La cultura che siamo soliti definire come “occidentale” possiede nell’oculocentrismo, come altre, più di altre, uno dei suoi tratti maggiormente distintivi. Individuato, tra gli altri, il senso della vista come canale privilegiato per relazionarsi con il mondo, l’uomo occidentale ha dato origine ad un’operazione di trasfigurazione del reale in termini visivi che lo ha condotto, in tempi recenti, ad identificarsi con gli oggetti che tale processo ha messo al mondo; da più parti, infatti, ci viene detto che viviamo nella (non meglio definita) “società delle immagini”. Subito dopo aver analizzato il luogo e il tempo in cui la preferenza per il vedere ha piantato le proprie solidissime e rizomatiche radici, si procederà a declinare il concetto di “società delle immagini” riconoscendo in questa non tanto il frutto di una rivoluzione tecnica che ha consentito il proliferare della produzione iconica, bensì l’insieme di quegli strumenti che intervengono nella regolamentazione del mondo dell’intersoggettività.
Dalla metafora della visione alla follia per il vedere: il corpo come immagine (dipinta)
Nel tentativo di comprendere la natura di questa antica predilezione per il senso della vista, il suo rapporto con la conoscenza, e spiegarne la persistenza a fronte delle tante valorizzazioni negative che lo hanno investito nel corso dei secoli1, Martin Jay in Downcast Eyes (Jay, 1994) ripercorre la storia filosofica del “più nobile dei sensi” partendo proprio dalle tante ambiguità che lo hanno caratterizzato sin dalle prime apparizioni nel mondo del pensiero greco. Nonostante «tutta la semantica dell’idea europea, nella sua genealogia greca, lo si sa, lo si vede, assegna il vedere al sapere» (Derrida, 1990: 23) non è esatto, infatti, intendere il binomio vedere-sapere come espressione di un rapporto di perfetta sovrapponibilità: non sempre vedere è sapere. Ne è un esempio il Libro settimo de La Repubblica di Platone, contenente quella scena madre della cultura occidentale che è il mito della caverna, in cui vengono presentate all’unisono un concerto di metafore visive della conoscenza e di ambiguità sull’effettivo valore conoscitivo della visione: qui gli uomini cominciano a vedere il mondo della caverna come un mondo colmo di vane apparenze e a riconoscere, in quello che sta al suo esterno, «qualcosa di più vicino alla realtà e di più vero» (Platone, 1997: 351). Ma è pur sempre qui che il valore conoscitivo della vista viene negato, nel momento in cui l’uomo, uscito dalla caverna, impara a capire che «il mondo che [gli] appare attraverso la vista va paragonato alla dimora del carcere» (353) e che, se vuole garantirsi la libertà e l’accesso al mondo intellegibile, dovrà dis-togliere gli occhi dalla pura illusione del mondo (visibile), accecare i propri “piccoli soli” e procedere alla pratica dell’arte della conversione che lo porterà a conoscere il mondo vero. Nel mito platonico, la vista assume, dunque, il ruolo di senso primo – analogo terrestre del sole intellegibile da cui ogni conoscenza discende – e, insieme, quello del primo senso dal quale distanziarsi per raggiungere la conoscenza, la verità. Alla luce di questa ambiguità (radicalizzatasi nella contemporanea società delle immagini in cui, nonostante niente è quel che sembra, si persevera nella costruzione di strumenti ottici che consentono di vedere oltre, vedere meglio), Jay sostiene la necessità di mettere a punto una teoria che tenga insieme le valorizzazioni positive e negative della visione senza considerarle fenomeni inconciliabili: in fondo, nell’un caso come nell’altro, è pur sempre di occhi e di vista che si continua a parlare, ed è sempre di visione che, ancora oggi, è intriso il linguaggio occidentale (if you see what I mean). Con la sua sistematica ambiguità, secondo Jay, il mito della caverna risulta fondativo non tanto di un’indiscutibile supremazia del vedere inteso come realtà percettiva e veicolo di conoscenza, quanto del suo affiorare come tropo culturale (Jay, 1994: 587), figura persistente del pensiero: la visione, usando e ricontestualizzando le parole di G. Lakoff e M. Johnson, è la prima delle metafore in cui viviamo.
Se è vero che non viviamo soltanto delle ma anche nelle nostre metafore, il vedere deve essere considerato come l’ambiente originario, il luogo più o meno vergine e naturale, in cui l’uomo occidentale ha innestato il proprio essere al mondo. Al pari di ogni altro habitat, esso è stato e continua ad essere sottoposto ad atti di antropizzazione, plasmato in base a strutture di significazione tramite cui mettere in forma precise e, quanto più possibile, omogenee e confortanti rappresentazioni del mondo, del Sé e, soprattutto, dell’Altro. Le leggi che sostengono tali definizioni sono condensate in quelle particolari categorie cognitivo-percettive che Mitchell chiama images, «a repertoire of screen images or templates that structure our encounters with other human beings» (Mitchell, 2002: 175). Non c’è incontro, o scontro, interpersonale che prescinda da questa mediazione «invisible» e «paradoxical», paradossale perché presente anche se invisibile. Paradossale perché necessariamente presente sotto le vesti dell’invisibilità.
Nel vasto panorama dell’arte contemporanea, la produzione artistica di Alexa Meade2 sembra mettere letteralmente in scena, rendere visibile, lo schermo invisibile delle images. Dipingendo direttamente sui corpi dei suoi modelli e sullo spazio che li circonda, Meade persegue l’intento di creare un’illusione ottica che generi bidimensionalità laddove si è in presenza di un spazio concreto, multidimensionale (Fig.1). Inversamente a quanto accade tradizionalmente nel trompe l’oeil, qui si procede dal 3D al 2D. Maede trasforma la realtà in immagine. Rende visibile l’essere immagine del reale. Ciò che era nato come un’ossessione per le ombre e la loro incessante mutevolezza si è trasformato, col tempo in una ricerca sul supporto da cui tali ombre sono generate: il corpo, significativamente definito da Merleau-Ponty come il nostro «mezzo generale per avere un mondo» (Merleau-Ponty, 2003: 202), deve essere inteso come «modello archetipico di tutti i media visivi» (Belting, 2009: 92), di tutto il visibile, dispositivo primo tramite cui ogni immagine è al tempo stesso percepita e mediata. Afferma Meade: «I came up with the idea of painting shadows. I loved that I could hide within this shadow my own painted version, and it would be almost invisible until the light changed» (Meade, 2013: min 1:20). L’ombra, privata della sua natura incorporea, viene bloccata, strutturata, resa immagine fissa. E, tuttavia, rimane una costruzione invisibile: il suo esser divenuta immagine non compare, infatti, fin quando non cambia la luce che vi si posa, fin quando, cioè, non la si osserva sotto un’altra luce3. L’ombra vera, quella mutevole e immateriale, continuerà a muoversi allontanandosi, probabilmente differenziandosi, sempre più da quella sua rappresentazione ormai fissata in immagine, divenuta luogo specifico e riconoscibile. In questo contesto di simulazione, l’ombra dipinta rappresenta la image con cui ogni picture è chiamata a relazionarsi. Come per l’ombra, così per ogni altro visibile: ogni percezione deve essere concepita come «a constant interweaving of projections and impressions, empirical experience and hallucinatory effects» (Mitchell, 2012b: 16) in cui ciò che si vede non compare che nel continuo spostamento tra la struttura invisibile ma de-formante della image e la presenza percepibile della picture (Fig.2).
Alexa Meade, Spectacle, 2010.
In questa immagine, lo spazio e gli strumenti che si interpongono tra il corpo di Alexa (il corpo vedente) e il corpo del suo modello (il corpo visto) possono essere considerati come una rappresentazione visibile della mediazione necessaria in ogni incontro: la macchina fotografica con cui Meade immortala le sue opere e lo strato di colore con cui mette in forma un soggetto ormai trasformato, trasfigurato in una pura visibilità che si sovrappone alla realtà della carne sino al punto di sostituirvisi, rappresentano, insieme, i corrispettivi di quell’intelaiatura di schemi e modelli percettivi attraverso la quale conosciamo e misconosciamo l’altro che ci sta di fronte.
È in questo processo che risiede, per chi scrive, il senso più profondo e precipuamente politico, dell’espressione “società delle immagini”: un gioco che investe (regolandolo, mettendolo in forma) il mondo dell’intersoggettività, della gestione degli spazi sociali e dei rapporti interpersonali. Per quanto la image sia una categoria complessa, intermediale e necessariamente invisibile, il suo significato viene nella prassi traslato in una configurazione (im)mediatamente riconoscibile alla vista. In occasione di una conferenza tenutasi a Kassel nel 2012, significativamente intitolata Seeing madness (Mitchell, 2012a), Mitchell sceglie il caso dello strumento cinematografico per mostrare il ruolo centrale assunto dalla regolamentazione del campo visibile nella definizione – non solo cinematografica – dei concetti di normalità e anormalità4. La scelta del cinema è tutt’altro che casuale: l’autore sa bene che, nonostante la sua composizione intrinsecamente eterogenea, il senso comune sia portato a ridurre il cinema al rango del più moderno tra gli (inesistenti) media visivi. “Seeing madness” vuol dire quindi affermare che nella realtà cinematografica, così come nella realtà tout court, la follia appare principalmente come qualcosa che si vede. È a partire dal vedere che riconosco il mio simile. È a partire dal vedere che riconosco un uomo sano. È a partire dal vedere che riconosco, e mi discosto, da uomo pericoloso: i codici dell’occhio si traducono in azione e in gestione della prossimità. Nel mondo che ha nella vista il proprio ambiente originario, ogni corpo, in quanto visibile, ha il potere di sovvertire o confermare un sistema di significazione che è stato codificato in termini visivi e con il quale non può che intrattenere una relazione basata sul confronto: la norma(lità) è qualcosa che appartiene all’occhio prima che alla legge e ogni anormalità, ci ricorda L. Davis, si presenta primariamente come «a disturbance in visual field» (Davis, 2008: 96), un’interruzione nel flusso omogeneo, rassicurante, normato e normativo della normalità.
Per quanto tutto ciò possa risultare politicamente scorretto, immorale, a tratti lombrosiano, non è altro che il lascito di un’antica, originaria predilezione per il senso della vista. Una scelta che, prendendo spunto da Mitchell, potrebbe essere denominata “madness about seeing” e che, se ignorata, non ci aprirà mai le porte delle sue più profonde – seppur impopolari – implicazioni.
La differenza come stigma visibile o: dell’impossibile neutralità dell’occhio. Il caso degli albini africani.
In un mondo costruito nella vista, ogni anomalia ha il valore politico di un atto di sovversione. Ogni risposta al potenziale sovversivo dell’anomalia è un atto politico. Quello che accade quotidianamente nei territori africani ad alta incidenza di albinismo rappresenta un caso tristemente esemplificativo di quanto violenta possa essere la reazione dell’uomo al manifestarsi di immagini che violano la norma, in particolare nel caso di quella immagine prima che chiamiamo corpo. In molti Stati dell’Africa centro-meridionale le persone affette da albinismo, patologia che altera la normale (e normativa) pigmentazione della pelle, sono destinate ad una vita fatta di fuga e di violenza, una condizione che ha destato l’attenzione dell’opinione pubblica mondiale e portato alla nascita di numerose Ong esplicitamente dedicate alla loro tutela5. Gli albini in Africa vengono infatti emarginati, nel migliore dei casi, perseguitati e mutilati6, nel caso peggiore. A scatenare tanta violenza è la propria manifesta difformità, lo stigma della propria discromia (Brocco, 2016): in un contesto come quello africano, il soggetto albino si manifesta come un’interruzione nella continuità del visibile, un’anomalia nel campo percettivo. Nel tentativo di arrestare questa persecuzione senza sosta, l’organizzazione Albinism society of Kenya ha da poco lanciato un’iniziativa che nonostante la sua apparente banalità risulta, in realtà, di particolare interesse: il primo concorso di bellezza mondiale per albini7. Uomini, insieme alle donne. Una pratica che siamo soliti declinare in termini di logiche di potere (riguardanti lo sguardo di un soggetto, sessuato al maschile, che reifica un corpo, sessuato al femminile) viene, in questo caso, completamente risemantizzata: sfilare, mostrarsi, diventa un urlo a sostegno del proprio diritto di esserci, un atto di sovversione alla segregazione8 al quale le persone albine sono condannate a causa della propria “ipervisibilità”. La fiera, volontaria esibizione del corpo albino sembra mettere in scena il desiderio di ex-porsi, portarsi fuori, più avanti, oltrepassare quello schermo invisibile delle images che li separa dai corpi di chi li osserva. Una prima forma di resistenza che, in modo estremamente significativo, parla attraverso il canale della vista rispondendo in termini visivi e visibili ad una sistematica persecuzione che ha nella violenta normatività del visibile il proprio punto d’origine.
In questo tripudio di visione, tuttavia, una nota di particolare interesse viene fornita dalla sfera del linguaggio, in particolare dagli epiteti con cui in Tanzania si è soliti riferirsi ai soggetti affetti da albinismo. I termini più comuni, il cui uso è talmente diffuso da essere ufficializzato attraverso l’inserimento nel dizionario, sono “fantasmi” (zeruzeru) ed “europei” (mzungu) (Brocco, 2015). È l’ultimo termine ad attirare la nostra attenzione: cosa si nasconde dietro la scelta di un termine come “europei” per la denotazione, che non può che essere anche connotazione (e in questo caso, negativa), di un individuo africano albino? Quali significati sono stratificati in questa parola? Quale interpretazione e quale strumento interpretativo della realtà vengono affermati e naturalizzati in questo uso del linguaggio? La risposta può sembrare ovvia. Ed è proprio questa apparente ovvietà a essere interessante. L’equazione, semplice, verrebbe da dire “immediata”9 è la seguente: l’europeo è bianco. Il bianco è europeo. Il dato cromatico viene saldato ad un’area geografica e, insieme, danno vita a un’identità che investe, si sovrappone al corpo. Ancora una volta sono le images a parlare, lo stereotipo, l’allucinazione che sempre media, che sempre interviene nell’incontro con l’altro. Non è un caso se molti albini nati in Africa, o nei Paesi in cui la maggior parte della popolazione non ha una colorazione dell’epidermide chiara, decidono di trasferirsi in luoghi in cui la propria discromia diventa quasi impercettibile10: qui essi sono, appaiono, bianchi tra i bianchi. La loro ipervisibilità diventa invisibile: non viviamo ne L’isola dei senza colore di Oliver Sacks e, a meno che non si soffra di acromatopsia, l’occhio non è cieco al colore.
In una conferenza tenuta nel 1980, Stuart Hall si rivolge ai suoi allievi e all’intero mondo accademico con un discorso che getta nuova luce su un tema spinoso ma profondamente connesso con quanto abbiamo trattato sin qui: quello della razza e del razzismo. Hall afferma: «Dovete rendervi conto che, quando si affronta il tema della razza, le persone si sentono molto coinvolte, ideologicamente ed emotivamente, e riconoscere che questo è un ambito straordinariamente sovraccarico di emotività, in cui le persone non si accontentano di conoscere i fatti. […] Questo non è un argomento rispetto al quale la neutralità accademica o intellettuale abbia grande valore. Credo dobbiate creare un’atmosfera che permetta alle persone di dire cose impopolari. Non ritengo molto utile che l’atmosfera sia così chiaramente e inequivocabilmente antirazzista da impedire che si manifesti quel razzismo naturale e di “senso comune” che fa parte dell’atmosfera ideologica che tutti noi respiriamo» (Hall, 2006: 57-58)11.
Il caso degli albini “africani” – con la persecuzione attivata nei loro confronti dai membri della loro stessa comunità di appartenenza, con il loro essere chiamati “europei” perché bianchi, con il loro fuggire verso posti in cui il loro colore della pelle non appare come un’anomalia – ci pone di fronte un fatto decisamente «impopolare», che va anche al di là di quello, individuato da Hall, del razzismo come pratica connaturata alla «atmosfera ideologica che noi tutti respiriamo» (Idem, 58). Ci pone di fronte alla possibilità che il razzismo possa essere considerato una pratica che, per quanto impossibile da studiare prescindendo dalle strutture socio-economiche entro le quali opera (Hall, 2006), non può in nessun modo essere attribuita ad esclusive logiche di determinazione materialistiche. L’ideologia del razzismo si nutre di caratteristiche specifiche che la rendono un fenomeno ben distinguibile dalle altre ideologie. In quanto pensiero basato sulla percezione della diversità e sulla sua successiva naturalizzazione all’interno della categoria “razza”, il razzismo (qualunque sia l’oggetto verso cui si rivolge12) emerge, secondo Mitchell, come «a perversion of the seeing and perceiving animal, deeply inscribed in the sensorium» (Mitchell, 2012b: 20)13. L’intento di Mitchell non è provocatorio, bensì è quello di dire su di esso qualcosa che parta da una «prospettiva differente» (Mitchell, 2012b: 20), quella a lui più nota, relativa al campo della cultura visuale, della iconologia e della teoria dell’immagine. In Seeing Through Race, l’autore affronta il tema del razzismo dedicandovisi come fosse un fatto naturale più che naturalizzato, una modalità relazionale, conoscitiva, connaturata ad un umano che ha innestato nel vedere il proprio modo di stare al mondo. Un umano che si caratterizza come animale che vede. Perché, dunque, il razzismo? Perché il razzismo non si presenta esclusivamente nelle vesti della discriminazione messa in opera dall’uomo bianco nei confronti dell’uomo nero. È razzista ogni pensiero che vede nella differenza l’origine della discriminazione e insieme la possibile legittimazione di ogni atteggiamento discriminatorio: «race is something we see throught […] rather than something we look at» (Mitchell, 2012b: XII). La razza, così come ogni altro nome della differenza, compare soltanto dopo il fallimento del riconoscimento dell’identità, come un vero e proprio medium14 utile per spiegare, e irreggimentare, la differenza percepita: «racism is the brute fact, the bodily reality, and race is the derivate term, devised either as an imaginary cause for the effects of racism or as an attempt to provide rational explanations, a “realistic picture” and diagnosis of this mysterious syndrome know as racism. Race is not the cause of racism but its excuse, alibi, explanation»15 (18-19). Continuare a proporre letture esclusivamente materialistiche del razzismo, senza considerare le caratteristiche specifiche della visione che intervengono nel suo processo di manifestazione e consolidamento, equivale a compiere una mistificazione della realtà tanto grave quanto quella operata da chi ipotizza il nostro ingresso in un’era post-razziale16. Significa compiere una lettura insufficiente di un fenomeno che si presenta in qualche modo «as universal phenomena, both translocal and transhistorical in some sense» (5), le cui forza d’azione e resistenza ai cambiamenti storici si fondano proprio sul poter essere ascritti alla natura: «guarda con i tuoi occhi, non vedi che sono diversi?» (Hall, 2006: 63). Fondate sulla vista, nutrite di un linguaggio che (“come si è visto” con Jay) descrive il mondo nei termini del vedere, ideologie come quelle razziste e sessiste posseggono una capacità di autonaturalizzazione ad altre sconosciuta (Hall, 2006: 63). È sulla vista che si fondano il comparire e la naturalizzazione delle differenze e, come afferma Mitchell, si dovrebbe soffrire di una profonda forma di cecità per non accorgersi di ciò.
(Ma)donne bianche e bambini “europei”: archeologia della visibilità occidentale a partire da un test.
Il caso degli albini africani porta con sé alcuni punti di interesse che suggeriscono un ampliamento della riflessione al di là dei confini del continente africano. L’identificazione operata dalla lingua tanzaniana tra “europei” e albini, la fuga degli stessi verso popolazioni con la pelle più chiara, danno forza alla tesi di Mitchell secondo cui la “razza” non sia altro che un medium tramite cui dare corpo ad un razzismo transculturale, profondamente radicato nell’umano. Sulla scorta di quanto suggerito dalla lingua tanzaniana, si è messo a punto un esperimento per indagare cosa vede un europeo, quale medium razziale utilizza, se posto inconsapevolmente di fronte l’immagine di un albino africano.
Bambino. Dettaglio della Fig.4
La Fig.3 è stata mostrata ad un gruppo di studenti del corso di Teorie della comunicazione dell’Università degli studi di Palermo: è un’immagine parziale e volutamente faziosa, modificata in modo tale da attivare nell’osservatore un processo di completamento su base inferenziale; di fronte ad un’immagine privata della sua totalità e di ogni contesto di riferimento, l’osservatore non può far altro che affidarsi alla propria visione, alle proprie esperienze pregresse e abitudini di pensiero. È stato chiesto agli studenti di dare un nome a quel che vedevano, la risposta ottenuta dal gruppo è stata: un bambino, bianco, occidentale. Allo stesso modo delle comunità tanzaniane si è visto un corpo bianco e si è detto che fosse europeo. Proseguendo con il test, si è mostrata agli studenti la foto originale (Fig.4) chiedendo loro, ancora una volta, di dare un nome a quel che vedevano: questa volta, la parola ha ceduto il posto al silenzio e al turbamento. La figura che è apparsa dietro il bambino non corrisponde alla figura materna che era stata immaginata per inferenza. Quale relazione lega la donna in figura con il bambino in cui è stato riconosciuto un europeo?
Le arti visive hanno avuto un ruolo determinante nella definizione dei paesaggi del corpo (Mirzoeff, 1995), stabilendo canoni e forme le cui regole fanno ormai parte del nostro bagaglio culturale conscio e inconscio17. Per scoprire in che modo la donna della figura ha disatteso la figura di madre che si credeva di dover vedere si può, dunque, dare uno sguardo alle rappresentazioni artistiche del tema della maternità. È qui che le caratteristiche formali della image-madre sono state messe in forma, ed è alle rappresentazioni di una specifica madre che bisogna guardare: la Madonna. Madre di ogni madre, madre e moglie devota, votata alla cura del proprio figlio e al sacrificio, la più raffigurata nella storia dell’arte, la più radicata nell’inconscio sociale: nella simbolica occidentale, la Madonna è bianca (Fig.5). Anche quando diventa oggetto di atti di migrazione, il suo simbolo mantiene immutati i propri connotati formali fondamentali: nella Fig.6, ad esempio, il dispositivo simbolico mariano è impiegato all’interno di una campagna pubblicitaria come espediente tramite cui innestare il tema e il ruolo della “cura” – profondamente intrinseci al simbolo mariano – in un’immagine che raffigura una motociclista con in braccio il proprio figlio. La componente cromatica interviene a palesare un collegamento già chiaramente presentato al livello della scelta compositiva: la bianca purezza del volto della (Ma)donna e del corpo del bambino si stagliano sopra uno sfondo rosso la cui omogeneità è interrotta soltanto dal blu della giacca e dal dorato del casco-aureola incoraggiando, così, un processo di identificazione già fortemente attivato dall’austera frontalità della donna. Ogni madre, nell’immaginario occidentale, è una (Ma)donna bianca che porta con sé un bambino a lei simile18. Quest’orizzonte di somiglianza viene infranto nel caso della Fig.4. Con l’ausilio dei nostri modelli percettivi non siamo in grado di riconoscere in questa figura né una Madonna nera, né la madre di quel bambino visibilmente bianco: è in questa sospensione del riconoscimento, nell’incongruenza tra lo scenario atteso e la realtà concretamente percepita, che ha origine il senso di disagio provato dagli studenti. Bisogna ricorrere al linguaggio per spiegare l’invisibile presente nella foto e bisogna prepararsi ad un nuovo, più profondo disagio: una volta scoperto che la foto non ritrae soltanto una donna e un bambino ma una madre con in braccio suo figlio, si è costretti a mettere in dubbio tutto quanto si era certi di aver saputo. L’immagine del bambino albino, percepita e interpretata come espressione della somiglianza, mette in scena l’inaffidabilità delle categorie essenziali attraverso cui tale somiglianza era stata riconosciuta. Quel corpo rappresenta l’impossibilità del riconoscimento, l’impossibilità di legare coerentemente una picture a una image, l’impossibilità di stabilire il filtro opportuno attraverso cui interpretare il reale che vedo.
Le immagini di madri nere con figlio albino ci vengono incontro nella forma di un cortocircuito, di un irrisolto, un insoluto (e insolubile) della forma, del significato, del riconoscimento. In esse «il dissimile è sullo stesso piano del simile» (Didi-Huberman, 2003: 61). Nel corpo del bambino albino, il dissimile è esattamente nello stesso corpo del simile: un corpo che rappresenta agli occhi dell’uomo bianco, il dissimile innestato in ciò che appare come simile19, rappresenta anche, rispetto al corpo nero, l’innestarsi di una somiglianza in quella che viene percepita come dissomiglianza20.
Nel mondo che ha nella visione il proprio habitat originario, le immagini di donne nere con figlio albino ci richiedono, ci impongono, di vedere la possibilità del fallimento della visione, di quel senso sul quale ogni senso della nostra esistenza è stato costruito. Il corpo dell’albino africano rappresenta il luogo in cui il pensiero, con il suo insaziabile desiderio di risparmiare energie, può andare incontro al fallimento e all’errore. Bisogna allora praticare il disagio. Porsi domande scomode e insistere laddove il pensiero dell’uomo, sviluppatosi come animale che vede, non è in grado di rispondere in modo corretto alla più importante delle domande: che cos’è quel che vedo?
Immagine pubblicitaria realizzata dall’agenzia Grey in occasione dell’Esposizione internazionale del motociclo 2013.
Il dispositivo “Madonna” interviene a neutralizzare l’idea di madre poco attenta alla sicurezza del figlio solitamente connessa ad una donna che si muove con lui su di un veicolo a due ruote
1Un processo di “denigrazione”, per usare le parole di Martin Jay (Jay, 1994), che come vedremo ha avuto inizio nella cultura greca – quella stessa cultura greca che a tutta la retorica della visione ha dato luce – e che, passando per le teorie che riflettono sui sensi come modalità soggettiva e imprecisa di relazione con il mondo senza mai riconoscergli il primato che sempre si affida alla ragione, arriva sino ai giorni nostri. Un testo come Società dello spettacolo di Debord ne è una prova, così come l’insistenza sulle implicazioni erotiche della vista e le sue derive patologiche sviluppate in ambito psicoanalitico.
2 Nata a Washington nel 1986, A. Meade abbandona gli studi di scienze politiche nel 2008 per dedicarsi alla realizzazione di opere letteralmente impiantate sul corpo, ottenute unendo in un’unica soluzione l’antica tecnica del trompe l’oeil a quella del body art.
3 L’ombra dipinta, fatta per mano dell’uomo, rimane invisibile fin tanto che si nasconde sotto il velo della naturalezza. L’invisibile opera di costruzione che fonda la naturalezza di ogni visione.
4 L’analisi dell’autore segue un approccio di matrice foucaultiana, per il quale la pazzia è definita come «the product of knowledge/power formation – elaborate strata of discursive statements and visible institutions and spaces, accesible to an archaeology of the seeable and sayble» (Mitchell, 2012a).
5 Tra queste, ad esempio l’Associazione Under the same sun, fondata da Peter Ash e con sede in Tanzania. Nonostante i fenomeni dell’albinismo e della persecuzione dei soggetti albini siano diffusi in tutto il territorio africano e, con minore incidenza, anche al suo esterno (la discriminazione si presenta ad esempio anche in Pakistan, Cina e India ma non è stata ancora documentata con la stessa attenzione), la Tanzania detiene il triste primato di luogo maggiormente a rischio, ed è a ricerche condotte in questo territorio che si devono la maggior parte dei dati ad oggi raccolti sul tema dell’albinismo in Africa (Brocco, 2015; Brocco, 2016).
6 I corpi delle persone albine, considerati possessori di poteri magici, sono in genere sezionati per essere venduti al mercato nero della magia.
7 Si rimanda il lettore a una sezione interna del sito web dell’organizzazione, interamente dedicata a questo evento (http://www.albinismsocietyofkenya.org/the-first-ever-mr-miss-albinism-in-the-world/).
8 Che equivale ad un nascondimento.
9 L’effetto di immediatezza e naturalità generato dalla mediazione delle images.
10 Si rimanda il lettore alla storia delle sorelle Lara, Mara e Sheila Bawar. Cresciute da una madre abbandonata dal marito e trasferitasi in Brasile per fuggire alla persecuzione e allo stigma dell’albinismo, Lara e Maila (gemelle ed albine) insieme alla sorella maggiore, Sheila (non affetta da albinismo) sono oggi un trio di successo, lavorano nel mondo della moda e posano per progetti fotografici come Flores Raras di Vinicius Terranova (http://cargocollective.com/floresraras/images).
11 Corsivo mio.
12 La disabilità, il femminile, il freak, il queer.
13 Corsivo mio.
14 «At the level of theory, I want to […] treat race as itselfs a medium in the most straightforward sense of the word – that is, as an “interventing substance” that both enables and obstructs social relationships» (Mitchell, 2012b: 4).
15 Corsivo mio.
16 «We are or should be, “color blind” and ignore all the visible signs of racial difference» (Mitchell, 2012b: XI).
17 Le immagini sono l’inconscio dal quale siamo posseduti (Didi-Huberman, 2003; Warburg, 2011).
18 Si potrebbe pensare che il culto della Madonna nera, ampiamente diffuso in territorio europeo, invalidi quanto abbiamo appena affermato. In realtà ad intervenire nella definizione della figura della Madonna non sono esclusivamente i valori formali del suo corpo, ma anche la conformazione di questi in relazione a quelli del bambino che tiene tra le braccia: ogni (Ma)donna, porta con sé un bambino a lei simile e la Madonna nera, pur nella differenza, rispetta perfettamente questo canone. È qui, allora, che risiede il questo l’immaginario che la picture della Fig.4 ha messo in crisi: la di una donna nera. In questo modo il culto della Madonna nera rispetta (pur nella differenza) quelle categorie fondamentali del pensiero identificate da Warburg nell’uniforme e nell’identico (Warburg, 2011).
19 Cromaticamente simile, geneticamente dissimile; cromaticamente europeo, geneticamente africano.
20 Cromaticamente dissimile, geneticamente simile; cromaticamente europeo, geneticamente africano.
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Marinella Tomasello ha studiato storia dell’arte e cultura visuale presso l’Università degli studi di Palermo. Nel 2012 consegue la laurea triennale in Scienze e tecnologie dell’arte, con una tesi che indaga i rapporti tra sociologia e storia dell’arte, per poi sviluppare un interesse verso i temi della cultura visuale e il mondo dei non vedenti. Nel 2017 consegue la laurea magistrale in Teorie della comunicazione discutendo una tesi dal titolo “Cultura visuale e cecità: invisibile, non visibile, non visto, trascurato”.