“Nominiamo una cosa, poi un’altra. E’ così che il tempo entra nella poesia.
Lo spazio, invece, si crea attraverso l’attenzione che dedichiamo
a ciascuna parola. Più intensa è l’attenzione, più lo spazio si crea,
e dentro le parole ce n’è un sacco, di spazio.”
Charles Simic, Il mostro ama il suo labirinto.
Dove è tentata una navigazione (a vista) attraverso alcune prove d’orientamento nel museo quale luogo di discomfort. Dove tali tentativi lasciano, inevitabilmente, traccia per una navigazione orfana della stabilità di confini e di portolani credibili. Dove si riflette sul fatto che ogni museo è sempre “del contemporaneo” in quanto dispositivo orientato alla comunicazione (media) e quindi sempre chiamato a fare i conti con un visitatore/fruitore il cui sguardo è espressione delle categorie spazio temporali dell’ infra-ordinario del suo tempo.
Punto cieco
“La teoria del punto cieco. L’origine dell’espressione rimanda all’anatomia dell’occhio. Come ipotizzò il fisico Edme Mariotte nel Seicento e in seguito venne dimostrato in maniera empirica, i nostri occhi hanno un punto cieco, un luogo – sfuggente, laterale e non facilmente localizzabile – situato nella retina, che è privo di recettori per la luce e attraverso il quale, perciò, non si vede nulla; se non notiamo l’esistenza di questo minuscolo deficit visivo, di questa zona di oscurità, è per due motivi: in primo luogo, perché vediamo con due occhi, e i loro punti ciechi non coincidono, cosicché un occhio vede ciò che non vede l’altro e viceversa; e in secondo luogo perché il sistema visivo riempie il vuoto del punto cieco con l’informazione disponibile: perché il cervello supplisce a ciò che l’occhio non vede […]” (Cercas, 2016: 20). “In certo qual modo il meccanismo che sta alla base dei romanzi del punto cieco è molto simile, se non identico: al loro inizio, o nel loro nucleo, c’è sempre una domanda, e tutto il romanzo consiste nella ricerca di una risposta a quella domanda centrale; al termine della ricerca, però, la risposta è che non c’è risposta, cioè, la risposta è la ricerca stessa di una risposta, la domanda stessa, il libro stesso” (21).
In relazione a quanto sostenuto da Cercas mi chiedo dove cercare nei musei il “punto cieco” o almeno in quei musei non interessati a “dimostrare” quanto a sollecitare il visitatore, “disturbarlo nella sua tranquillità intellettuale”1. Credo che la ricerca vada indirizzata, innanzitutto, sul loro cercare di essere ostinatamente contemporanei. Luoghi dell’“inattuale” (Nietzche – Agamben)2 interessati ad offrire la possibilità di vedere e percepire oltre la superficie delle cose. Luoghi dove gli oggetti e le opere hanno la possibilità di manifestarsi densi di vita e quindi, come della vita, densi di ombre e di luminosità. Luoghi del contemporaneo interessati ad abbandonare l’offerta di comfort-zone della patrimonializzazione, per sperimentare quel discomfort che può scaturire dalla attivazione di “frizioni” fra il pubblico (nella sua quiete intellettuale)3 e i “fasci di tenebra provenienti dal suo tempo” (Agamben, 2008).
Nel Museo, come in letteratura, il punto cieco è un luogo sfuggente e difficilmente localizzabile ed è là dove la risposta alla domanda sostanziale, che quel luogo invita a cercare, è nella domanda stessa, e la domanda scaturisce dall’immagine che emerge, per ognuno (pubblico-visitatore) da quell’“effetto specchio” che il museo nel contemporaneo, se vuol dirsi “del” contemporaneo, deve invitare a cercare. Il punto cieco quindi è uno spazio discomfort della densità del museo, esistente solo in quanto “non dato”, non indicato da una autorità interpretativa e quindi mansueto ad ogni sguardo. Nel Museo il punto cieco è luogo precario e fluttuante, come lo è la vita, e quindi come la vita, è aperto. Aperto e disponibile al tempo delle narrazioni è il carattere sostanziale del cantiere museale del contemporaneo (“Il tempo diviene tempo umano nella misura in cui è articolato in modo narrativo”, ci ricorda Paul Ricoeur), (Ricoeur, 2008: 15). Nei musei del punto cieco le cittadinanze sono nomadi e capaci di apprezzare quei valori della precarietà che invitano all’avventura del contemporaneo, nel quale il racconto può diventare un luogo dell’epifania della condizione umana, luogo del processo “precario” di umanizzazione delle cose.
Tentativi a Fedora
Al centro di Fedora sta un museo dell’eventuale, le sfere di vetro “esposte” contengono le scie di probabili (eventuali) futuri. Nel museo di Fedora il navigatore del contemporaneo è invitato a orientarsi nell’individuazione di tracce capaci di fornirgli indicazione utili per la ricerca di sentieri (sempre precari) d’orientamento. Orientamento nelle mappe di quel rapporto fra spazio e tempo in cui le fratture e le faglie della storia sono indicate come territori d’interstizi del contemporaneo. Nel museo di Fedora il dispositivo-discomfort è realizzato attraverso lo spaesamento nei territori del desiderato e del possibile:
“Al centro di Fedora, metropoli di pietra grigia, sta un palazzo di metallo con una sfera di vetro in ogni stanza. Guardando dentro ogni sfera si vede una città azzurra che è il modello d’un’altra Fedora. Sono le forme che la città avrebbe potuto prendere se non fosse, per una ragione o per l’altra, diventata come oggi la vediamo. In ogni epoca qualcuno, guardando Fedora qual era, aveva immaginato il modo di farne la città ideale, ma mentre costruiva il suo modello in miniatura già Fedora non era più la stessa di prima, e quello che fino a ieri era stato un suo possibile futuro ormai era solo un giocattolo in una sfera di vetro. Fedora ha adesso nel palazzo delle sfere il suo museo: ogni abitante la visita, sceglie la città che corrisponde ai suoi desideri, la contempla immaginando di specchiarsi nella pescheria delle meduse che doveva raccogliere le acque del canale (se non fosse stato prosciugato), di percorrere dall’alto del baldacchino il viale riservato agli elefanti (ora banditi dalla città), di scivolare lungo la spirale del minareto e chiocciola (che non trovò più la base su cui sorgere)” (Calvino, 1972: 39).
Il museo di Fedora interroga: il contemporaneo è il tempo del nostro immediato? Un tempo che con un inizio e una fine “in vista” possiamo delimitare e guardare come fenomeno? E’ un tempo di cui abbiamo sentore perché ci sommerge? E in quanto sommersi, possiamo tentarne un abbraccio critico? Il contemporaneo pare sfuggire alla storia perché la storia fagocita come il mare può fagocitare chi vi è immerso. Allora il contemporaneo diventa il luogo dei tentativi di cittadinanza al mondo, delle apertura all’evento, dell’esperimento dei processi d’immersione e distinzione. In tal senso vorrei tentare alcune rotte binarie di navigazione per un museo del contemporaneo quale luogo di discomfort:
Tempo/senso (museo/altrove)
Il museo è sempre un luogo dell’Altrove. L’evento è il tempo dell’immediato contemporaneo il cui senso perde la propria opacità nell’immanenza della percezione di ogni Altro da sé: “L’altrove è uno specchio in negativo. Il viaggiatore riconosce il poco che è suo, scoprendo il molto che non ha avuto e non avrà” (Calvino, 1972: 35).
Inattuale/interstizi (museo/asincronia)
Sguardo sul contemporaneo, indagandone gli interstizi, attraverso quelle pratiche dell’inattuale (Nietzsche) che spostano il baricentro della posizione/postazione dell’osservatore, rendendolo asincrono al concatenamento degli eventi. La pratica d’asincronia pone in evidenza gli spazi interstiziali nei quali il museo contemporaneo ha le proprie densità.
Avvenimento/abituale (museo/infra-ordinario)
Con l’aiuto di George Perec: “quel che ci parla, mi pare, è sempre l’avvenimento, l’insolito, lo straordinario: articoli in prima pagina su cinque colonne, titoli e lettere cubitali. I treni cominciano a esistere solo quando deragliano, e più morti ci sono fra i viaggiatori, più treni esistono; gli aerei hanno diritto di esistere solo quando sono dirottati […] Quello che succede veramente, quello che viviamo, il resto, tutto il resto, dov’è? Quello che succede ogni giorno e che si ripete ogni giorno, il banale, il quotidiano, l’evidente, il comune, l’ordinario, l’infra-ordinario, il rumore di fondo, l’abituale, in che modo renderne conto, in che modo interrogarlo, in che modo descriverlo?” (Perec, 1994: 11-12).
Fratture
Fra 9 ottobre e 13 novembre 1948, Merleau-Ponty interviene sul canale nazionale della radiodiffusione francese” su Esplorazioni del mondo percepito: le cose sensibili: ”è una tendenza diffusa quella che riconosce tra l’uomo e le cose non più un rapporto di distanza e di dominazione, ma un rapporto meno chiaro, una prossimità vertiginosa che ci impedisce di coglierci come puro spirito separato dalle cose o di definirle come puri oggetti senza alcun attributo umano” (Merleau-Ponty, 2002: 39). Merleau-Ponty sottolinea una frattura già realizzata. Una frattura che, dopo Auschwitz e Hiroshima, interrogherà insistentemente il museo (contemporaneo) invitandolo a partecipare alla vertigine di un necessario discomfort e quindi ad una critica della museografia della “vetrificazione” delle testimonianze storiche e antropologiche.4
Fratture:
– 27 gennaio 1945 Auschwitz – Consapevolezza dell’avvenuta frattura, irrimediabile, della distanza (rassicurante) fra soggetto e oggetti. Fra corpo e cose, che emerge dai cumuli nei depositi di Auschwitz (valigie, scarpe, occhiali).
– 6 agosto 1945 / agosto 1955 Hiroshima – Il lasso di tempo fra l’esplosione della bomba e l’inaugurazione del Museo della Pace di Hiroshima. Nelle vetrine del museo liste materiali di oggetti per una sorta di catalogo della distruzione (in una vetrina un triciclo).
Ethnographic discomfort
Spesso la perentorietà dell’esposizione museale permanente pare entrare in una sorta di contraddizione con le discipline che l’inaugurano e quindi con la ricerca stessa. La “permanenza” dell’esposizione spesso smorza l’originale potenzialità dialogica del progetto museale tendendo, per il carattere della sua rigidità, a fargli assumere sempre più una natura dimostrativa, quasi che permanenza e “ragion d’essere” del museo possano entrare in “conflitto di missione”. Diversamente il temporaneo, il provvisorio e il “precario” spesso sostengono la capacità dialogica e di negoziazione interpretativa del museo (da molte esperienze in atto emerge che nella forma dell’installazione temporanea, quando a questa è dato il valore di scrittura aperta, il museo d’antropologia possa riconnettersi con la natura etnografica che insegue).
Che sia giunto il tempo per una critica radicale all’esposizione etnografica quando questa si realizza in allestimenti permanenti? Che la natura antropologica dell’esposizione non possa più sottrarsi dal dover fare concretamente i conti con la scrittura etnografica e con il valore della sua provvisorietà? Che l’esporre etnografie possa ricondurre la missione antropologica del museo, alla ragion d’essere sostanziale del suo statuto di “sguardo sulle umanità”, che per loro natura sono fluide, mai date, in divenire, interlocutorie? E quali i frutti più interessanti nati dal rapporto fra scrittura etnografica e arte contemporanea?
Conclusioni in forma di tentativo di declinazione di alcuni lemmi per un lessico (provvisorio) della pratica museale, là dove questa sia orientata al tentativo del museo di uscire dalla sua comfort-zone, e tutto ciò al fine di sostenere quella sua “ragion d’essere” indirizzata ad una problematizzazione del presente:5
– Trasformazione: proliferazione delle cellule temporali nel brodo di co(u)ltura del contemporaneo. La trasformazione produce scie, la documentalità le memorizza.
– Contatto: tentativi di realizzazione di connessioni significative nelle quali alla precarietà, provvisorietà, opportunità e opportunismi, è affidato il mandato generativo di mappe di navigazione nel contemporaneo.
– Vuoto: densità dell’esistente in cui la galassia degli interstizi si nutre delle possibilità del contemporaneo.
Se il museo contemporaneo è chiamato sempre più ad ospitare pratiche di negoziatore di narrative interpretative, ne segue che l’etnografia che lo abita, più che una “disciplina al museo” debba essere un’arte (spesso artigianale): l’arte del permettere tessiture di dialoghi interpretativi, che richiede non solo rigore, ma una buona dose d’immaginazione, creatività e disponibilità a processi di discomfort.
1 J. Hainard e M-O. Gonseth, per il MEN di Neuchatel dichiarano:
Exposer, c’est troubler l’harmonie / Exposer, c’est déranger le visiteur dans son confort intellectual / Exposer, c’est susciter des émotions, des colères, des envies d’en savoir plus / Exposer, c’est construire un discours spécifique au musée, fait d’objets, de textes et d’iconographie / Exposer, c’est mettre les objets au service d’un propos théorique, d’un discours ou d’une histoire et non l’inverse / Exposer, c’est suggérer l’essentiel à travers la distance critique, marquée d’humour, d’ironie et de dérision / Exposer, c’est lutter contre les idées reçues, les stéréotypes et la bêtise / Exposer, c’est vivre intensément une expérience collective.
2 “È davvero contemporaneo chi non coincide perfettamente col suo tempo né si adegua alle sue pretese ed è perciò, in questo senso, inattuale; ma, proprio attraverso questo scarto e questo anacronismo, egli è capace più degli altri di percepire e afferrare il suo tempo” (Agamben, 2008).
3 Vedi J. Hainard e M-O. Gonseth, cit.
4 Da vicino o da lontano, abbiamo sentito il cigolio dei cancelli di Auschwitz e avvertito l’odore del dopobomba di Hiroshima. Noi che siamo contemporanei a quegli eventi che si ripetono come eco di una impensabile eventualità. Sono fra quelli che pensano che il tempo che denominiamo contemporaneo, abbia avuto inizio il 27 gennaio 1945, cioè all’alba della consapevolezza dello sterminio.
5 Sull’argomento vedi Amselle, 2017.
Tutte le fotografie sono di Mario Turci
Tutte le fotografie sono di Mario Turci
Bibliografia
G. Agamben, Che cos’è il contemporaneo, Nottetempo, Milano, 2008.
J-L Amselle, Il museo in scena. L’alterità culturale e la sua rappresentazione negli spazi espositivi, Meltemi, Milano, 2017.
I. Calvino, Le città invisibili, Einaudi, Torino 1972.
J. Cercas, Il punto cieco, Guanda, Parma, 2016.
D. Chevallier, A. Fanlo (a cura di), Exposer, s’exposer: de quoi le musée est-il le contemporain?, MuCem, Marsiglia, 2016.
P. Clemente, E. Rossi, Il terzo principio della museografia, Carocci, Roma, 1999.
J. Clifford, Strade. Viaggio e traduzione alla fine del secolo XX, Bollati Boringhieri, Torino, 2008.
E. Grazioli, La collezione come forma d’arte, Jhoan&Levi, Monza, 2012.
J. Hainard, R. Kaehr, (a cura di), Objects préyextes, objects manipulés, MEN, Neuchatel, 1984.
I. Karp, S.D. Lavine, Culture in mostra. Poetiche e politiche dell’allestimento museale, Clueb, Bologna, 1995.
V. Lusini, Destinazione mondo, Forme e politiche dell’alterità nell’arte contemporanea, Ombre corte, Verona, 2013.
F. Marano, L’etnografo come artista. Intrecci fra antropologia e arte, CISU, Roma, 2013.
M. Merleau-Ponty, Conversazioni, SE, Milano 2002.
V. Padiglione, Poetiche del museo etnografico, La Mandragola, Imola, 2008.
G. Perec, L’infra-ordinario, Bollati Boringhieri, Torino 1994.
P. Ricoeur, Tempo e racconto. Volume 1. Milano, Jaca Book, 2008.
C. Simic, Il mostro ama il suo labirinto, Adelphi, Milano 2012.
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Mario Turci Antropologo, Architetto e Museologo. Direttore del Museo Etnografico di Santarcangelo di Romagna, del Museo Ettore Guatelli (Ozzano Taro – Parma), docente di “Scenografia e allestimento museale” presso la scuola di specializzazione in Beni DEA dell’ Università degli Studi di Perugia e di “Expografia etnografica” presso la scuola di specializzazione in Beni DEA dell’ Università degli Studi Roma “La Sapienza”. E’ stato docente di “Storia delle cultura materiale” e di “Antropologia Museale” presso l’Università degli Studi di Parma.