformare questa condizione. Mentre quel galleggiamento del nostro corpo nel liquido amniotico ci stava formando alla vita, una volta immersi nella vita ci viene proposta una condizione di inerzia e sospensione che però non ci conduce a una trasformazione. Siamo sicuri che questo viaggio che il nostro corpo compie da quel delicato momento in cui lascia il corpo materno, per andare in cerca della propria casa nel mondo, debba avere una meta così prefissata? Non potrebbe essere nel percorso, nella sua capacità di perdersi, l’opportunità di quel corpo di trovare la sua strada? O forse il corpo stesso potrebbe essere già strada. In molte culture primitive l’atto del perdersi, di condurre il corpo in uno stato di disorientamento è strettamente connesso alla consapevolezza che serve per diventare grandi.
«Perdersi significa che tra noi e lo spazio non c’è solo un rapporto di dominio, di controllo da parte del soggetto, ma anche la possibilità che sia lo spazio a dominare noi. Sono momenti della vita in cui impariamo ad apprendere dallo spazio che ci circonda […] non siamo più capaci di dare un valore, un significato alla possibilità di perderci. Cambiare luoghi, confrontarsi con mondi diversi, essere costretti a ricreare in continuazione i punti di riferimento, è rigenerante a livello psichico, ma oggi nessuno consiglia un’esperienza simile. Nelle culture primitive invece se uno non si perde non diventa grande. E questo percorso viene agito nel deserto, nella foresta, i luoghi sono una specie di macchina attraverso la quale si acquisiscono altri stati di coscienza» (La Cecla, 2000).
2. Prosperità ed eros
Nell’immaginario di un corpo che abita un nuovo paradigma educativo, “felicità” e “contemplazione” si incontrano in una forte reciprocità simbolica. L’etimologia fa derivare “felicità” da felicitas, deriv. felix-icis, “felice”, la cui radice “fe-“ significa abbondanza, ricchezza, prosperità. Dall’altro “contemplazione”, ricondotta comunemente a un atteggiamento di passività dello sguardo del corpo, riporta invece nella sua radice etimologica a un atto di prolungata insistenza dello sguardo di fronte a una fonte di meraviglia richiamando l’azione del cielo nel tentativo di trarre qualcosa dal proprio orizzonte. Cosa contempla il nostro corpo nella ricerca di questa ricchezza? Cosa è in grado di vedere il corpo con il suo sguardo?
Per contro il pensiero capitalistico sempre più escludente chiede ai corpi di incarnare un costante bisogno di qualcosa di esterno da sé, prevalentemente materiale, che consegna all’atto contemplativo una dimensione di passività e confinamento. Tornare nel corpo, attivare processi di interiorizzazione dell’ascolto di sé e del grande potenziale racchiuso nel nostro corpo collettivo, significa riconoscere che quell’abbondanza e quella ricchezza si trovano proprio nel corpo. Significa mettere in discussione il concetto stesso di desiderio che nella nostra cultura si esprime solo in presenza di un oggetto, monopolizzando la centratura e l’ascolto di ciò che è desiderio connesso a un bisogno autentico. Che ruolo hanno bisogno e desiderio nel nostro corpo? Dedicarsi a un’economia della felicità può tradursi nel creare le possibilità per liberare prima di tutto il corpo infantile da tutte le reti di sorveglianza che ne impediscono la sua spontanea e naturale espressione.
È nell’osservazione di questo corpo libero nell’infanzia che si può rintracciare un’innata metodologia d’apprendimento che risponde perfettamente alla natura della nostra specie umana e che trova la sua massima espressione nella relazione amorosa e incondizionata per la vita. Nel corpo libero, nel selvatico, si placa quella irrequietezza originata su banchi e divani che, con un abbraccio soporifero, accolgono le membra bramose di vita dei bambini. Nel corpo libero e felice vibra lo slancio congenito, ferino, silvano dei bambini, creature dentro le quali pulsa indomito il desiderio sensuale di conoscenza del mondo e di ritorno alla natura, che non è meramente un luogo da visitare in escursioni e gite, ma uno stato che sgorga direttamente da dentro.
Quel desiderio sensuale è erotico poiché l’eros è la spinta vitale, l’energia che ci muove a conoscere il mondo e fonderci con esso. Fare l’amore con tutto ciò che incontra è la modalità principale con cui un bambino in età primale conosce il mondo fuori di sé. Eliminare l’eros dai contesti educativi equivale a eliminare la parte più viva di noi. Cancellare l’eros dalla vita equivale a inibire la fecondità, la rigenerazione, il piacere e la prosperità insite nell’esistenza stessa. E possiamo ben vedere attorno a noi gli effetti dell’obliterazione dell’eros.
I bambini nascono non addomesticati.
Sono creature istintive, in contatto profondo con il proprio nucleo vitale.
Sanno esattamente di cosa necessitano, ne sono indomitamente consapevoli.
Vengono al mondo con la stessa sapienza analfabeta propria degli animali selvatici, che si riproducono, si nutrono, si muovono lungo precisi sentieri, si riparano mossi unicamente dalla propria natura. Hai mai osservato un capriolo, una poiana, un serpente in natura? Sono creature fieramente belle senza mai essersi guardate allo specchio, naturalmente dotate di un senso di autoprotezione della propria libertà, agili e forti, pudiche e spregiudicate, guardinghe e lungimiranti, in totale armonia con il dispiegarsi della propria esistenza.
Proprio come i bambini. Proprio come tutti noi quando siamo venuti al mondo. Come i nostri corpi, che hanno ancora impulsi selvatici: reagiscono, si attivano e disattivano, vibrano e funzionano secondo le istruzioni originarie.
La natura ha miriadi di forme di espressione. L’essere umano è una di queste.
3. Sulla cattività
«Per centinaia di migliaia di anni la natura selvatica dell’orso si è evoluta per tramandare il suo impulso a vagare a volontà su un territorio di centinaia di chilometri quadrati. Quando un orso viene messo in una gabbia, cammina avanti e indietro finché le sue zampe non sanguinano. Le zampe sanguinanti raccontano una storia, se la si vuole ascoltare: una storia di ampi spazi aperti, di fiumi scroscianti che pullulano di pesci, di larve che si contorcono sotto le pietre nel suolo umido, del profumo di mirtilli selvatici portato per miglia dal vento. Alcuni animali riescono a vivere in gabbie. Scoiattoli, ratti, piccioni e gabbiani si adattano e prosperano in quasi tutte le condizioni, non importa quanto lontano dalla loro natura originaria […] Ma altri animali selvatici non possono adattarsi; diventano disfunzionali, traumatizzati. Camminano fino a far sanguinare le zampe, rigurgitano il cibo, si strappano la pelliccia o le piume. Diventano aggressivi e paurosi in maniera anormale. Oppure si ammalano e muoiono.
Così salta fuori che alcuni dei nostri figli sono più simili a piccioni e scoiattoli, e alcuni sono più come gli orsi. Alcuni di essi si adattano alle pareti istituzionali che mettiamo loro intorno, e alcuni di loro camminano fino a far sanguinare le loro zampe. Il sanguinamento di questi bambini, se lo ascoltiamo, ci può raccontare molte storie su noi stessi. Il ragazzo sedato con un farmaco ci racconta una storia di foreste piene di alberi per arrampicarsi, fiumi per nuotare e pagaiare, grandi prati su cui correre. La ragazza che lentamente si lascia morire di fame ci racconta di una famiglia e un clan in cui l’accettazione è un diritto di nascita piuttosto che qualcosa per cui competere con sottigliezze e buoni voti. I bambini che picchiano, che sfidano al punto di autodistruggersi, ci raccontano una storia di libertà dal controllo autoritario, da piccole ricompense e punizioni, da una sorveglianza e una valutazione infinite. I bambini che si rivolgono alla droga ci parlano di sentimenti di calore, di energia, di intimità e di pace che non trovano nella loro vita fatta di lavoro programmato e competitivo senza fine» (Black, On the Wilderness of Children).
Ora è tempo di ascoltare la traccia numero 2, dal taccuino di Debora.
4. Fuori dal paradigma coloniale
Nel concetto di “decolonizzazione” la parola “coloniale” indica ciò che sostiene a livello intellettuale e pratico il nazionalismo, il progresso, la produttività, la competizione, la supremazia bianca, cristiana, occidentale e patriarcale. Poiché il trauma vive nel corpo, la decolonizzazione è una pratica di guarigione situata sia nel nostro corpo individuale che nel corpo culturale. Ci sono desideri, emozioni, sensazioni e storie (a volte traumatiche e spesso non conscie e/o non elaborate) raggrumate nei nostri corpi che influenzano ciò che apprendiamo e come lo apprendiamo. Questo a livello intimo. I nostri corpi sono anche luoghi in cui i paradigmi dominanti vengono riprodotti nelle nostre comunità di apprendimento. Tali paradigmi si sono insinuati nei nostri corpi e in tutte le nostre relazioni, spesso mettendoci gli uni contro gli altri o producendo attrazioni non sane. Questo è il livello collettivo.
C’è un legame metaforico tra il corpo singolo e quello collettivo. La somatica culturale vede le culture come corpi collettivi con sistemi nervosi completi che emergono da reti di relazioni complesse. Proprio come il trauma individuale può essere ereditato epigeneticamente dai nostri antenati, così possiamo ereditare anche la composizione genetica delle risposte al trauma collettivo che si normalizzano nella cultura nel corso delle generazioni. Le produzioni culturali del trauma sono simili a quelle che si manifestano nei nostri corpi fisici, come la mancanza di empatia, l’urgenza, l’ipervigilanza, l’individualismo, la contrazione. La nostra guarigione individuale e collettiva sono strettamente connesse.
Adesso ascolta la traccia numero 3 e fai l’esercizio proposto nell’audio. Mentre fai l’esercizio registrati in una traccia audio che ti chiediamo di mandarci alla mail valentina.pagliarani@gmail.com
5. Il corpo nel selvatico e il selvatico nel corpo: educazione come pratica di libertà
«Perchè stai tagliando i fiori ancora belli?”
“Mi porto avanti con il lavoro”
“Ma tagliare i fiori appassiti non significa solo tagliare sporcizia,
significa sopprimere i frutti, dunque i semi»
Gilles Clément, 2011
Nel tempo in cui la socialità vive nella sua stessa assenza e privazione di senso, nominata dentro a uno spazio di vuoto collettivo in cui ogni corpo è stato reso inerte, spettatore oltre che spettacolarizzato, arriva forte il bisogno di tornare nella scuola più antica, autentica e rivoluzionaria; una scuola che richiede movimento e continua trasformazione, che si basa sulla diversità e nel concetto di mescolanza trova la nascita di nuove possibilità per un evoluzione planetaria. Questa scuola è allo stesso tempo luogo e corpo vibrante, è ordine e disordine e contiene in sé il paradigma educativo più sovversivo dell’umano.
Nella nostra lingua questa scuola è chiamata natura. Con natura intendiamo un ambiente non antropizzato, ma comprendente l’umano, in cui il selvatico offre al nostro corpo la possibilità di entrare in relazione con le connessioni e gli equilibri che ci legano alle altre forme di vita sul nostro pianeta. Un corpo che si immerge per un ampio tempo nel selvatico è un corpo che acquisisce, soprattutto nell’infanzia, un complesso sistema di informazioni atte a sviluppare una coscienza ecologica come imprescindibile consapevolezza del nostro essere parte di una struttura di relazioni con tutto il vivente e con le forze trasformative del nostro pianeta.
Quando siamo bambini ogni spazio antropizzato, e quindi fortemente organizzato e prevalentemente adulto-centrico, pone delle questioni poco naturali per il nostro piccolo corpo, che lo sente così contrastante rispetto al suo forte bisogno di esplorare la sua libertà di movimento. Nell’infanzia ogni esperienza selvatica ci riporta in uno spazio nel quale il movimento del corpo permette di interconnettere molteplici apprendimenti e più livelli di conoscenza di sé e del mondo.
Il concetto di selvatico ha spesso un’accezione negativa laddove ci riporta allo stereotipo di ciò che non risponde alle leggi dell’uomo. Un bambino selvatico può essere percepito come un bambino poco educato e che porta poco rispetto alle convenzioni sociali, mettendo apparentemente in crisi tutta una serie di elementi imprescindibili e di norme sociali. Allo stesso modo un ambiente selvatico, come ad esempio un giardino non curato né regolato dall’uomo, è facilmente collegato a qualcosa di poco ordinato esteticamente e perciò genera emozioni legate alla paura, al disordine, a ciò che è difficile far rientrare nella rappresentazione dell’uomo che controlla l’ambiente.
Questo può essere inteso negativamente senza la consapevolezza di una reciprocità con il nostro pianeta ed è in questo spazio di relazione che il nostro essere selvatici nel corpo non significa sottrarsi e stare fuori da una socialità legata all’idea di convivenza. Portare il proprio corpo nel selvatico e dall’altra alimentare il selvatico nell’espressione del nostro corpo (anche quando non è in natura) crea un approccio umano in cui la selvatichezza è proporzionale al nostro porci in relazione con l’Altro e con la complessità che la sua diversità porta con sé. Il selvatico ci accompagna nell’alterità e nella imprescindibile condivisione di uno spazio abitativo, destrutturando il nostro bisogno di essere padroni o principali dominatori di ciò che chiamiamo casa.
In una relazione educativa che considera il selvatico in queste sue multiformi accezioni si attiva un processo di rovesciamento di quel paradigma che considera ogni apprendimento come qualcosa di prestabilito dall’uomo. Un processo educativo teso a questa libertà del corpo genera in ogni bambino un senso di armonia con il mondo, un equilibrio complesso in cui non c’è la supremazia dell’essere umano sulle altre forme di vita e di conseguenza cambia anche la struttura di reciprocità tra l’adulto e il bambino. In un processo di questo tipo l’adulto è decentrato rispetto al suo ruolo di controllo e di potere, e il bambino abbandona il suo essere esclusivamente soggetto da educare. In questa circolarità di relazioni non si apprende quindi quello che rientra nell’immaginario del ‘selvaggio’ che impara a vivere nella natura o di un corpo che ritrova quella romantica dicotomia della relazione uomo-natura. È molto di più.
Un corpo selvatico è prima di tutto una corporeità che sa sviluppare una cultura meno antropocentrica, pronta alla continua trasformazione, all’adattamento e a un’evoluzione comune. La pedagogia del selvatico genera un pensiero, una vera e propria cultura viva, che ha come centro pulsante la relazione tra gli esseri umani e degli umani con tutto il vivente. Mettere al centro una libera reciprocità invita a rinunciare a un sistema umano basato su gerarchie, per alimentare una nuova umanità inclusiva e partecipata che veglia sul bisogno intrinseco dell’uomo di generare minoranze.
Il selvatico è uno spazio in cui apprendimenti complessi si interconnettono e presentano una varietà di informazioni, l’alternarsi di continue fragranze emotive e moltitudini di eventi che non sono presenti in nessun altro ambiente antropizzato in cui l’uomo ha organizzato i propri obiettivi. Il selvatico ci da l’opportunità di creare esperienze che non si basano sulla visione che l’uomo ha di se stesso e sul suo bisogno di organizzazione e produttività. Nel selvatico il corpo è pronto all’imprevisto ed è nell’inciampo che si apre ad una conoscenza stratificata e profonda. Alla base di un nuovo paradigma educativo c’è perciò l’immersione del nostro corpo in un ambiente naturale come aula privilegiata per mettere la nostra corporeità al centro del processo. Nella natura si rivela quel bisogno indomito che risiede in ognuno di noi di abbandonarci alla nostra capacità di invenzione e di essere noi stessi possibilità. Da ogni ambiente naturale selvatico potremmo apprendere prima di tutto un sistema vitale basato sulla capacità di creare possibilità.
Il nostro corpo riceve dal mondo naturale una spinta quasi ancestrale che porta a sentire come ogni cosa può essere racchiusa nella sua capacità di invenzione. Il mondo vivente è la somma di tutti gli esseri dotati della capacità di trasformazione, dai batteri agli alberi, passando per l’essere umano, intrecciati insieme in un sistema di relazioni più o meno strette, che fa di loro un organismo complesso; questo organismo crea un legame profondo di ciascuna parte al tutto in una dinamica continuamente rinnovata. «L’apprendimento dell’essere umano rimane selvatico, imprevedibile, un movimento frattale in continua germogliazione così complesso e misterioso che nessuno di noi può davvero misurarlo o controllarlo» (Black, A thousand rivers).
Questa playlist propone l’ascolto di una playlist creata nell’ambito di |home|walk| che è un primo studio di una ricerca performativa alla quale Valentina si sta dedicando da circa un anno. È un gioco da fare con il corpo nello spazio urbano o naturale in cui ognuno si trova. È un invito a perdersi e a sentirsi con il proprio corpo una strada. È una rioccupazione degli spazi-casa che sono dentro al nostro corpo. Le tracce vocali che ascolti mentre giochi entreranno a far parte di un archivio che farà parte dell’ambiente sonoro dell’installazione artistica che accompagnerà la performance. Puoi mandare le registrazioni alla mail valentina.pagliarani@gmail.com.
6. Fare scuole è creare continue rivoluzioni
Ascolta ora la traccia audio numero 4 dal taccuino di Valentina.
Fare scuole diventa un progetto continuo e diffuso nel creare comunità che credano che nell’educazione possa rivelarsi la trasformazione dell’umano. Fare scuola è pratica di libertà in cui studiare non significa acquisire cultura bensì generare le possibilità di ri-crearla. Da circa un anno io, Valentina, mi prendo cura, insieme a un gruppo di educatori, artisti, poeti della terra, di un progetto di educazione libertaria chiamato Scuolina Selvatica.
È nato dalla volontà di un gruppo di genitori e di educatori con il desiderio di destrutturare gli stereotipi che hanno dominato i loro corpi durante tutto il processo di apprendimento scolastico. È un progetto che mette al centro il valore decisionale dei bambini e delle bambine e li accompagna in un processo di auto-apprendimento partendo dallo sviluppo della propria intelligenza emotiva. Chi educa chi? Chi decide quale sia il corpo da educare e in che modo? Perchè in ogni processo educativo il corpo diventa s-oggetto da immobilizzare o colonizzare?
Ascolta dalla voce di Valentina, che legge dai suoi taccuini, la traccia numero 5
e la traccia numero 6
Nelle tracce a seguire ascolta le voci di due studentesse dell’Accademia di Belle Arti di Napoli che propongono un gioco con il corpo partendo dalle loro esperienze durante il corso di Didattica dei linguaggi artistici condotto da Valentina. Le trovi negli audio:
numero 7
numero 8
numero 9
numero 10
7. Per concludere, la parola a un corpo selvatico
«Il corpo selvatico è come una farfalla che vola libera. Si muove come pare a lui, senza essere addestrato come un burattino.
Un corpo libero quando corre per il bosco si sente un cerbiatto, un capriolo.
Un corpo libero capisce subito l’energia che ha chi gli è davanti.
Un corpo libero sta attento a ogni singolo rumore e a ogni singolo movimento che succede intorno a lui.
Un corpo libero potrebbe imparare altre cose da quelle che si imparano a scuola, tipo arrampicarsi, fare degli intrecci, usare il coltello.
Io sono cresciuta fin da piccolissima usando coltelli e vetri e non mi sono mai fatta male perché stavo attenta.
Io ho sempre potuto camminare sul bordo di un pozzo, di un burrone, mi hanno sempre lasciato vivere le mie esperienze anche se erano pericolose. In questo modo ho imparato a riconoscere le cose pericolose da quelle non pericolose. Se uno non ha mai toccato o fatto cose pericolose, quando è più grande è una cosa nuova, invece è bene se non è nuova» [2].
Note
[1] A questo punto, se vuoi approfondire, ti consigliamo la lettura di Liedloff J., 2000.
[2] Testimonianza di Ayla, 10 anni e mezzo.
Bibliografia
Black C., A thousand rivers
Black C., On the Wilderness of Children
Clément G., Il giardino in movimento, Quodlibet, 2011
Gray P., Lasciateli giocare, Einaudi, 2015
La Cecla F., Perdersi. L’uomo senza ambiente, Laterza, 2000
Liedloff J., Il concetto del continuum, La Meridiana, 2000
Lodi M., Costituzione. La legge degli italiani. Riscritta per i bambini, per i giovani… per tutti, Casa delle arti e del gioco, 2018
Valentina Pagliarani
Sono artista, curatrice e accompagnatrice in progetti di educazione esperienziale. Nella mia ricerca esploro la relazione tra l’arte e l’infanzia nell’innesto con un pensiero pedagogico libertario. La mia pratica artistica si muove tra danza e performance attivando processi partecipativi e di co-creazione con bambini. Da circa 10 anni mi prendo cura dei progetti di Katrièm Associazione/BIM!Microfestival di cultura infantile e dal 2020 di Scuolina Selvatica. Sono docente presso l’Accademia di Belle Arti di Napoli.
www.valentinapagliarani.com
www.microfestivalbim.org
www.katriem.it
Debora T. Stenta
Sto accanto alle madri e alle famiglie come doula, ovvero una figura che fornisce una presenza di affiancamento dal punto di vista psico-emotivo e pratico nel periodo perinatale, e custode della nascita. Sono anche stata per anni a fianco dei bambini prima come “MusicArTerapeuta nella Globalità dei Linguaggi” e conduttrice di corsi di danza, poi come accompagnatrice in progetti e percorsi di apprendimento autogestito e in natura, e non ultimo come madre. Mi occupo di processi di apprendimento spontaneo, disapprendimento, experiential learning, outdoor education, wilderness awareness, rigenerazione e cultura del dono.
www.disimparando.com
www.bradosisma.wordpress.com
www.innerpathways.eu
www.apprendimento-esperienziale.it