Una ragazza fa una piccola acrobazia puntando i piedi su una parete e la schiena su quella di fronte dei muri di cemento del Giardino Jüdisches Museum Berlin (Museo Ebraico di Berlino). Una coppia si fa una foto guardando scherzosamente in macchina in un selfie davanti all’ingresso del famoso cancello del Campo di Concentramento di Auschwitz. Una modella, con un vistoso costume da bagno due pezzi arancione, appare in una foto di moda davanti a Check Point Charlie, storico passaggio/frontiera del Muro di Berlino. Una giovane americana twitta un suo selfie ancora ad Auschwitz e aggiunge il commento “saltellando sulle lapidi dei cadaveri degli ebrei”. Una coppia di giovani ragazzi, davanti ai miei occhi, si fa un selfie sorridendo, con la tipica posa da innamorati, tempia contro tempia, con sullo sfondo Ground Zero e il Memoriale per i morti dell’11 settembre a New York. Potrei continuare la lista per molte pagine. Questa sequenza di immagini ci provocano un grande senso di imbarazzo, tutto ci appare completamente “fuori luogo” e ci sembra in qualche modo che sia stato superato un limite che non pensavamo si sarebbe mai passato. Come direbbe Susan Sontag, che posizione stiamo prendendo «davanti al dolore degli altri?” (Sontag, 2002). La domanda ha una doppia valenza, una intima e personale, e una collettiva. Cosa spinge ormai un numero sempre crescente di persone ad autoritrarsi davanti a luoghi segnati da una tragedia collettiva come persone felici, giocose e persino ironiche o comiche? Quale iconografia è diffusa di questi luoghi, diciamo così a livello popolare, tale da ingenerare questo tipo di atteggiamenti?
Da ormai almeno tre decenni gli studi accademici hanno catalogato la tipologia di viaggi che conducono singole persone o gruppi a visitare luoghi di morte, con il nome di Dark Tourism. I primi a coniare letteralmente questo termine sono stati John Lennon e Marc Folley con il loro libro intitolato The Dark Tourism. The attraction on the death and disaster. In questo, che ormai è divenuto il testo di riferimento per chi si vuole approcciare a questa materia, si legge la definizione data dai due studiosi a questo fenomeno: «By Dark Tourism we intend to signify a fundamental shift in the way in which death, disaster and atrocity are being handled by those who offer associated tourism “products”» (Lennon, Folley, 2000, p. 3). Le tre categorie che fanno sì che un luogo possa essere considerato meta di Dark Tourism sono quindi: morte, disastri, atrocità. Tornerò su questa lista che, vedremo, permette di mettere insieme le morti per lo Tsunami, Auschwitz e in alcuni casi fatti di cronaca efferati come potrebbe essere un infanticidio.
Dunque, la prima questione essenziale da porsi è: esiste davvero un Dark Tourism? Come è nato e come si sta sviluppando? Quali implicazioni etiche prevede o elude?
La prima domanda mi sembra essenziale anche per provare a porre sul tappeto alcune questioni legate a quell’iconografia citata all’inizio di questo articolo, che ci fa chiedere: perchè chi si autorappresenta in questi luoghi non prova nessun imbarazzo nel considerarli “sfondi” da foto turistica, tanto quanto Piazza San Pietro e la Tour Eiffel?
Il Dark Tourism ha avuto, secondo gli studi più recenti, un vero e proprio boom dagli anni Novanta a oggi, ed è caratterizzato da una forte predominanza di turisti occidentali, anche se non sono la sola componente culturale che ne usufruisce e ne fa richiesta. In Europa, così come negli Stati Uniti si è allargata enormemente la tipologia di siti che possono essere considerati Dark Tourism, al punto da prevedere sottocategorie come, per citarne solo alcune: Tahanatourism, Disaster Tourism e, in qualche modo anche Slum Tourism anche se questo ha caratteristiche leggermente diverse. E in questi due continenti sono entrati a pieno titolo nella categoria di Dark Tourism siti di azione o di vita di serial killer, siti dove si sono compiuti omicidi balzati alla cronaca per la loro efferatezza o perché compiuti in un contesto familiare, le morti accidentali per disastri naturali o degli omicidi/suicidi di persone note, come politici o star.
La dicitura Dark Tourism ha recentemente iniziato ad abbracciare, specie a livello commerciale, giornalistico e mediatico, un mondo ancora più ampio che spazia dalle visite ai campi di sterminio fino ai siti di magia nera, o banalmente ai cimiteri. Il termine dark ha dunque ripreso il suo pieno significato di oscuro, misterioso e senza dubbio spaventoso.
Come affrontare e analizzare un’iconografia non della morte ma del dolore, della sofferenza che ha preceduto e seguito l’evento traumatico? Si tratta di un processo complesso, stratificato e spesso quasi impossibile. Nessuno di noi, in linea di massima, può provare un sentimento di identificazione con le vittime o i sopravvissuti di Auschwitz, ma solo al massimo di immedesimazione. Può provare a sentire quel che hanno sofferto, ma resta il dato fisico che mai avrà sofferto le stesse pene. In che modo la categoria dell’immedesimazione agisce sugli immaginari? Come posso figurare oggi a una persona presente ciò che è stato, provocando in lui/lei empatia a tale livello da “costringerlo/a” a una sorta di embodiment di quel dolore passato? La struttura delle narrazioni, e delle narrazioni partecipate, è articolata e sta cercando strade diverse nel tempo. Come scrive Giorgio Agamben in Quel che resta di Auschwitz «Chi è passato nel campo, tanto se è stato sommerso o è sopravvissuto, ha sopportato tutto ciò che poteva sopportare. Questo “soffrire all’ennesima potenza”, questa esaustione del possibile, non ha, però, più “nulla di umano”. La potenza umana sconfitta nell’inumano, l’uomo sopporta anche il non uomo» (Agamben, 1998, p. 71).
Dunque cosa sta accadendo ai visitatori che partono per le mete del Dark Tourism? Perché i loro atteggiamenti, le loro immagini e i loro comportamenti sembrano non rivelare nessuna empatia verso tanto dolore e orrore?
La domanda essenziale è: esiste davvero un Dark Tourism “spontaneo”, se così si vuol dire, o questa è una delle tante manifestazioni di massa indotte da un mercato che deve sempre più produrre “oggetti” di consumo? Il Dark Tourism è un’operazione di marketing territoriale che, a mano a mano, diversi paesi stanno adottando come attrattore turistico? Utilizzare siti di traumi collettivi, che possono essere raccolti piuttosto sotto la categoria di Difficult Heritage (Macdonald, 2008) per inserirli in “tour” di Dark Tourism può permettere di equipararli a luoghi dove si sono compiuti omicidi individuali o seriali a opera di un folle, o luoghi noti per essere sede di “magia nera”, o anche luoghi di disastri naturali?
Assimilare tutte le categorie di luoghi che ho fin qui citato sotto l’unica categoria di Dark Tourism appare in maniera molto chiara, a mio modo di vedere, come un modo per de-politicizzare la memoria, e rendere al pari ciò che accade per caso e provoca dolore, e ciò che invece è costruito e progettato da gruppi di potere proprio allo scopo di provocare dolore, sottomissione e morte. In altre parole, se io, cosa che ho appena fatto di persona, vado al Memoriale di Ground Zero e accanto alla suggestiva installazione con tutti i nomi dei caduti nell’attacco terroristico dell’11 settembre, vedo un piccolo stand che vende gadget dell’11 settembre come spillette, blocchi per gli appunti e penne, cartoline e così via, perché non dovrei essere portato a fare quello che faccio davanti a ciascun luogo che ha precise connotazioni di luogo turistico, da cui posso portarmi via un mio selfie così come un portachiavi? La memoria certo non può passare assolutamente attraverso una sacralizzazione che sospende i luoghi in una fissità monumentale, ma deve produrre quel grado di estraniamento, di perturbante, che pone chi li visita e li frequenta almeno in una condizione di destabilizzante dubbio e di domanda, e per certo di discomfort. Dunque, poter possedere un oggetto che in qualche modo posso portare via un qualcosa di quel luogo traumatico, è come famigliarizzarlo, è togliergli quell’aura di distanza che me lo fa vedere come una situazione non semplificabile. Ma poter comprare quel gadget vuol dire conquistare, in maniera veloce e simile, lo statuto del “io ci sono stato” senza nessun investimento emotivo o sacrificio empatico. Dunque, perché non usare tutti gli strumenti a mia disposizione, anche un banale selfie, se la stessa “autorità” che ha costruito quello spazio di memoria non mi chiede nessun impegno, non mi chiede di partecipare, non mi affida nessuna responsabilità?
Da più parti, in tempi recenti, si è parlato di cercare nel “depotenziamento” una delle strade per convivere con un passato molto difficile che ancora turba la storia della comunità che l’ha vissuto: è il caso della Germania davanti al Nazismo, ma anche davanti al Muro di Berlino; è il caso della schiavitù e delle persecuzioni contro gli afro-americani negli Stati Uniti; è il caso delle vestigia coloniali ancora come monumenti celebrativi del proprio passato nei paesi colonizzatori, solo per citare alcuni esempi. Ma il processo di depotenziamento, di giustizia postuma e di convivenza con la memoria del passato doloroso, come si conciliano con la parola turismo?
Vorrei provare ad andare solo un attimo all’origine del termine in senso letterale. L’enciclopedia Treccani recita: «Turismo: L’insieme di attività e servizi a carattere polivalente riferiti al trasferimento temporaneo di persone dalla località di abituale residenza a un’altra località per svago, riposo, cultura, curiosità, cura, sport e così via». Il termine porta in sé un senso di svago, divertimento e piacere, e comunque di agio di star bene, di sentirsi bene, anche se può essere accompagnato dalla conoscenza culturale. Dunque appare molto difficile inserire nel termine “turismo” la visita a un luogo dove sia accaduto un eccidio, che si porta dietro di sé un’attitudine alla conoscenza, ma non allo svago, che richiede prepotentemente uno stato di disagio, di scomodità, di imbarazzo, di angoscia e dolore. Ma si potrebbe contestare a questa mia affermazione che milioni di persone visitano, ad esempio, ogni anno il Colosseo, che era un luogo dove esseri umani venivano fatti volutamente massacrare da belve feroci. Cosa distingue una visita a Auschwitz da una al Colosseo? O che differenza c’è tra l’andare a vedere la casa di Anne Frank e quella di Yara Gambirasio, la giovanissima ginnasta uccisa da un maniaco a Brembate di Sopra? Le sole domande ci sembrano irriverenti e disturbanti, ma non lo sono se ambedue possono essere le mete di turismo e, ancora meglio, possono essere inserite nella stessa categoria di Dark Tourism.
Vorrei subito spostare l’attenzione dalla questione morale, o etica, a quella politica. Perché la morte pur terribile di Yara non ha lo stesso valore emblematico di quella di Anne? Questa semplice contrapposizione rivela a mio parere l’inconsistenza e la pericolosità dell’etichetta Dark Tourism. Ciò che dovrebbe spingere alla visita della casa di Anne, seppure partendo da un interesse che parte da un dato se si vuole biografico, ha a che vedere con cosa quella singola persona rappresenta nella memoria collettiva, condivisa, che supera la sua singola persona. Ciò che spinge ad andare a vedere la casa di Yara o il suo paese, è un puro interesse biografico, per una persona che ha subito un terribile destino, ma che non appartiene a nessuna memoria collettiva, non cambia né la percezione culturale di una comunità né di un luogo, se non in maniera episodica e per un breve periodo. La confusione tra la pena per un evento che ha generato una difficult heritage, che ciascun abitante di quei luoghi in quel tempo ha dovuto vivere, che fosse vittima o carnefice non importa, e quella per un evento puntiforme, che non crea nessun eco storico, che non costringe a nessun vero ripensamento la comunità che lo ha vissuto, non è un “fraintendimento” popolare, ma è una vera e propria strategia di “depotenziamento”, in senso negativo in questo caso, di eventi del passato che ancora oggi non sono stati davvero affrontati, condivisi e quindi elaborati.
I fatti delittuosi che avvenivano nel Colosseo sono così lontani nel tempo da non richiedere più un’elaborazione che ormai si è già compiuta. Non accadrà mai che un cristiano entrando al Colosseo possa odiare gli attuali cittadini romani perché li ritiene responsabili della morte dei suoi avi compagni di fede. Perché quei fatti, lo scontro tra Impero Romano e Cristiani, sono stati superati dagli eventi e dal tempo.
Dunque due fattori separano in maniera molto netta i due diversi episodi che ho citato: in un caso è la non rilevanza sociale e politica di un evento delittuoso subito da un singolo, a confronto con un evento delittuoso indirizzato a un singolo che è divenuto simbolo di un tempo, di un popolo e della storia di molti popoli; nel secondo caso la distanza temporale, e quindi la possibilità di trovare strumenti per elaborare il trauma, depotenziano, in questo caso in senso positivo, l’evento.
Vorrei quindi arrivare a dire che ambedue le parole usate nella definizione di Dark Tourism mi appaiono quanto mai inadeguate ed estremamente pericolose, e mi sembra invece molto chiaro che questa è una perfetta categoria merceologica creata ad hoc per definire una nuova tipologia di business nel contesto del turismo di massa. In altre parole, l’interesse per certi luoghi segnati da una storia che unisce diverse comunità, paesi o semplicemente territori, anche a distanza, a mio parere ha una sua matrice, se non spontanea, almeno possibile. La creazione di un vero e proprio circuito, organizzato, che mette insieme in uno stesso calderone tutte le forme di attrazione verso luoghi legati alla morte, mi appare come una delle costruzioni prodotte dalla cultura globale. E tutto questo non solo per aprire nuovi canali economici, ma anche per annullare l’effetto di coinvolgimento individuale di ciascuna singola persona davanti a eventi passati non avvenuti per caso, ma disegnati da precise strategie di potere. Se il visitatore, il turista comune, sotto il nome di Dark Tourism, o in un sito di Dark Tourism, trova tanto lo Tsunami che Auschwitz, il problema di nuovo non è etico ma politico. I morti per lo Tsunami non provocano certo meno pena e dolore dei morti nei campi di sterminio, ma il messaggio che il Dark Tourism rilascia è che il possibile coinvolgimento emotivo del visitatore potrà essere uguale: proverà pena, persino sofferenza, in ambedue i luoghi “di morte”. In questo modo non riuscirà più a distinguere la differenza fondamentale che passa tra la scelta dell’Europa occidentale di costruire tutta la propria cultura e identità tra XIX e XX secolo su un’idea di superiorità razziale, che ha portato alla Shoà; e un potente maremoto che spazza via migliaia di persone sulle spiagge dell’Oceano Indiano perché vittime di un evento naturale che nessun essere umano ha deciso.
Nel 1945 la fotografa americana Margaret Bourke-White, entra nel campo di sterminio di Buchenwald subito dopo la sua liberazione e scatta delle immagini ormai molto note, pubblicate dalla rivista Life. Ma le fotografie più importanti sono quelle che la fotografa scatta alle persone, abitanti della vicina Weimar, costretti dai militari alleati a visitare il campo e a guardare le cataste dei cadaveri scheletrici e le figure emaciate dei pochi sopravvissuti. Quelle foto sono a mio modo di vedere la perfetta figurazione della necessità di non usare la parola “tourism” in riferimento alle attuali visite nei luoghi della difficult heritage. A chi erano destinate quelle foto? Non certo alle povere famiglie che aspettavano notizie dei loro caro deportati, ma servivano a mostrare, come un pugno in faccia, alla classe media americana, occidentale più in generale, bianca, benestante, che aveva chiuso gli occhi e si era tappata il naso davanti agli eccidi nazisti, e fascisti in tutta Europa, e ora finalmente era costretta a soffrire. I volti delle persone sono sconvolti, molti si tappano il naso e la bocca con un fazzoletto, non perché piangono ma per lo schifo. Il fruitore medio di quelle immagini prova ribrezzo, disagio, e forse in parte senso di colpa. Ma quello che mi interessa è proprio quel senso di “fastidio” insopportabile, fisico, che quelle figure manifestano. Nessun agio, nessuna mediazione, nessuna messa in scena, solo la morte puzzolente, solo la malattia schifosa, solo l’estrema violenza del corpo. Come può la parola “turismo” incarnare questo sentimento? E quindi come può un giovane tedesco, o un giovane italiano, ritrovare quel senso di disagio davanti ai corpi martoriati dai suoi genitori o nonni nazisti e fascisti in un viaggio “turistico” ad Aushwitz o a Casa di Anne Frank?
Dunque, denuncio il mio disagio davanti all’uso della parola “turismo” riferita a luoghi legati alla morte: che siano di eventi privati, di individui, o collettivi. Ma a questa mia affermazione aggiungo che il disagio aumenta se si pensa che queste diverse categorie di luoghi, come visto radicalmente e politicamente diverse, siano unite sotto il termine di dark. Nonostante si stia ormai affermando un nuovo filone di studi accademici che lavora su questo concetto – cito solo come esempio molto significativo l’Institute for Dark Tourism Research della University of Central Lancashire (GB) – io credo che ci sia un equivoco di fondo: non esiste un Dark Tourism diciamo così come fenomeno nato spontaneamente, ma esiste invece una precisa strategia che ha costruito un circuito di site di Dark Tourism, a cui poi naturalmente hanno aderito un certo numero di utenti potenziali. È evidente che da decenni molte persone visitano Auschwitz o altri campi di sterminio, o i Musei dedicati all’Olocausto, o la casa di alcune vittime-simbolo del Nazi-Fascismo, ma queste non sono mete di Dark Tourism, ma sono mete di viaggi di conoscenza che nulla hanno a che vedere né con la parola “tourism” né con la parola “dark”. È però altrettanto evidente che milioni di persone hanno iniziato a visitare luoghi di disastri, di stragi e di massacri, accompagnati in tour organizzati o seguendo indicazioni di siti di Dark Tourism, ma questi sono “vittime” di una costruzione mediatica della loro morbosità, esattamente come sono “vittime” di una paura diffusa che produce xenofobia.
La categoria Dark Tourism, produce un effetto deflagrante in relazione alle memorie difficili con un processo che definirei sotterraneo, molto ben congeniato e al contempo di facile diffusione di massa. Intere generazioni del mondo occidentale sono cresciute con il mito del viaggio nei luoghi lontani ed esotici – immaginario nato in periodo coloniale – che poi è divenuta passione per i racconti spaventosi e abominevoli dei rischi che si potevano correre in questi luoghi lontani. La II Guerra Mondiale ha dato un volto a quei mostri, nati e cresciuti però in casa, nella culla dell’Europa, e questo ha prodotto un senso di instabilità e paura collettiva che ancora non ci abbandona. La Guerra Fredda ha saputo convertire quel terrore diffuso in paura dell’altro e chiusura entro i propri confini. Con la fine della Guerra Fredda il nemico è tornato a essere quell’ “altro” lontano, ma ora spesso pericolosamente vicino alla porta di casa. In questo percorso una sola costante ha accompagnato la nostra cultura dalla modernità a oggi: la paura.
Dunque una cultura basata sul terrore non poteva che costruire immaginari terrificanti, fantastici o realistici, e non poteva che generare un’attrazione irrefrenabile per tutte le manifestazioni terrene e non, di quei mondi. Ci siamo così ritrovati davanti a due iconografie: una reale, con le vere stragi, la Shoà, le violenze delle guerre e del colonialismo; e una irreale, fantasiosa, cinematografica. Come fare in modo che l’elemento di costruzione dell’immaginario, quello fantastico e fantasmagorico, quello che aveva costruito le Esposizioni Universali con gli Zoo Umani possa oggi sommergere i dati di realtà? Come far sì che gli elementi veramente perturbanti, che ancora chiedono una risposta alla nostra cultura, come la violenza coloniale o quella razzista, possano passare in secondo piano rispetto al Triangolo della Magia Nera di Torino, o al Cimitero dei Cappuccini a Roma, o all’omicidio di Yara? Semplicemente costruendo categorie culturali, quindi mentali e psicologiche, che equiparino in una stessa visione tutti questi fenomeni senza distinzione di sorta. L’omologazione, l’appiattimento, farà sì che non solo il Castello degli Orrori sia nel mio viaggio da Dark Tourist pressoché uguale a una visita a un Campo di Concentramento, ma che di più davanti al primo io possa provare una paura giocosa che travalica il tempo, e nel secondo possa sentire una pena per qualcosa che io posso dire “a me non accadrà mai, e più che altro certamente ora non mi accade”.
La responsabilità non è la solidarietà questo è certo.
Vorrei citare e analizzare ora tre esempi perfetti per sostenere quanto scritto fin qui.
Il primo è il film documentario del regista ucraino Sergei Loznitsa, Austerlitz, del 2016, girato per intero in bianco e nero nell’ex campo di concentramento di Sachsenhausen, 35 chilometri a Nord di Berlino, solo con audio naturale. Il film riprende molto semplicemente i visitatori nel loro tragitto dall’ingresso fino all’uscita del campo. Si vedono diverse sequenze con camera fissa, che inquadrano le persone, più o meno da vicino, durante la loro visita. Il film ha destato molto scalpore perché rivela gli atteggiamenti dei “turisti” che durante il loro percorso si fanno selfie sorridendo, si mettono in posa in foto ricordo davanti alla famosa scritta che campeggiava sui cancelli di ogni campo di sterminio nazista Arbeit macht frei, o mangiano tranquillamente panini seduti a terra a poche centinaia di metri dall’ingresso delle camere a gas. Lo stesso Loznitsa specifica che il suo intento non era quello di puntare il dito, di dare un giudizio morale, ma semmai di chiedere anche a chi guarda con disprezzo quelle immagini, se anche lui o lei non avrebbe forse fatto la stessa cosa.
Fermo immagine dal film Austerlitz, regia Sergei Loznitsa, 2016
La struttura del film è straordinaria proprio perché visivamente, strutturalmente, non emette giudizi, non usa nessuna retorica, ma con una apparente assoluta freddezza mostra lo status quo. In realtà Loznitsa, come ovvio, sceglie da dove guardare e riesce a mostrare perfettamente come e cosa guarda chi è andato lì appositamente per “vedere di persona”. Non compare quasi mai una sensazione di disagio, di vergogna o di “scomodità”, tutti sono a loro agio, camminano in gruppo, seguono le guide, scattano continuamente foto con i cellulari o con le macchine fotografiche, ma è chiaro che non è mai chiesto loro di essere “protagonisti”. Quello che mi ha più colpito nel film non sono solo le risate, i selfie, gli sbadigli o i pic nic nei campi di sterminio, ma l’atteggiamento delle guide che trattano i gruppi esattamente come tratterebbero un gruppo di turisti al Colosseo o sotto la Tour Eiffel. A un certo momento una guida che parla in spagnolo, dopo aver spiegato il destino terribile degli ebrei di Sonderkommando dice: “Nessuna domanda? Considerazioni? Ok allora adesso una piccola pausa bagno e un panino e poi ricominciamo”. Nulla di più normale in un “giro turistico”: questo è “il” problema.
In una delle inquadrature si vedono tre pali all’aperto e la guida spiega che erano pali di tortura, che non solo servivano a seviziare i prigionieri prescelti, ma che erano posti in un punto in cui anche gli altri potevano sentire. La guida finisce la spiegazione e una coppia si avvicina a uno dei pali, il ragazzo si mette attaccato al legno, alza le braccia nella posizione che simula quella che doveva essere del torturato, e la sua ragazza gli fa una foto ridendo. Cosa spinge due persone a fare questo? Perché una sensazione insopportabile di imbarazzo non li colpisce fermandoli? Per tutti i motivi fin qui detti, ma anche perché la trasformazione di molti luoghi di difficult heritage in luoghi di turismo di massa, in siti di Dark Tourism, ha prodotto una qualità della visita che forse non riesce più a rendere la complessità etica e politica del luogo, al giusto limite dell’insopportabile per il visitatore. Immaginare di “mettere a proprio agio” l’ipotetico visitatore di Sachsenhausen, con l’idea così di convincerlo a venire a visitare quel sito, e tramandargli la memoria di quegli eventi terribili, ha portato a una semplificazione drammatica, che fa si che nello stesso sito internet in cui si pubblicizza la visita al Campo di Sterminio si consiglia quella al Cimitero dei Cappuccini fatto di teschi.
Ma perché le persone si fanno dei selfie? Perché guardano quasi con disattenzione i luoghi e si concentrano nell’autoritrarsi fotograficamente con amici e parenti, o nel farsi fotografare all’ingresso di una baracca, piuttosto che all’ingresso del forno crematorio? Iniziamo con il dire che guardando il film è chiaro che da nessuna parte è vietato fotografare. Certo sembrerebbe assurdo immaginare che un luogo che dovrebbe servire alla memoria collettiva non possa essere fotografato. E infatti lo sarebbe. Ma le immagini prese dai visitatori, che a gruppi seguono un percorso stabilito, o dall’audio-guida o dalla guida in carne e ossa, che foto scattano? Cosa si portano via. La prima cosa che raccolgono, e che mostrano quasi in tempo reale – lo sappiamo ormai attraverso i social – è “io ci sono stato”. Ma essere stati in un campo di sterminio, un luogo che contiene un dolore così sordo e acuto insieme, che valore ha? I corpi dei visitatori nelle foto non mostrano mai un senso di sofferenza, non si piegano, non vacillano, sono dritti nelle pose da cartolina, spesso sorridono, guardano in macchina pressoché felici. Dunque quelle foto dicono “io ci sono stato e sono stato felice”. Com’è possibile che un corpo che entra in un luogo di sevizie, torture e morte violenta possa dire “sto bene, mi sento a mio agio”?. La considerazione che mi viene da fare è che le immagini che scattano i turisti di massa nei luoghi della difficult heritage non sono immagini che li “riguardano”, nel senso del termine “riguardare” che indica Georges Didi-Hubermann: «Ce que nous voyons ne vaut – ne vit – à nos yeux que par ce qui nous regarde. Inéluctable est pourtant la scission qui sépare en nous ce que nous voyons d’avec ce qui nous regarde» (Didi-Huberman, 1992, p. 8). Le immagini colte dai “turisti” nel film non sono immagini che restituiscono loro la realtà di quel luogo, ma solo quel percorso precostituito, preconfezionato e già visto, ancor prima di andare, in decine di foto, documentari e film, che hanno già reso sopportabile lo sguardo di ritorno di quelle immagini. Ma non li riguardano anche perché non sono immagini che chiedono un posizionamento, non chiedono un vero coinvolgimento personale, sono una delle azioni che si compiono in quel “tour” in cui poi ci si fermerà per andare al bagno, e poi ci si siederà a terra a mangiare un panino e si faranno due chiacchiere ridendo. Dunque il giovane uomo che si fa fotografare dalla fidanzata come legato al palo delle torture non sente nessuna paura, non prova nessun dolore fisico, perché non simula un vero essere umano, ma una delle decine di foto di uomini legati a un palo e torturati, dal far west agli horror movie, e seppure lui sa che in quel luogo non si è girato un film, la sua capacità immaginifica, partita da casa con l’idea di essere un dark tourist non gli chiede di prendersi una responsabilità etica, non gli chiede empatia, non gli chiede di sentire “il dolore degli altri”.
trailer di Austerlitz, regia Sergei Loznitsa, 2016
Tornando al gesto del selfie scattato all’ingresso del campo di sterminio, specialmente a quello di famiglia, spesso intergenerazionale, in cui si vedono padri o madri che possono essere nati nell’immediato dopoguerra, manca un sentimento essenziale: il senso di vergogna. La vergogna non è solo quella che si prova nel sentirsi colpevoli per qualcosa – nonostante culturalmente la maggior parte di quei visitatori sono figli di quella cultura fascista e nazista che ha prodotto quegli orrori – ma è anche quella che scatta nell’immedesimazione nella vittima. Vedere le foto dei corpi scheletrici nudi degli uomini e delle donne che vengono portati nelle camere a gas, normalmente ci suscita un senso di vergogna legata al pudore di non poterci e volerci immaginare al posto loro. Perchè dunque questo sentimento non emerge? Perché un uomo di 50 anni si fa un selfie con la figlia diciottenne e sorride davanti all’ingresso del forno? Perché non pensa con orrore a sua figlia torturata in quel luogo o a sua moglie ridotta pelle ossa e gettata come un oggetto tra gli altri cadaveri? Perché la sua cultura occidentale lo ha fatto crescere con l’idea che lui non ha avuto nessuna responsabilità, e tanto meno ce l’ha ancora oggi, perché quei carnefici, suoi avi, sono stati un manipolo di pazzi, che nessuna persona comune come lui potrebbe mai essere. Lui non può provare né la vergogna della vittima né tanto meno quella del carnefice. Dunque quel senso di disagio si cancella e si instaura un salvifico senso di agio, ogni volta che qualcuno dice che è stata una “follia”, che Hitler era pazzo, che Mussolini era solo un esaltato, cancellando le ragioni storiche dell’affermarsi di un razzismo feroce, nato ben prima dei “pazzi” fascisti e nazisti, nelle invasioni coloniali dei paesi europei moderni.
In gruppo, guidati, rassicurati da una guida che quando ci vede troppo affaticati alleggerisce parlando di pause e cibo, facendoci sentire non in un girone infernale, ma in un luogo dove poter osservare l’insopportabile senza soffrire troppo, viviamo il nostro ruolo di “turisti” della morte “altrui”. Ma tutto questo produce almeno conoscenza? Produce una forma qualsiasi di cultura?
Leggendo ancora Didi-Huberman: «Pour savoir il faut prendre position. Rien de simple dans un tel geste. Prendre position, c’est situer deux fois aumoins, sur les deux fronts au moins que comporte toute position puisque est, fatalement relative» (Didi-Huberman, 2009, p. 11). Per sapere, occorre prendere posizione e al turista non è dato nessun ruolo etico, non gli viene chiesto di prendere posizione, non gli viene chiesto di guardare con occhio strabico una scena in cui vittime e carnefici siamo sempre “noi”. Non gli viene chiesto di sperimentare quella relatività della posizione che produce una vertigine nauseabonda, che fa coprire la bocca ai cittadini tedeschi in visita a Buchenwald.
La riprova, se così si può dire, dello stato di separazione in cui questo genere di “turismo” può mettere lo spettatore lo si comprende guardando il progetto Yulocaust di Shahak Shapira. Questo artista tedesco ha semplicemente prelevato da alcuni profili Facebook, Instagram, Tinder e Grindr di persone che avevano visitato il Museo Ebraico di Berlino, le foto che avevano scattato, tutte molto giocose o scherzose, e attraverso un fotomontaggio, ha inserito dietro le persone ritratte frammenti tratti dalle foto reali dei Campi di Sterminio, con persone ridotte a scheletri, cumuli di cadaveri e corpi martoriati. Poi ha creato un sito internet, chiamandolo appunto Yulocaust, giocando in maniera molto cinica ma alche molto efficace sul linguaggio giocoso dei social media. L’effetto è stato ovviamente devastante e quel senso di vergogna che non aveva colpito i turisti nel momento in cui si sono fatti i selfie è arrivato come uno schiaffo violentissimo, svegliandoli dal loro torpore di “turisti dark”. Shapira ha anche pubblicato con le foto originali i commenti e le tag originali, tra cui una in cui una ragazza scriveva: “Jumping on dead Jews @ Holocaust Memorial” (Saltando sui cadaveri degli ebrei al Museo dell’Olocausto). L’artista è riuscito a raggiungere le 12 persone di cui aveva prelevato le foto, tutti si sono scusati e hanno tolto le foto dai loro profili. Il sito ha avuto oltre 2 milioni e mezzo di visitatori e decine di migliaia di commenti.
Shahak Shapiro, Yolocaust, fotomontaggio, 2017
Ora Shapira ha eliminato le foto, che ancora si trovano comunque facilmente nel web, e ha lasciato i commenti più significativi, tra cui la risposta della ragazza che aveva il commento del salto sui cadaveri, e in buona sostanza lei dice che era uno scherzo tra amici, una cosa fatta per ridere tra pochi, e che nel momento che tutti l’hanno potuta vedere è diventato quello che lei non voleva. Cioè come dire che in un luogo di disagio collettivo, di imbarazzo e di vergogna, ci si può ritagliare una propria percezione intima, personale che può essere totalmente aliena, persino opposta e giocosa. Dunque la nostra indignazione per quella foto, e per tutte le altre e per le riprese di Austerlitz non deve servire, a mio modo di vedere, per dare un giudizio morale fin troppo facile, ma deve farci riflettere sui sistemi di trasmissione di quella memoria difficile, sulla sua musealizzazione, assolutamente essenziale, ma forse da ripensare nelle modalità di fruizione. Occorre riflettere sul preoccupante dilagare di di un vero e proprio business, costruito a tavolino dall’industria del turismo, che ha creato il termine Dark Tourism come categoria più che pericolosamente e volutamente ampia e omologante.
Vorrei chiudere indicando un sito internet molto significativo rispetto al focus di questo mia riflessione. Il sito si chiama appunto Dark-Tourism. La Home Page del sito recita così: «This is a comprehensive guide to travel to ‘dark-tourism’ destinations worldwide. Covering some 800 individual places in 108 different countries. This site aims to promote and also rehabilitate Dark Tourism. There has been some negative reporting in the media about DT, often on the basis of an ill understood concept of DT and/or together with bad examples that are not really representative of Dark Tourism. So PLEASE NOTE from the start: Dark Tourism, as understood on this site, does NOT include anything voyeuristic (like ‘slum tourism’), NOR does it include ‘war tourism’ (travel to current war zones) or other ‘danger tourism’, NOR ‘ghost hunts’ or anything ‘paranormal’, NOR battle re-enactments … See beyond DT! It furthermore distances itself from disrespectful tourist behaviour such as selfie-taking at sites of tragedy (see also ethical issues). What IS endorsed here is respectful and enlightened touristic engagement with contemporary history, and its dark sites/sides, in a sober, educational and non-sensationalist manner».
L’autore di questo sito, è il dott. Peter Hohenhaus, che ha collaborato con l’Università di Nottingham e di Bradford, e che lo ha realizzato a sue spese, in maniera totalmente indipendente e andando personalmente a visitare molti dei siti descritti, quindi facendo un dettagliato lavoro sul campo. Nella sezione del sito che spiega cosa è il Dark Tourism, dice due cose estremamente interessanti. In primo luogo dice che si può essere dark tourist anche senza saperlo, e che se almeno una volta siamo andati a visitare il Memoriale per la Bomba di Hiroshima, o quello dell’11 settembre, ma anche le Catacombe di Parigi, si è dark tourist. Il sito specifica che non si tratta in generale di far riferimento a luoghi oscuri in senso lato, tant’è che si specifica che si parla di eventi accaduti in periodi “oscuri” della storia di un luogo. Il sito è però organizzato, come una vera e propria guida turistica, con un menù laterale con i nomi dei diversi paesi che presentano mete di Dark Tourism. I siti proposti sono davvero moltissimi: ad esempio in Thailandia, dopo aver citato il famoso Ponte sul fiume Qwai, facendo riferimento all’omonimo film, si citano i monumenti nati per le vittime degli Tzunami. In questo modo di nuovo eventi naturali e eventi storici legati all’operato del potere sono assimilati sotto una stessa categoria etica. Ma quello che appare interessante è che il sito dice in sostanza che il Dark Tourism è una sorta di fenomeno spontaneo, che di fatto si è affermato da solo per esigenza e richiesta degli stessi visitatori e che, il conseguente business turistico è solo un modo per fornire strumenti per orientarsi e essere informati. Naturalmente sono andata a vedere quali “mete” di Dark Tourism il sito consiglia in Italia e accanto al Campo di Concentramento di Fossoli vicino Parma, troviamo Pompei per la strage di massa del vulcano in epoca romana, la tragedia del Vajont, ma anche la cripta di Mussolini a Predappio, il Museo di Ustica a Bologna e poi una frase finale che dice che ovviamente a Roma data la presenza del Vaticano è pieno di siti adatti a un tour dark.
Il sito in buona sostanza non fa che mettere in fila e in buon ordine una serie di equivoci a mio modo di vedere molto pericolosi, che in parte anche alcuni studi accademici hanno raccolto, che vedono nel Dark Tourism un fenomeno di “turismo” spontaneo verso qualsiasi luogo di morte e sofferenza, quale che ne sia l’epoca storica e l’origine umana o naturale.
Occorre dunque fermarsi a pensare se questa definizione non serva invece a inserire i viaggi di conoscenza e di memoria nei luoghi della difficult heritage, intesi come siti dove sviluppare un discorso culturale legato a eventi politici e non casuali, in una più comoda categoria merceologica. L’estrema problematicità di questo tipo di approccio sta portando anche in parte a modificare l’approccio al visitatore, che non va inteso come un “turista”, ma come un essere umano chiamato a prendere posizione davanti a un evento, che i suoi simili hanno coscientemente e volontariamente provocato.
Immagine in homepage: Fermo immagine (dettaglio) dal film Austerlitz, regia Sergei Loznitsa, 2016
Bibliografia
Agamben G., Quel che resta di Auschwitz, Bollati Boringhieri, Torino 1998.
Didi-Huberman G., Ce que nous voyons, ce qui nous regarde, Les Éditions de Minuit, Paris, 1992
Didi-Huberman G., Quand les images prennent position. L’oeil de l’Histoire, Les Éditions de Minuit, Paris, 2009
Lennon J., Follley M., Dark Tourism. The attraction on the death and disaster, Cengage Learning 2000.
Macdonald S., Difficult Heritage: Negotiating the Nazi Past in Nuremberg and Beyond, Routledge, Londra 2008.
Sontag S., Regarding the Pain of Others by Susan Sontag, Farrar, Straus and Giroux, New York 2002.