Il rapporto fra i musei e il concetto di empatia è divenuto sempre più centrale nelle politiche museologiche contemporanee. Eppure è un tema antico, tornato poi in auge alla fine dell’Ottocento. Ma perché è oggetto di discussione adesso? È solo uno slogan, o piuttosto un bisogno profondo? E in che modo i musei possono far riferimento all’empatia per contrastare i pregiudizi e gli stereotipi?
In questo articolo parto dal presupposto che il tratto comune e fondante di molte esperienze che ruotano intorno al concetto di empatia, e loro requisito fondamentale, sia la presenza del corpo, la messa in gioco di persona, non delegabile. Di più. L’empatia è in sé un concetto profondamente corporeo: non esiste senza un moto fisico, un gioco di rispecchiamento che chiama in causa innanzitutto il corpo. In particolare, lo sguardo e il contatto sono centrali nelle pratiche (anche quelle museali) fondate sull’empatia, e ne costituiscono il punto di forza e di innovazione rispetto al “please don’t touch”, il classico mantra museale.
Proverò a porre in forma aperta la domanda sulla “sostenibilità” del concetto di empatia, fuori dall’ubriacatura di certe derive contemporanee, partendo da alcune esperienze che considero paradigmatiche. In particolare, penso che il museo si debba interrogare con forza sulla possibilità di essere un luogo di incontro fra persone: uno spazio adeguato per incontri strutturati ma personali.
Credo che le esperienze in cui il museo ha invitato, o semplicemente lasciato entrare gruppi e comunità fragili abbiano, in questo momento storico, più ragion d’essere di tante mostre temporanee, workshops o seminari frontali, e facciano emergere un’immagine nuova del museo in quanto istituzione che si pone anche la domanda sulla coesione sociale e sulla propria responsabilità a riguardo. Questo prevede, certo, la volontà di dotarsi di un set di competenze, ma ancor prima una scelta epistemologica forte. Ne parleremo più avanti.
John Isaacs, The architecture of empathy, 2014. Courtesy Galleria Massimo Minini and the artist.
Ph Credit: Bloomlab.it
Laura Boella nota che la parola che usiamo in italiano deriva dal greco pathein, patire, mentre i tedesco Einfühlung rimanda al verbo fühlein, sentire. In entrambe i casi, scrive l’autrice, “L’empatia, fin dall’estetica del Settecento, è un immergersi nelle cose, un sentire se stessi, proiettare e travasare i propri sentimenti e stati d’animo in ciò che ci sta davanti”.
Il termine “empatia”, di diffusione relativamente recente in Italia, perlomeno fuori dai circuiti della psicologia, è diventato negli ultimi anni oggetto di una vera e propria euforia mediatica, che rischia di banalizzarlo. Questo boom è avvenuto soprattutto a seguito delle ricerche nell’ambito delle neuroscienze – la famosa scoperta dei neuroni specchio nei primi anni ’90 – , che hanno approfondito il concetto dimostrandone la presenza negli esseri umani fin dalla prima infanzia: si tratterebbe dunque di una competenza innata, fondamentale per la coesione sociale, che con l’età adulta viene mitigata dalle convenzioni, dai pregiudizi e dalle esperienze negative (Krznaric, 2015). Il famoso discorso di Barack Obama sulle possibili conseguenze dell’empathy deficit del 2006 ha fatto il resto. Dall’ambito delle neuroscienze, il concetto si è esteso velocemente a quello dell’economia (Rifkin, 2010), del design (il metodo del Design Thinking messo a punto a Stanford una quindicina di anni fa) e, più in generale, dell’innovazione culturale.
Ma perché l’empatia è importante per i musei? In che termini l’identificazione, l’ascolto, la comprensione profonda a livello emotivo prima che razionale possono diventare un elemento della missione museale? E come non confondere l’empatia con l’emotività, di cui i musei a volte si riempiono la bocca a sproposito? “Vogliamo emozionarvi”! No, grazie, per carità: niente come l’esplicitazione del desiderio gli tarpa le ali.
Entrando più in profondità nel dibattitto attuale, il concetto di empatia si declina fondamentalmente in due direzioni: dal museo verso i suoi visitatori (è il metodo del Design Thinking for Museums, o Human Centered Design, approfondito in particolare da Dana Mitroff Silvers), e fra i visitatori e i singoli, le comunità, i popoli rappresentati nelle collezioni, attraverso la mediazione fisica dell’oggetto o opera d’arte. In questo caso l’empatia riguarda, dunque, soprattutto l’interpretazione, secondo la declinazione di Regan Foster o quella più orientata alla definizione di museo come attore civile di Gretchen Jenning.
Lo “Stereotypes Container” del Rautenstrauch-Joest Museum di Colonia, progettato dall’Atelier Brückner.
Ph. Credit: Nikolai Wolff
I musei devono essere, per loro statuto, luogo dell’incontro con l’altro e con la sua rappresentazione: manufatti, simulacri, opere d’arte sono lì per parlarci di varietà, diversità, e dunque, per converso, di similitudini e vicinanze. Negli ultimi decenni, i musei sono diventati sempre più consapevoli dell’estrema delicatezza con cui maneggiare il concetto di diversità: che si ramifica sempre più, si fa insidioso nelle parole (pensiamo al recente lavoro del Rjiksmuseum per emendare la terminologia “razzista” del vecchio catalogo); politico nella scelta di inclusioni o omissioni; fondamentale nel far emergere temi minoritari, scomodi, silenziati. Fino a un decennio fa, per esempio, in Italia si parlava genericamente, a livello di media, di “immigrati”; oggi, se parliamo di migrazioni, bisogna distinguere fra neoarrivati e migranti di lungo corso, magari oggi con cittadinanza; fra migranti economici, profughi, rifugiati, richiedenti asilo; i figli di immigrati non sono certo immigrati a loro volta, e allora bisogna distinguere fra le seconde e le terze generazioni. E così via.
Come scrive Laura Boella, fuori dalla posizione heideggeriana secondo cui “gli altri diventano una componente dell’esistenza umana che sussiste anche quando non si traduce in esperienza reale di relazione”, Emmauel Lévinas ha fatto diventare l’altro un “evento traumatico che confuta qualsiasi pretesa del soggetto di avere una presa sulla realtà, di conoscere e riconoscersi. La relazione con altri è stata pertanto il formidabile detonatore che ha fatto esplodere l’ossessione per il medesimo, per la totalità, e per tutte le forme di ripiegamento del soggetto su di sé” (Boella, 2009, pp. XXII-XXIII). Solo pochi anni fa Jeremy Rifkin parlava di una società avviata “verso il picco dell’empatia globale” (Rifkin, 2010, p. 389). Dopo le recenti stragi terroristiche, non lo pensiamo certamente più: di nuovo si sono polarizzate le posizioni, di nuovo la politica ne diviene ostaggio o volano.
A maggior ragione, i musei sono chiamati a mettere in campo strumenti di contrasto verso il pregiudizio e lo stereotipo rispetto a provenienza, questioni di credo religioso, di identità di genere e sessuale, di affiliazione politica, di gusti, preferenze, stili di vita e così via. In questo processo di presa di consapevolezza, il museo è una voce fra le tante, non necessariamente la più autorevole, e deve parlare a più voci, proprio per raggiungere pubblici diversi, con diverse suscettibilità, rivendicazioni, richieste di visibilità (Sandell e Nightingale, 2012).
Il moto verso una maggiore capacità di coinvolgimento di pubblici diversi e la creazione di uno sguardo attento tanto alle collezioni quanto ai visitatori richiede ai musei capacità di ascolto su una molteplicità di temi. Le narrazioni biografiche e i vissuti dei singoli individui, in quanto tali o in quanto facenti parte di un gruppo, diventano sempre più importanti, in particolare per i musei etnografici e antropologici, ma non solo. Il museo, dunque, come luogo dell’incontro e della relazione: un cambio di paradigma radicale rispetto al codice comportamentale del silenzio, della contemplazione individuale, della smaterializzazione dei corpi. Il pregiudizio – la constatazione è banale – nasce dall’assenza di conoscenza di prima mano, e prospera nel sentito dire. Servono dunque spazi per l’incontro personale: servono luoghi accoglienti progettati per far parlare le persone. Infatti, nota ancora Boella, esiste “uno scarto profondo tra il dato oggettivo dell’infinità di scambi sociali in cui siamo giornalmente coinvolti e l’esperienza corrispondente del singolo. La pluralità, l’essere insieme è dispersione e disparità, un incrociarsi di mondi privati a partire dai quali occorre istituire sempre di nuovo il senso dell’essere-in-comune così come dell’essere-in-relazione, secondo il significato più profondo dell’idea di politica di Hannah Arendt” (p. XXXVI).
A mile in my shoes, una proposta dell’Empathy Museum.
Fonte: http://www.empathymuseum.com/
Il successo dell’Empathy Museum, un progetto virtuale inaugurato a Londra nel 2015 con A mile in my shoes, è in questo senso emblematico. Qui il corpo è protagonista: il percorso inizia in uno spazio a forma di grande scatola di scarpe (usate); il visitatore ne sceglie e indossa un paio e viene invitato a percorrere un miglio ascoltando la storia della persona a cui appartenevano (nelle edizioni svolte fino a ora, quella al Totally Thames Festival di Londra e al Perth International Arts Festival nel 2016, ciò avveniva all’aperto, in aree verdi). L’invito è a mettersi nei panni degli altri, concretamente, con riferimento alla locuzione inglese. Il fondatore dell’Empathy Museum, il filosofo e politologo Roman Krznaric, è un esperto comunicatore, uno fra i fondatori di The School of Life, una scuola londinese in cui si fanno corsi di una pluralità di discipline, dall’intelligenza emotiva alla leadership, dal public speaking alla gestione dello stress. E il tema del museo dove si colloca?
I musei vanno di moda, ma non tutto è museo. Anche se l’impatto di operazioni come il Museum of Empathy è facilmente comprensibile (perché ben comunicato, non troppo impegnativo emotivamente e perfino fotogenico), bisognerebbe essere più rigorosi. L’Empathy Museum non è un museo né una mostra, è un’esperienza di movimento e ascolto in spazi aperti: che è qualcosa di molto interessante, ma anche di ben diverso.
Molto più pertinente, dal punto di vista disciplinare, è la declinazione di questa stessa intuizione inserita nell’offerta del Museo Popoli e Culture di Milano. In your shoes è un percorso a cura di Donatella Darinka Reali con la supervisione delle curatrici del museo, Paola Rampoldi e Lara Fornasini. Il tema del percorso è il cammino, e il messaggio è che la scoperta dell’altro non è un’epifania, ma un percorso lento e spesso faticoso. Il processo di conoscenza passo passo transita anche – non solo – attraverso l’empatia. Si parte da un paio di scarpette cinesi del 1911, quelle indossate dalle donne dell’aristocrazia che portavano a terribili malformazioni di piedi e di tutto il corpo. Siamo così confrontati con l’aspetto “scomodo” delle culture, quello che sollecita il giudizio negativo. Dopo un’esplorazione dello spazio attraverso il proprio camminare, i visitatori sono invitati a scambiarsi le scarpe fra loro, o a indossarne altre fra quelle messe a disposizione dal museo. Questa proposta, che deliberatamente non viene comunicata prima del workshop, suscita stupore, ma nessuno si sottrae: anzi, è interessante notare che normalmente i partecipanti vogliono tenere le scarpe “altrui” ai piedi fino alla fine del workshop, anche se sanno di poterle togliere.
Corpi in dialogo al museo: Biblioteca vivente
Torniamo al progetto Empathy Museum. Uno strumento utilizzato nel progetto è la Biblioteca Vivente, o Human Library, proposta dapprima alla Whitechapel Gallery di Londra e poi in vari altri luoghi.
In Italia, diverse sono le realtà che applicano questo strumento a contesti diversi. In particolare, la cooperativa ABCittà ha realizzato a oggi una ventina edizioni di Biblioteca Vivente, fra cui diverse al carcere di Bollate, e poi in biblioteche rionali, spazi pubblici, mercati e altri contesti.
Qui mi concentrerò su due edizioni sperimentali ed emblematiche, alla cui progettazione e realizzazione ho partecipato personalmente: quella al Museo del Novecento di Milano sul tema della salute mentale1 e quella al MUDEC-Museo delle Culture sul tema della diversità culturale2, entrambe svolte nel 2015.
Biblioteca Vivente al Museo del Novecento di Milano, 2015
Tornando alla questione disciplinare e metodologica sollevata a proposito dell’Empathy Museum, abbiamo insistito molto perché il museo non fosse lo sfondo “passivo” dell’esperienza, ma un luogo da interpellare attivamente nella sua specificità, costituita dalle collezioni. Avremmo voluto che i colloqui avvenissero in prossimità degli oggetti o delle opere, ma questo non è stato possibile per motivi logistici (è infatti importante che i colloqui si svolgano in un unico ambiente, o in ambienti tra loro contigui, perché una sorta di “regia”, leggera ma presente, garantisca il giusto ritmo dell’esperienza).
In estrema sintesi, Biblioteca Vivente consiste in un incontro personale fra due persone, un “libro umano” e un lettore, intorno al tema del pregiudizio e dello stereotipo, partendo da un racconto autobiografico. Il “libro umano”, una persona che in qualche momento o lungo tutta la sua vita si è sentita oggetto di pregiudizio, in genere individuata dal gruppo promotore (gli operatori attivi su uno specifico tema o interessati allo svolgimento dell’esperienza), frequenta un percorso di formazione che lo porta a mettere a fuoco dei temi, legarli a episodi autobiografici, trasformarli in un racconto. Se, durante il percorso di formazione, si accorge che questa disponibilità non c’è più – perché l’argomento è troppo doloroso, perché non si sente a suo agio o per qualsiasi altro motivo – può rinunciare fino all’ultimo momento. Durante l’evento di Biblioteca Vivente vero e proprio c’è spazio per l’interazione, le domande, la spontaneità, però entro un tempo stabilito (in genere mezz’ora), per garantire che diversi lettori possano “consultare” lo stesso libro. I lettori scelgono i libri sulla base di un elenco e di una “quarta di copertina” che accenna, con pochi tratti, ai contenuti del racconto. All’uscita sono invitati a scrivere una “recensione”, che viene poi condivisa con i libri stessi, nei giorni successivi.
Torniamo al tema della specificità del museo. Al Museo del Novecento, come si è detto, si parlava di salute mentale, e i “libri umani” erano persone legate al tema in quanto pazienti, operatori, familiari. Abbiamo proposto loro un percorso di visita nelle sale che li portasse a legarsi a un’opera a loro scelta. Abbiamo scelto una rosa di opere che ci sembrava potenzialmente aperta alla più vasta interpretazione possibile, senza alludere in modo diretto al disagio mentale: dal Quarto Stato di Pellizza da Volpedo alle opere dei Futuristi, dai dipinti degli anni Trenta (Carrà, Marussig, Morandi) alle serie dei Tagli e dei Concetti Spaziali di Lucio Fontana, fino alle opere di Gastone Novelli (Rosso fiore della Cina e Il re delle parole). Abbiamo chiesto a ciascuno di esplicitare per quale motivo avesse scelto una determinata opera. Delle cartoline, distribuite al momento dell’evento, spiegavano il legame fra il “libro” e la sua opera, e volevano essere un invito ad andare a cercare quell’opera.
Biblioteca vivente al MUDEC-Museo delle Culture di Milano, 2015
Al MUDEC-Museo delle Culture, il progetto si inseriva all’interno di un percorso svolto dall’Amministrazione insieme all’Associazione Città Mondo, che raccoglie diverse realtà culturali sia legate a specifiche comunità straniere, sia vocate alla produzione artistica con un focus sull’incontro fra culture, interlocutrice importante dell’Amministrazione nella programmazione di eventi culturali e mostre.
Qui, la proposta è stata quella di scegliere degli oggetti presenti nei depositi della collezione, partendo da ricordi personali e dal racconto autobiografico in corso di definizione. Un kit di facilitazione, impostato a partire da domande personali, ha facilitato la scelta dell’oggetto. L’indicazione di massima era di non selezionare oggetti legati alla propria cultura di origine, ma anzi di provare a scompaginare un po’ le carte, procedere per associazioni, affidarsi al potere evocativo degli oggetti rispetto alla propria narrazione.
Il museo ha messo a disposizione una vetrina in cui sono stati raccolti tutti gli oggetti selezionati (per motivi di conservazione non è stato possibile mostrarli fuori dalla teca, come in un primo momento ipotizzato), accompagnati da una didascalia prodotta dai “libri umani”.
Il pannello posto di fianco alla vetrina recitava:
Avvicinatevi.
Gli oggetti di questa vetrina provengono dalla collezione del MUDEC. Sono stati selezionati dai “libri umani” che oggi pomeriggio condivideranno con i visitatori un frammento della loro storia nell’ambito del progetto “Biblioteca Vivente”.
Sono stati scelti perché evocano ricordi, immagini, frammenti della loro biografia, pur appartenendo a un’altra cultura, magari a un’epoca storica molto lontana. Perché i musei sono luoghi di associazioni inaspettate, in cui ciascuno trova un pezzo di se stesso.
Il tema di cui si parla è il pregiudizio, lo stereotipo, il preconcetto. Il nostro verso gli altri. Quello degli altri verso di noi. Quello di ciascuno verso l’altro, se appena è diverso. Ma diverso da chi? Da che cosa?
I “libri umani” delle associazioni aderenti al Forum della Città-Mondo sono persone provenienti da tutto il mondo. Di pregiudizi ne sanno qualcosa, e ci aiutano a parlarne, senza peli sulla lingua. Per questo vi invitiamo a “Biblioteca Vivente”. Venite ad ascoltare una storia preparata per voi. Venite a mettervi in discussione.
Uno dei temi centrali, naturalmente, è la valutazione dell’impatto di queste esperienze. Quale il portato, sul lungo periodo? Quale il percepito, sia per il libro che per il suo lettore? Che cosa si muove, che cosa continua a muoversi anche nella distanza? Il principio di fondo, infatti, è che si tratti di un vero dialogo, e che dunque gli interlocutori escano entrambi trasformati dall’esperienza. Non c’è chi dà e chi riceve, ma uno scambio dinamico.
Riporto qui sotto alcuni estratti da una serie di interviste rispetto all’esperienza presso il Museo del Novecento e il MUDEC, svolte in occasione della redazione di questo articolo, rivolte sia a “libri umani” che a lettori:
Che cosa ti rimane dell’esperienza di Biblioteca Vivente, a distanza di qualche mese?
Cristina (libro umano, Museo del Novecento): Mi rimane la conferma che la cultura è relazione. La scommessa è stata far vivere queste relazioni tra i cittadini che hanno scelto di abitare l’esperienza della Biblioteca Vivente. Quando la cultura è viva passa di bocca in bocca. Dai libri viventi ai loro lettori, da questi lettori a amici e conoscenti così da creare un canale comunicativo che giunge anche a chi quell’esperienza non l’ha vissuta in prima persona ma in modo vivido e emozionante. Fare cultura sul tema della salute mentale equivale a lottare efficacemente contro lo stigma. Rimane intatta anche dopo diversi mesi la sensazione di piacere dell’incontro con persone curiose di conoscere la storia che avevo in serbo per loro mettendosi in gioco in prima persona, mostrando interesse o stupore, rispecchiandosi o tenendosi a distanza. Sento ancora oggi una forte gratificazione e arricchimento derivati dall’esperienza di Biblioteca Vivente.
Barbara (libro umano, Museo del Novecento): Come Libro Vivente mi è rimasto qualcosa “dentro”… soprattutto l’aver attraversato un guado, essermi bagnata in un’esperienza totalmente nuova. Mi resta poter aver usato il coraggio, quello vero, perché sono andata in qualcosa che non conoscevo e con paura. Qualcosa che non comportava solo l’uso della testa e della riflessione, qualcosa che mi faceva sentire esposta e nuda in un certo senso. Questo me lo sono letta come qualcosa che a me ha permesso di sentirmi più vicina e simile anche agli altri libri viventi, sebbene per alcuni non fosse totalmente nuova la situazione.
Mela (libro umano, MUDEC): Il ricordo dell’esperienza da me vissuta con la Biblioteca vivente al MUDEC è ancora molto nitido, perché mi ha spinto a ricordare e riflettere su vicende del mio passato, scoprendo che nonostante la lontananza nel tempo e le stratificazioni di altre esperienze, non era cambiata la percezione di quei momenti. Inoltre la reazione dei miei compagni alle mie storie è stato come guardarsi allo specchio con antiche percezioni ma da un’altra dimensione e con lo sguardo che ho maturato oggi.
Il fatto di essere l’unica italiana del gruppo non è stato un problema proprio perché la mia dimensione quotidiana è di vita con stranieri, dunque le storie ascoltate sui pregiudizi da parte dei miei compagni le condividevo e le conoscevo già perché vissute anche sulla mia pelle. Ma scoprire senza saperlo che anche io avevo dei pregiudizi da rivendicare come italiana mi ha dato modo di ri-centrarmi sul mio mondo di occidentale pur essendo in mezzo a provenienti da paesi extra comunitari. E’ stato come trovarsi nel posto giusto nel momento giusto, una magica coincidenza ritrovarsi lì proprio mentre il mio percorso è di ritrovare me stessa indipendentemente dal mio essere ricercatrice di culture altre, autrice di libri che recuperano culture altre, avendo vissuto anni in paesi di cui avevo assorbito modi di essere, lingua e mentalità altre…
Giancarlo 1.0
Fiorenza 1.1
Anna 1.2
Essere in un museo ha voluto dire qualcosa, per te (in termini di relazione con l’opera scelta, con l’ambiente, con il pubblico, con il valore simbolico del museo)?
Claudia (libro umano, Museo del Novecento): Essere in un museo ha significato occupare fisicamente e attivamente un luogo dove la cultura è custodita e viene mostrata per produrne altra. Intrecciando un tema sociale con l’estetica del luogo. Collegando storie personali a opere di artisti che parlano di altre personali narrazioni attraverso la comunicazione visiva. Essere in un museo pubblico ha reso davvero di tutti i cittadini un’esperienza che abbiamo vissuto in un limitato numero di persone, ma che è stata offerta alla città tutta.
Barbara (libro umano, Museo del Novecento): Essere in museo ha reso l’esperienza più significativa ed impattante per quanto riguarda il mio vissuto, anche per via di quello che ho risposto sopra alla domanda precedente. Un museo, il Museo del Novecento, un luogo di cultura vero, riconosciuto da tutti e non solo un posto per addetti ai lavori (per intenderci: non uno degli studi di psicologi in cui lavoro, non uno spazio della salute mentale che magari nella vita uno potrebbe non averci mai a che fare…), un luogo del bello, di “immagini” che hanno lasciato una traccia, la cui strada è stata incrociata da storie personali.
Mela (libro umano, MUDEC): Il fatto di fare l’esperienza della Biblioteca vivente in un ambito come un museo non è stata per me un fatto inusuale. Ritrovare attraverso la ricerca di un oggetto nel deposito del MUDEC una traccia così vivida e coerente con il mio vissuto e persino con la storia che raccontavo è stata una conferma sul fatto di trovarmi nel posto giusto, un luogo che mi appartiene, a Milano.
Giancarlo 2.0
Fiorenza 2.1
Anna 2.2
Che ruolo ha avuto il corpo (lo sguardo, la presenza fisica, la distanza dal tuo interlocutore, il contatto, e dunque l’eventuale imbarazzo o disagio, o invece senso di contenimento e comprensione)?
Claudia (libro umano, Museo del Novecento): Il corpo è stato il protagonista dello scambio tra libro umano e lettore. La scelta stare vicini o lontani, di diminuire la distanza durante la lettura per aumentare l’ascolto, decidere di abbracciarsi o stringersi la mano a fine incontro, la possibilità di lasciare libero flusso alle emozioni con le lacrime, con le espressioni del viso, con i movimenti del corpo. Il primo impatto è poi con l’immagine corporea del libro umano, come si fa con i libri veri si osserva la copertina e ci si fa una prima idea, poi magari questa cambia con la scoperta del contenuto. Il corpo era pregno di significati tanto quanto la storia che la voce ha presentificato.
Barbara (libro umano, Museo del Novecento): Il corpo è stato fondamentale, e così la maglietta con la scritta “Libro umano”, nel senso che mi ha fatta sentire “protetta” e allo stesso tempo mi ha messa in grado di calarmi nella parte, nell’incarico, anzi mi ha ricordato perché io fossi lì. La prossimità e il guardarsi negli occhi sono due parametri che nel mio lavoro si rivelano fondanti per l’instaurarsi della relazione. Anche in questo caso è stato così, sebbene l’abbia vissuta con un’emozione nuova. Anche in questo caso hanno consentito e facilitato l’entrare in empatia, l’ascoltarsi reciprocamente, il sentire e il riconoscere l’emozione che correva nello spazio comune tra me e l’altra persona. E con la magia della vetrata davanti alla quale ho avuto la fortuna si trovasse la mia postazione.
Mela (libro umano, MUDEC): Il corpo è responsabile di un linguaggio non verbale di cui spesso non abbiamo coscienza. Non ho sentito che tante teste, pochi corpi in azione. Ma un filo di comprensione, di interesse umano reciproco l’ho sentito, e ho potuto scorgere la nudità dei vissuti di alcune persone che magari prima avevo giudicato superficialmente. Non ho sentito disagio, ero nel mio elemento.
Giancarlo 3.0
Fiorenza 3.1
Anna 3.2
Come mostrano queste interviste, Biblioteca Vivente è un’esperienza che, pur vissuta molto diversamente, lascia un’eco lunga e duratura, che interpella a distanza di tempo. In questo senso è utile e sensato lo sforzo di renderla un appuntamento regolare, permanente, di incontro intorno al tema del pregiudizio e dello stereotipo, per esempio invitando le classi al museo per un programma della durata di un anno scolastico.
Lasciar entrare o invitare? Soglia, protesta, attivismo
Ma che cosa succede se il museo decide di lasciar entrare le persone? Quelle discriminate, o che semplicemente chiedono ascolto, a seguito di un’emergenza, di una crisi politica, di un fatto di cronaca? Il museo può, forse deve essere uno degli interlocutori? Museo come assistente sociale o come orecchio aperto sulla società?
Dallo scorso marzo, il Museion di Bolzano ha inaugurato Dove immagini di essere?, un programma quindicinale di incontri con i migranti neoarrivati, che passano molto tempo davanti alle vetrine del museo per agganciarsi al wifi. Nelle parole del museo si tratta di “condurre i ragazzi attraverso la casa e farli avvicinare al luogo in cui sostano intere giornate davanti al cellulare, ma con cui non entrano veramente in contatto, perché separati da un muro invisibile. Questo progetto pilota e dal formato aperto si adatterà quindi di volta in volta alle persone, alle loro storie e alle situazioni che si andranno a creare nell’interazione”.
E se i migranti forzano la soglia? Emblematica, è stata l’occupazione del Musée de l’Histoire de l’Immigration a Parigi da parte di migranti senza documenti, a Parigi, nel 2010. Il museo è diventato così, senza averlo scelto, un’icona vivente del proprio discorso: luogo di rappresentazione, di rivendicazione di visibilità, di traduzione plastica della propria missione. Il museo avrebbe potuto farne un programma, trasformarlo in momento alto, quasi apice della propria travagliata storia. Non lo ha fatto, ed è un peccato.
Lionel Brouck, l’occupazione del Musée de l’Histoire de l’Immigration di Parigi, 2010.
Fonte: http://www.courrierinternational.com/article/2014/02/13/histoires-d-immigration
Ancora, il museo come luogo di dibattito, di assemblea pubblica a caldo: è il caso delle centinaia di persone che si sono radunate al Missouri History Museum, nell’agosto 2015, per discutere dell’uccisione di Michael Brown e dei fatti di Ferguson.
Aprire le porte vuol dire decidere di affrontare il dissenso: è quanto ha dovuto fare recentemente la Tate Modern di fronte alle ripetute proteste, svoltesi nella Turbine Hall, per la sponsorizzazione da parte di British Petroleum (che ha da poco, per inciso, deciso di interrompere il rapporto con il museo); e il Whitney Museum di New York, prima dell’apertura, ha dovuto affrontare una serie di manifestazioni di protesta perché l’edificio sorge su un gasdotto della Spectra.
Ma che strumenti possono acquisire i musei per gestire situazioni di tensione e facilitare il dialogo? Uno strumento particolarmente utile sono i Front Pages Dialogues promossi dalla National Coalition of Sites of Consciusness, delle forme di risposta immediata a temi “caldi” da parte di musei e luoghi di memoria, per far fronte a possibili domande o reazioni da parte dei visitatori e delle comunità di riferimento rispetto a fatti di attualità.
Tutto questo sposta il discorso sul ruolo del museo come attivista, così ben analizzato, fra gli altri, da Kylie Message (Message, 2014) e Robert Janes (Janes, 2009): molti obiettano che il museo deve essere un luogo di tutela e educazione, non un’arena politica. Come se fosse possibile scindere i due aspetti. Credo invece che i musei debbano dotarsi di strumenti per favorire il dialogo, mediare i conflitti, educare concretamente all’empatia dentro la realtà sociale, storica e politica in cui operano, sullo sfondo delle contingenze, non solo in reazione alle emergenze ma anche nel quotidiano.
L’empatia va difesa dal rischio di diventare uno slogan, un porto in cui rifugiarsi per un po’ e poi veleggiare verso il canto di altre sirene: è davvero l’essenza del museo, una chiave di lettura cruciale, un metodo intorno a cui far ruotare la missione museale. Per favorirla, è necessario creare spazi fisici adeguati, luoghi di incontro personale attraverso i temi della contemporaneità, sviluppare un pensiero educativo prospettico. Si tratta di un processo di lungo corso, che non può certo limitarsi a un evento isolato come nel caso di Biblioteca Vivente, il cui limite evidente è la frammentarietà (le numerose edizioni al carcere di Bollate testimoniano invece come la continuità dell’esperienza e il suo costante monitoraggio generino processi trasformativi molto radicali: a questo proposito si veda Maggi Meardi Zanelli, 2015). La progettualità strategica di investire sulla prevenzione dei conflitti nelle periferie, sulla conoscenza dell’altro attraverso la sua vera traiettoria di vita, fuori dalla teatralizzazione ma dentro la consapevolezza della fragilità delle relazioni sociali, è oggi una via piena di senso per quei musei che si pongono la domanda della propria responsabilità sociale.
Il corpo non è un accessorio: è protagonista di questo processo. Corpo che manifesta, che chiede ascolto, che occupa spazio, che interpella le collezioni, che interloquisce con la direzione, che prende la parola, che chiede comprensione, che si mostra. Che impara, nel tempo, a considerarsi parte di un insieme più grande: dunque ad ascoltare e accogliere le storie degli altri.
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1 Questa edizione è stata organizzata da Museo del Novecento, Polo Arte moderna e Contemporanea (DC Cultura) Comune di Milano, Settore Domiciliarità e Cultura della Salute (DC Politiche Sociali e Cultura della Salute) Comune di Milano, Cooperativa Lotta contro l’emarginazione Sesto S.G., Cooperativa ABCittà Milano, Ala DSM A.O. Sacco Milano, Unità Operativa di Psichiatria Saronno Cls Sun-Chi.
2 Edizione promossa da Associazione Città Mondo, MUDEC – Museo delle Culture e Comune di Milano – Cultura, in collaborazione con ABCittà.
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Bibliografia
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http://empatheticmuseum.tumblr.com/
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https://bibliotecavivente.org/
https://museumgeek.xyz/2013/07/01/on-the-paradoxes-of-empathy/
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Anna Chiara Cimoli è una storica dell’arte e consulente museale. Specializzata all’Ecole du Louvre, ha lavorato nell’ambito della curatela (Fondazione Arnaldo Pomodoro) e della ricerca storica (Politecnico di Milano). Dal 2001 collabora con ABCittà-Officina del futuro, per cui realizza progetti sulla diversità culturale e sull’educazione alla cittadinanza (Museo del Novecento e MUDEC, Milano). Nell’ambito del progetto europeo MeLa*-European Museums in an age of migrations, ha approfondito il tema dei musei delle migrazioni. Ha pubblicato Musei effimeri. Allestimenti di mostre in Italia 1947-1963 (il Saggiatore) e Divina Proporzione. Triennale 1951 (con F. Irace, Electa).