Non c’è qualcosa come il raggiungimento
della verità, ma sempre solo particolari,
sebbene talvolta oggettive, vie verso la verità.
Marcus Gabriel, Il senso dell’esistenza
Una storia della danza contemporanea dell’ultimo trentennio è sicuramente impresa che abbisogna di analisi e scomposizioni lessicali in continuo aggiornamento. Argomentandosi su un materiale i cui effetti della corporeità hanno oltrepassato addirittura le aspettative dello spettatore e le intenzionalità del performer, la danza non rappresenta più un sistema scontato di comportamenti, anzi, ne sollecita altri che si nutrono della compresenza di entrambi. Se usassimo la metafora della corda di violino, si potrebbe dire che una certa danza come una corda di violino cede o si armonizza o stride in suoni puri come in gravità materiche, in uno spazio dell’azione mai rassicurante. Una corda (sempre per tenere la metafora) capace di restituire la vibrazione di una immagine, la sua percepibilità nell’incertezza della forma proposta che è continuamente altrove, disattendendo se stessa e lo sguardo dell’altro. Come scrive Laura Gemini a proposito dell’incertezza creativa, «è un sistema dinamico in cui un progetto futuro (l’evento comunicativo che si sta provando) decide, in virtù della propria struttura, cosa selezionare, cosa inventare, cosa recuperare dal passato anche quando c’è un modello originale al quale attenersi» (Gemini 2003, p. 27); la danza oggi, allora, nelle sue insinuazioni derivative da altri materiali che non sono più solo delle arti visive o performative, si appropria di ulteriori innesti o pratiche che al disincantato mood delle scomposizioni artistiche aggiungono alla sfera percettiva alcuni richiami a discipline apparentemente lontane (la ginnastica artistica, lo yoga o il tai-chi chuan o altre arti marziali, il ballo da camera, il jumping urbano, eccetera), e il tutto al servizio di un immaginario meno compresso sulle scuole o le appartenenze, meno ossequioso cioè delle tradizioni, finanche quelle dell’avanguardia.
Questo materiale, d’altronde, contribuisce a quella ricomposizione del pensiero danzato nel tentativo di individuare quelle deviazioni, quei ritorni, quel raggiungimento di una superficie estrema delle prassi e dei codici, di un linguaggio evoluto sino all’involuzione. Il termine “performance” prorompe con tutto il suo côté di indecifrabilità e indeterminatezza estetica, da non confondere però con una non appropriata consapevolezza che gli autori hanno nel decodificare il confine tra pensiero danzato e proposizione agìta. Il racconto di un tempo prossimale passa sicuramente per «assimilazioni di competenze e abitudini corporee (la postura o alcuni schemi motori e comportamentali) successivamente interiorizzate e vissute dall’individuo come “naturali”» (Franco e Nordera 2008, p. 67), ma, crediamo, anche per quella faglia concettuale di disagio e impossibilità ad autodefinire il proprio posizionamento ben descritta da Cristina Kristal Rizzo quando ci ricorda che «una performance richiede almeno un performer? Chi è l’interprete? Mi sembra che spesso siate nello stesso momento autori e interpreti delle vostre performance sonore, o no? Sento una stretta vicinanza tra quello che il mio corpo pensa quando è organizzato in una scansione dinamica e quello che la mia mente sente. Ora che ve ne parlo, mi sembra che la danza non abbia mai a che vedere con una forma. Vi sentite indispensabili per la riuscita delle vostre performance, qualcuno potrebbe suonare al vostro posto esattamente la stessa cosa?» ( Rizzo 2011, p. 59).
È un processo di scomposizione del linguaggio, una disarticolazione che prevede l’autodeterminazione dell’artista in una verità visuale ed esistenziale allo stesso tempo, pur nella dimensione della precarietà costante, un processo che rimarca il dissolvimento dei confini in un ripensamento che è prima di tutto politico, benché l’approccio poiètico solchi e mostri uno spazio intimo, del quotidiano, in cui si va a collocare quella azione «nello sforzo di liberarsi dalla retorica con cui la politica viene facilmente interpretata e traslata in poetica» (Macrì 2014, p. 5). Ed è un approccio non solo di una generazione più recente, avendo ben chiaro quale sia per questi artisti la postazione per un’osservazione panoramica e un accostamento decisamente critico che va al di là della forma – come si diceva – o della scomposizione della stessa. Come per il performer Jeremy Deller citato da Teresa Macrì nel suo Politics/Poetics, che si muove in azioni d’arte tra la presenza della propria figura totem e una autenticità fantasmagorica della cultura popolare in quanto eco ritornanti, quasi a sottolinare una possibile “traslitterazione” di sopravvivenze contenutistiche; allo stesso modo, la danza e la performance attingono a comportamenti passati comuni (citazioni, riferimenti), ribadendo un aggiornato «rapporto di omologia strutturale» (Gemini 2003, p. 114), si pongono a quella opportuna distanza da tradizioni, precisamente, senza però annullarle di significato; è un gesto, quello della danza contemporanea, di disturbo prima di tutto a se stessa, poi all’osservatore, allo spettatore non occasionale in particolare, mettendo in crisi l’orizzonte mentale sul quale è comodamente seduto.
Alcuni hanno cercato di inquadrare le varie anime artistiche che hanno smosso il terreno coreografico in questi anni, enucleando sottosistemi riferiti alla danza; altri invece si sono impegnati nel mostrare soprattutto gli interstizi motivazionali del concetto di actual nel superamento dello “spettacolo” come insieme di intrattenimento e rappresentazione del mondo, facendosi così portatori di quella “indisciplina” di cui parlava Jean-Marc Adolph e che oggi sta leggittimando a cascata una serie di aggiornamenti (e di autori) intorno allo stesso tema. Si pensi, ad esempio, alla ricerca iconica del gruppo Kinkaleri nello spettacolo Alcuni giorni sono migliori di altri, figurativamente agganciato a Jump over the Bauhaus di Theodore Lux Feininger e dove il significato coniato di scena esausta intorno al loro lavoro bene riassume lo spazio irriducibile di un territorio d’arte ferito dal claim del nostro tempo. E, infine, altri ancora hanno aderito incondizionatamente alla rêverie di un’impostazione performática che colloca l’artista in una posizione di mediazione tra esercizio della visione e condivisione di un’esperienza. È evidente che parlare di danza nel contemporano, nello spazio sociale di questo tempo, allora, significa anche cercare di capirne quale sia il fuoco, il punto, la memoria innervata che i creatori vanno a depositare in quel “perimetro” che per convenzione chiamiamo palcoscenico e che è di fatto un perimetro dislocato in tanti altri altrove oltre lo specifico del teatro.
La danza contemporanea vive, per così dire, un’eguale ansia e attitudine del secolo da poco superato, quella di decifrarsi – parafrasando Alessandro Piperno nella sua mirabile esegesi del romanzo intorno alla figura di Marcel Proust – tra un trattenere nella memoria la documentalità del corpo e uno slancio futuribile verso un altrove, appunto, che in questo momento però disintegra le centralità degli equilibri del mondo delle idee e dei valori, mettendoli in crisi. Memoria e crisi dell’esperienza, parrebbe, quasi un ossimoro per leggere il presente che sta facendo germinare forme anfibie (da una preposizione di Fabio Acca), le quali offrono una capacità di adattamento che non è soltanto estetico (il rimasticamento delle intenzioni e delle prassi), ma in più mettono in gioco una attitudine decisamente inedita, quella cioè di abbandonarsi all’imperfezione del racconto. Paradigmi opposti ma speculari: crisi, memoria, forma anfibia, imperfezione del racconto, e indisciplina come radice di un tratto esistenziale.
Attitudini queste, chissà, atte alla riformulazione di un nuovo umanesimo “qui e ora”, aggiornato alle intemperie da eccesso di significati che la connessione perenne di questo tempo digitale offre nella dialettica fra etica e modelli dominanti. A fronte delle convenzioni a cui ruotano attorno i dibattiti sullo spettacolo, ciò che chiamiamo danza e in particolare la danza di questo tempo presente, sembrerebbe ricondursi a quella che Michele Di Stefano chiamava ottusità del corpo, a una propria «negligenza ritmica […] di un immaginario legato all’alterazione degli stati corporei e su paradossi percettivi» (Di Stefano 2003, pp. 203-204), che in potenza evidenzia lo spazio, o per meglio dire il contest in cui vanno a gererarsi i fraintendimenti linguistici di quella idea che Roland Barthes ha riferito come grado zero della scrittura, ovvero come gesto oppositivo al rumore di fondo che governa la messa in esposizione delle cose.
JÉRÔME BEL, Gala © Veronique Ellena
JÉRÔME BEL, Gala © Bernhard Müller
All’idea di scomposizione se ne accompagna una identica e tangenzialmente opposta, quella della danza come affioramento di una soggettiva verità, una verità liberata anche dai canovacci e dagli obblighi del senso. Jérôme Bel è uno dei geniacci della scena europea, uno di quelli che scompaginano continuamente i presupposti e i puntelli sui quali si reggono le certezze del concepire la danza. Inverte gli schemi, ne scolora il tratto, irride le accademie, pure quelle di fattura “contemporanea”. Eppure la sua origine di danzatore, di eccellente esecutore e interprete ci restituisce un pedigree tutt’altro che non accorto alla perfezione del gesto e dell’intenzione nel segno, tutt’altro. Ma da tempo ormai ci ha abituato a una “narrazione” sregolata o, come ebbe a dire sempre Jean-Marc Adolphe, a una esposizione di un corpo critico, un corpo capace di cedere piuttosto che conquistare, che si lascia andare invece che controllarsi, che smaschera la sua verità a fronte di una incisività formale ricercata. Lo spettacolo Gala è una sorta di format che si aggiusta e calibra di volta in volta nel contesto in cui si va a depositare. Una nuova provocazione che è sì concettuale ma, stando allo sguardo dello spettatore, sembrerebbe reggersi di ipotesi interpretative che sono sempre rivedibili, dunque lo spostamento di senso anche in questa performance mette in moto in chi guarda una sostanziosa dose di empatia o di respingente indifferenza, perché il confine tra personale e universale passa per le attitudini e i gesti reali dei suoi “inaspettati” interpreti. La sua è una intelligenza d’esposizione dei corpi, chiedendo ad ognuno dei protagonisti di fare ciò che può, tentando di spostare l’asticella delle proprie potenzialità sempre un po’ più in là. Difatti, Gala è la ricerca di forme inespresse nello sforzo di tutti di seguire le intuizioni del singolo. Una composizione sempre in procinto di lasciarsi evaporare, in crisi insomma, nell’accezione di “passaggio” che in questo caso è emozionale, esperienziale per i “danzatori” e di conseguenza per noi. Un gruppo di professionisti e non, in sedia a rotelle, persone down, anziani mezz’età e giovani aitanti, smaliziati e pigri introversi, un gruppo eterogeneo di aspiranti danzatori chiamati a eseguire passi o a imitarne il modo attraverso la dinamica del follow me, in un tentativo di emulazione cinetica spiazzante quanto irraggiungibile. Una ricerca sulla propria autoironia nel gioco delle parti.
Barthes torna come punto di riferimento, in quella idea di scrittura prosciugata, esautorata da ogni possibile addentellamento retorico; in egual maniera, Jérôme Bel avvita attorno al concetto di ascolto, un “luogo” basico fenomenologico della relazione fra performer e spettatore. Nel vocabolario coreografico, il termine ascolto si nutre ormai di più aggiornate disamine, interessantissimi sbilanciamenti come avvertiva Cristina Kristal Rizzo, di corrispondenze di senso che rendono problematica la medializzazione del corpo scenico. L’ascolto ne radicalizza alcune autodefinizioni e mostra, svela, rivela quali elementi di discontinuità (inevitabilmente più attuali) sussistono nella creazione della danza contemporanea, spinta definitivamente su di un crinale estremo di verità della liveness, in altre parole refrattaria alle definizioni che l’hanno accompagnata sino ad oggi. L’ascolto del corpo, ma non solo, pone il concetto di ambiente al centro della disamina (quello spazio interstiziale, secondo ancora Michele Di Stefano) che separa il corpo dalla danza, o meglio il corpo dalla propria intelligenza sonora. L’ambiente o contest è il luogo della community, anche intesa nel senso mediale e del web, un anfratto della coscienza che sia nella concretezza dello spazio scenico piuttosto che nella riproduzione mediatica, sussiste un piano reale che ci permette di entrare direttamente all’ascolto dell’opera (direbbe Barthes) senza il filtro della formazione o della didattica a quell’ascolto.
CRISTINA KRISTAL RIZZO, Prelude © Ilaria Scarpa
Come scrive proprio Barthes, «l’ascolto è quest’attenzione “preliminare” che consente di captare tutto ciò che potrebbe alterare il sistema territoriale; è una maniera di difendersi dalla sorpresa; il suo oggetto (ciò verso cui è rivolto) è la minaccia, oppure il bisogno; il materiale dell’ascolto è l’indizio, sia che segnali un pericolo, sia che prometta un appagamento» (Barthes 2001, p. 239). Se è vero, come scrive il filosofo sudcoreano Byung-Chul Han, che «la società esposta è una società pornografica. Tutto è rivolto all’esterno, svelato, denudato, svestito ed esposto. L’eccesso di esposizione fa di ogni cosa un prodotto, che è “votato, nudo, senza segreto, al divoramento immediato” (Jean Baudrillard). L’economia capitalistica sottomette tutto all’obbligo di esposizione» (Han 2014, p. 25), come in parte aveva già “profetizzato” Paul Virilio; è altrettanto vero, però, che ogni nostra lettura o interpretazione dell’esistente – come direbbe Umberto Eco – sono, di fatto, sollecitate dall’immediatezza, dalla prossimità dei processi che abitiamo o condividiamo.
Da una parte, perciò, sembrerebbe che la restituzione che abbiamo dell’idea di mondo che ci siamo fatti o che pertiene al nostro immaginario tenga inevitabilmente conto di quelle che Marco Belpoliti chiama pieghe stesse dell’esperienza in quanto atto di mediazione fra noi e l’opera; dall’altra, invece, dichiarare una netta separazione dal logos dell’immagine permette all’opera stessa di configurarsi come oggetto vero e prorio del sensibile, fuor di metafora e oltre l‘ostensione del corpo come strumento semantico.
Il corpo ne risulta il tracciato entro cui, attorno al quale vanno a depositarsi gli accenti che abbiamo descritto. Il corpo conosce nell’apprendimento del fare, e di per sé questa condizione del performer o del danzatore è una condizione in moto continuo, per certi versi straordinaria e mai consolatoria, mai comoda. Come nel lavoro di Kinkaleri citato, dove il corpo dei due protagonisti diventa tutt’uno con lo spazio vuoto e viene da loro apostrofato “nudo”, cioè com’è realmente in quella “gara” barbarica e frenetica, dove fanno a pezzi pannelli di legno con le mani o sbattendoci la testa sopra, inevitabilmente procurandosi in questo modo reali escoriazioni sanguinolente; come gli “irregolari” danzatori di Gala, portatori ognuno di una soggettiva eversione rispetto all’obbligo del codice, in quella accelerazione commovente delle proprie possibilità in cui forzano, si superano, mettono alla prova un equilibrio della non-competenza; anche il lavoro di Cristina Kristal Rizzo Prélude sembra proporre uno scavo di segni in uno spazio spossato, mentre l’indagine della sua straniante radicalità dispiega nel palcoscenico un crocevia di “assoli” innervati nel fluire sciamico dell’insieme degli otto interpreti. Prélude si affastella e modula come un’opera in progress, tassello dopo tasselo confluiscono eco dal jazz all’euforia sinfonica alla irradiazione della concretezza urbana, liberando gli interpreti dal dover assolvere a una “parte” perché, di fatto, ogni interprete e la stessa Rizzo si muovono in quella apparente casualità dell’improvvisazione nel tentativo di definizione nel linguaggio di un proprio portato oltre la coreografia. Simultanea la scia di impossibilità coreografica in quella tensione alla coreografia, è il moltiplicarsi delle negazioni in quella radice di significati potenziali. È, infine, la fuga da un luogo confortevole qual è il suo percorso di autrice e interprete straordinaria.
Bibliografia
Barthes R., L’ovvio e l’ottuso, Einaudi, Milano 2001.
Di Stefano M., Corpo ottuso, in Corpo sottile. Uno sguardo sulla nuova coreografia europea, a cura di Fanti S./Xing, Ubulibri, Milano 2003.
Franco S. e Nordera M. (a cura di), Ricordanze. Memoria in movimento e coreografie della storia, UTET, Novara 2008.
Gemini L., L’incertezza creativa. I percorsi sociali e comunicativi delle performance artistiche, FrancoAngeli, Milano 2003.
Han B.-C., La società della trasparenza, Nottetempo, Roma 2014.
Macrì T., Politics/poetics, postmedia books, Milano 2014.
Rizzo C. K., Savage Letters, in Cantieri Exrtralarge, a cura di Acca F. e Lanteri J., Editoria & Spettacolo, Spoleto 2011.
Paolo Ruffini, autore di libri e interventi critici su magazine, scrive di live arts. Cura la collana “Spaesamenti” per la casa editrice Editoria & Spettacolo. È professore a contratto presso l’Università degli Studi di Tor Vergata di Roma.