VG, GG: La collezione dell’ex Museo Coloniale Italiano è confluita da poco nel patrimonio del Museo Pigorini nel complesso del MUCIV. Ci puoi dare alcune coordinate storiche per capire meglio in che modo la collezione è entrata nel vostro complesso museale e come intendete collocarla in futuro all’interno del MUCIV stesso, sia da un punto di vista teorico, che proprio materialmente nello spazio?[1]
RADL: L’ex Museo Coloniale di Roma ha una storia difficile da sintetizzare. È un museo denso di stratificazioni non facili da districare, con una storia di aperture e chiusure, spostamenti nello spazio, smembramenti che non aiutano oggi a ricostruire un quadro completo ed esaustivo.
Si possono però individuare alcuni momenti che permettono di raccontare per sommi capi la sua storia istituzionale e che sintetizzerei in due fasi, la fase museo e la fase collezione. Come museo nasce con il nome di “Museo Coloniale di Roma” nel 1914, è inaugurato e aperto al pubblico da Mussolini nel 1923 al Palazzo della Consulta, poi chiuso e riaperto negli anni Trenta, quando cambia sede e nome e diventa il “Museo dell’Africa Italiana” di via Aldrovandi. Riaperto nel 1947, all’indomani della fine della Seconda Guerra Mondiale, chiude definitivamente all’inizio degli anni Settanta. Da qui possiamo dire che è diventato una collezione: dagli anni Settanta gli oggetti sono conservati prima nei depositi di via Aldrovandi sede dell’ISIAO – Istituto Italiano per l’Africa e l’Oriente[2] e poi a Palazzo Brancaccio, in via Merulana a Roma, ex sede del Museo d’Arte Orientale “G. Tucci”. Il Museo Preistorico Etnografico “L. Pigorini” entra in questa storia nel 2010, quando per motivi di conservazione viene presa la decisione di spostare la collezione all’EUR, un processo che verrà terminato nel 2011.
Dal punto di vista della tutela, dopo la soppressione dell’ISIAO nel 2012, le collezioni sono tornate nella proprietà del Ministero degli Affari Esteri e il Museo Pigorini, pur conservando le collezioni nei propri depositi, non ne disponeva dal punto di vista giuridico, ma ne garantiva la conservazione e il restauro, avviando il lavoro di riordino e di riscontro inventariale della collezione. Quindi un percorso di grande importanza, museografica e simbolica: rendere nuovamente accessibili queste collezioni per motivi di studio, al personale del museo e a studiosi esterni che hanno iniziato a visitare, studiare, esplorare le collezioni man mano che si procedeva con il riscontro inventariale.
Questo aspetto è di notevole importanza perché se andiamo a contare gli anni di apertura e di chiusura del museo o di accesso o non-accesso alla collazione ci rendiamo conto che, dal 1923, gli oggetti sono stati per lo più chiusi, inaccessibili nei depositi piuttosto che mostrati al pubblico. E questo “occultamento” dal mio punto di vista è parte della storia di questo museo: racconta, significa, caratterizza la sua natura sia di museo, sia di collezione.
Il 2017 è un anno decisivo: le collezioni passano definitivamente sotto la tutela del MiBACT, trasformando quella che era una collezione “in deposito” in parte integrante nel patrimonio del Museo delle Civiltà, che nel frattempo, nel 2016, aveva inglobato il Museo Pigorini e altri tre musei nazionali in un nuovo museo autonomo. È dunque questo l’anno da cui prende avvio il lavoro di studio e ricerca sulle collezioni, per la creazione di una nuova sezione, oggi nominata “Museo Italo Africano” e dedicata a Ilaria Alpi.
Inserisco una breve nota autobiografica: nel 2010, insieme alle colleghe antropologhe Giusy Prayer e Gretel Hoennegger, sono stata coinvolta come collaboratrice esterna dall’allora Direzione per le Antichità del MiBACT nel lavoro di riscontro inventariale per il trasferimento delle collezioni dal MNAO al Pigorini. In quell’occasione tutta la collezione ci è passata tra le mani, oggetto per oggetto, per essere riscontrata sul database. Si è trattato del primo “corpo a corpo” con le collezioni, un’immersione nei depositi, che erano spazio aperto solo agli addetti ai lavori. Oggi sono di nuovo qui, insieme ai colleghi antropologi Gaia Delpino e Claudio Mancuso del Museo delle Civiltà, a continuare questo lavoro con lo staff del museo, a interrogare questi oggetti e queste collezioni per ricostruirne la storia museografica, base imprescindibile per studiare e analizzare gli oggetti e restituire in parte le ragioni e le traiettorie che li hanno portati qui in Italia, le loro biografie, le relazioni che aprono e che permettono di esplorare, e per immaginare e ipotizzare modalità di esposizione e di narrazione pubblica.
Il Museo Coloniale di Roma nasceva con una forte finalità di propaganda, con lo scopo di far conoscere le “imprese” coloniali italiane, dimostrando la presenza italiana nei territori conquistati, e raccontando le colonie come una riserva di immaginari esotici e di opportunità industriali e produttive. A partire da collezioni raccolte con questo scopo, quindi, oggi si sta lavorando per costruire una nuova sezione permanente del Museo delle Civiltà, partendo dalla volontà di far emergere la storia poco conosciuta dell’ex Museo Coloniale di Roma e delle sue collezioni e farne un punto di partenza e un’occasione per raccontare, in una prospettiva critica, le relazioni tra Italia ed alcuni paesi del continente africano.
Le prospettive teoriche e metodologiche, la narrazione museografica e il progetto allestitivo sono in fase di elaborazione. Il 25 maggio 2020 abbiamo presentato una primissima ed embrionale griglia di riferimento teorica e contenutistica. Nei prossimi mesi elaboreremo un documento programmatico che sarà diffuso e discusso pubblicamente, in incontri e workshop, per arrivare a una definizione quanto più condivisa della narrazione museografica. Il documento presenterà le prospettive teoriche, le metodologie di lavoro e i contenuti delle macro-sezioni che stiamo immaginando a partire dallo studio e dalla riflessione sulle collezioni dell’ex Museo Coloniale, che rimanda a uno sguardo e una visione che non può che essere parziale, e che quindi deve entrare in dialogo con una comunità di interesse, composta da colleghi di musei etnografici di paesi europei ed africani, studiosi di diverse discipline, curatori indipendenti, attivisti, artisti, scrittori ed intellettuali, anche provenienti da paesi africani. È per questa convinzione che fin dall’inizio abbiamo reso la collezione “aperta”, abbiamo reso i depositi accessibili a chiunque ci abbia contattati per conoscere o lavorare per i più diversi motivi sulle collezioni del museo. Si tratta di un’apertura per noi fondamentale perché in linea con quella ricerca di pluralità di sguardi che riteniamo imprescindibile per narrare e studiare le collezioni di questo museo.
Dal punto di vista spaziale, si prevede di sviluppare l’allestimento all’interno del Palazzo delle Scienze, sede attuale del Museo Pigorini, in un’ala laterale posta al piano terra del museo dell’alto medioevo, tra le colonne di Piazza Marconi e lungo via Lincoln. Il nucleo centrale della narrazione partirà dalle collezioni dell’ex Museo Coloniale, che ci permette di raccontare attraverso oggetti, documenti, opere pittoriche e grafiche le relazioni tra l’Italia e alcuni paesi africani e presentare sullo sfondo la storia del colonialismo italiano, concentrando l’attenzione sugli immaginari diffusi in quel periodo che affondano le radici nelle relazioni di epoca pre-coloniale e che risultano ancora attivi oggi, nel contemporaneo. Si racconteranno dunque le relazioni tra Italia e alcuni territori del continente africano, in particolare il Nord Africa e l’Africa Orientale, focalizzando la narrazione sulla fase coloniale e post-coloniale italiane, fino ad arrivare ai nostri giorni. Allo stesso tempo si rifletterà sulle criticità di esporre simboli di dominazione e violenza coloniale; si darà ampio spazio alla costruzione del sapere coloniale, al ruolo dell’etnologia, dell’antropologia fisica e dell’archeologia, alle relazioni con il potere coloniale, alle teorie che lo hanno legittimato. Una parte rilevante sarà dedicata anche alle conseguenze del colonialismo, con uno sguardo al mondo contemporaneo e alla produzione di squilibri economici, movimenti demografici e diverso accesso alle risorse che fondano le proprie radici nell’epoca coloniale.
Questa nuova sezione si troverà quindi inserita e in dialogo con le altre sezioni che compongono il Museo delle Civiltà: il Museo d’Arte Orientale “G. Tucci”, il Museo dell’alto medioevo “Vaccaro”, il Museo di Arti e Tradizioni Popolari “L. Loria” e appunto il Museo Preistorico Etnografico “L. Pigorini”: un insieme di musei con storie e approcci disciplinari diversificati. E sarà necessario un confronto con le collezioni etnografiche del Pigorini per mostrare le diverse missioni e impostazioni che furono alla base della creazione di due diverse collezioni. L’ex Museo Coloniale, come abbiamo sottolineato nella presentazione del 25 maggio, non ha avuto o conservato strumenti di archiviazione propri dei musei scientifici, che negli archivi conservano traccia della storia museografica degli oggetti raccolti, attraverso i nomi dei donatori e dei venditori, il momento della raccolta e del passaggio all’istituzione. Sappiamo pochissimo di queste raccolte coloniali, e questa vaghezza o inesistenza delle finalità conoscitive è un forte segnale di una missione ambigua del Museo Coloniale in tutte le sue fasi, e degli intenti di esaltazione propagandistica, che lo distingue nettamente dagli intenti e dalle modalità di raccolta della sezione etnografica del Museo Pigorini.
VG, GG: Esporre la collezione dell’ex Museo Coloniale è un’operazione cruciale, necessaria, importante da parte di una istituzione pubblica e in particolare di un museo etnografico, in particolare in un paese come il nostro che ha una enorme difficoltà a riconoscere e inquadrare il proprio passato coloniale. Una difficoltà non solo di presa di coscienza e di responsabilità rispetto alla propria storia, ma soprattutto rispetto al fatto che quel passato non è esattamente “passato”, dal momento che quella “colonialità” ha dato forma alla nostra identità, alle nostre istituzioni (compreso il Museo), e continua a riprodursi e ad agire nella nostra cultura contemporanea a molti livelli (dalle politiche economiche a quelle culturali a quelle sulle migrazioni). In che modo il Museo Italo Africano si pone rispetto a questi processi di ri-mediazione? È possibile per un museo etnografico esporre una collezione coloniale, operando al contempo un gesto di de-colonizzazione?
RADL: Il museo non potrà raccontare la storia coloniale e le correlate vicende con il dettaglio e la profondità che possiamo chiedere alle ricostruzioni/interpretazioni storiche scritte e presentate sotto forma di saggio. Un museo, come sappiamo, non è un testo, non è un saggio, non è la presentazione di una teoria, ma è un sistema di comunicazione, uno spazio di mediazione che si attraversa e che si fruisce con i sensi, e di cui si fa esperienza. Il nostro intento è quello di costruire uno spazio di narrazione, dei percorsi esperienziali e conoscitivi, dando spunti di riflessione attraverso oggetti e storie ad essi collegate. Dal punto di vista metodologico, quando immaginiamo a come costruire questi spazi narrativi pensiamo a spazi di interrogazione: luoghi dove porre e raccogliere domande, in dialogo con i pubblici, e con l’obiettivo di trovare insieme nuovi modi di guardare, smuovendoci dalla nostre “comfort zone”, come molti musei etnografici hanno già fatto (pensiamo per esempio alle sperimentazioni museografiche del Musée d’Ethnographie di Neuchâtel). È quindi cruciale porre e raccogliere domande per decostruire stereotipi e idee sedimentate, rendendo quella “colonialità” attiva nel presente materia di discussione, non più quindi una parentesi del passato (e quindi un argomento poco conosciuto, rimosso, sottostimato) ma spunto di riflessione sul contemporaneo, sugli immaginari e sulle percezioni di oggi, sulle relazioni presenti con i paesi africani ex colonie.
Ci sono alcune questioni, a cui abbiamo accennato anche durante la presentazione del 25 maggio, che stanno orientando il lavoro di studio e le prospettive per il riallestimento e che confluiranno nel modo in cui racconteremo gli oggetti della collezione: come presentare oggi le tracce tangibili dell’eredità coloniale italiana? Come ricostruire e presentare la contestata memoria lasciata dalle collezioni del Museo Coloniale, strettamente collegato al regime fascista e all’oppressione e dominazione coloniale? Come riappropriarci di questa storia nella contemporaneità? Come costruire una narrazione museale che tenga insieme memorie conflittuali e divergenti ?
Questa è la prospettiva e l’attitudine che vorremmo che animasse il processo di ri-mediazione della storia del Museo Coloniale, del suo essere un insieme complesso di oggetti e di intenzionalità, visioni e prospettive ancora cogenti nella materialità degli oggetti e nella nostra cultura contemporanea. Possiamo guardare ogni singolo oggetto del museo come ad un elemento che ci indica il modo che abbiamo avuto, nel passato, di rappresentare le persone che vivevano nei territori ex colonie italiane. Per far questo, abbiamo bisogno di costruire nuove cornici in cui inserire gli elementi del racconto museale, per attivare nell’audience ulteriori mediazioni a partire dalla presentazione di tracce narrative, questioni e contesti che permettano un riposizionamento rispetto alla nostra storia, e al modo che nel passato e nel presente abbiamo avuto di guardare– esotizzando, oggettificando, razzializzando – all’altro. Questo processo di posizionamento di nuove cornici e di ri-mediazione ci obbliga a considerare vari punti di vista, ricorrere a molteplici linguaggi e prospettive disciplinari. A interrogarci in particolar modo sulle forme che prenderà, nell’esposizione, la narrazione e la comunicazione museale. Gli aspetti expografici e tecnici diventano pertanto cruciali: non bastano pannelli e didascalie, abbiamo la necessità di costruire dispositivi di visione e di esperienza museale che possano trasmettere nuove modalità di guardare agli oggetti e di fruire una narrazione.
Il processo di ri-mediazione ci porta necessariamente a pensare a un museo dinamico, aperto, un laboratorio in trasformazione, con un nucleo permanente pensato per essere aggiornato e modificato nel tempo, e spazi per mostre temporanee e incontri. Con un certo grado di indefinitezza e di apertura che permetti di presentare i temi delle sezioni non come contenuti definitivi e chiusi, ma come luoghi di creazione condivisa. La nuova sezione dovrà seguire le prospettive che i musei etnografici stanno indicando negli ultimi decenni: creare spazi di negoziazione e ridefinizione del significato degli oggetti, attraverso una pluralità di punti di vista che includa anche la voce e la prospettiva storica del colonizzati, delle diaspore, dei pubblici del museo.
Quando abbiamo iniziato a lavorare nei depositi e a entrare in contatto con la collezione dell’ex Museo Coloniale, abbiamo sentito da subito e con forza l’importanza di “ridare voce” agli oggetti che avevamo di fronte. Lavorare su questi oggetti è spesso lavorare con una presenza (la materialità degli oggetti che guardiamo e tocchiamo) e con un’assenza: assenza di documentazione museografica che ci impedisce spesso di ricostruire la biografia culturale dell’oggetto, ma anche assenza della “voce dell’altro” rappresentato ed esposto, spesso reso “cosa”. Ciò che più colpisce guardando alle collezioni è quella che alcuni studiosi chiamerebbero una “afonia dell’altro”, l’invisibilità del soggetto che il museo rappresentava e, al contempo, la sua iper-rappresentazione come strumento di esaltazione della conquista italiana dei territori. Questa è una questione cruciale, la più importante e carica di sfide: la nuova sezione del Museo delle Civiltà avrà contribuito a ri-posizionare e ri-scrivere una storia condivisa solo se riuscirà ad essere un luogo dove siano rappresentati le visioni, gli immaginari e le interpretazioni degli “ex-colonizzati” e dei loro discendenti. La complessa storia delle collezioni da cui partiamo, che ripercorre in parte la storia del colonialismo italiano, dalle prime esplorazioni in Corno d’Africa fino alla fase post-coloniale, potrà diventare uno strumento per leggere e ri-leggere criticamente la storia delle relazioni e dei rapporti dell’Italia con alcuni paesi africani solo se avvierà un processo di rilettura delle (molte e diverse) eredità coloniali, includendo nella narrazione una pluralità di sguardi e visioni. Chi prenderà voce e chi darà voce? Chi farà parlare chi? Chi aprirà lo spazio? Chi sarà “incluso”, “rappresentato” e chi invece “includerà” e “rappresenterà”? Sono questioni enormi, cruciali e non semplici da risolvere e che aprono questioni sull’autorità che le istituzioni museali hanno nel rappresentare e parlare per “gli altri”, oltre che sulle criticità che si aprono a volte nei rapporti tra istituzioni e società civile, “comunità interpretanti” e “comunità di eredità”, rispetto a consapevoli o non consapevoli opacità.
Pensando a prospettiva a lungo termine, quello che stiamo avviando non è che l’inizio di un processo, che già è attivo e in corso nelle università e nei centri di ricerca, nelle accademie e nelle produzioni artistiche, ora in qualche modo anche nei dibattiti pubblici. Questa nuova sezione sarà parte di questo processo e, speriamo, diventi sempre più un nuovo centro di questa costellazione di luoghi di riflessione/produzione/elaborazione/diffusione. Un museo-laboratorio in trasformazione, con un allestimento quanto più dinamico, uno spazio per mostre temporanee e depositi visitabili al pubblico, dove vorremmo avviare un percorso per creare una comunità interpretante: un percorso che non potrà esaurirsi nel tempo che avremo per la progettazione condivisa e per l’allestimento, ma che proseguirà forse anche con più forza negli anni successivi, nella prospettiva di rendere la nuova sezione un luogo dove confrontarsi, dibattere, anche confliggere.
VG, GG: All’interno della collezione dell’ex Museo Coloniale sono presenti alcuni oggetti particolarmente “difficili”, che in maniera estremamente esplicita fanno riferimento a pratiche violente, come i famosi calchi facciali realizzati dall’antropologo Lidio Cipriani durante la missione antropologica in Fezzan negli anni Trenta. Questi “oggetti” raccontano quanto la stessa ricerca etnografica in quegli anni fosse intrisa di colonialità, e quanto anche la costruzione delle narrazioni museali (nei musei etnografici o come in questo caso nel museo coloniale) fosse in continuità con la costruzione di un regime di verità e di scientificità che affondava i piedi nel razzismo più violento. In che modo dunque il museo oggi si interroga su come (e se) mostrare quegli oggetti così carichi non solo di storia coloniale, ma anche di violenza epistemica?
RADL: Le collezioni da cui partiamo hanno avuto una storia complessa, sono una materia mai neutra; spesso uso il termine “cautela”,che non è un sottrarsi al prendere posizioni o una nuova modalità di occultare storie/oggetti di difficile gestione, ma un essere in attesa, un tentativo di non chiudere mai l’interpretazione, di lasciarla aperta al confronto e, allo stesso tempo una presa di coscienza della precarietà/parzialità delle visioni e prospettive personali di noi curatori, delle istituzioni e delle discipline cui facciamo riferimento. Questa “cautela” va esercitata soprattutto rispetto a quelli che si definiscono “oggetti sensibili”, cui sarà dedicata una sezione del nuovo allestimento permanente. Si tratta di oggetti che richiamano in modo dirompente le azioni illecite di quel passato coloniale a lungo rimosso dalla memoria storica italiana, oggetti densi che suscitano emozioni e riflessioni su come e perché esporle e narrarle. Sarà una sezione che, così come per tutto l’allestimento museale, cercherà di rendere al pubblico le molteplici narrazioni che dei singoli oggetti – e degli episodi di cui essi sono testimonianza – sono state fatte e possono farsi nel corso della storia a seconda di chi racconta e di cosa si vuole tramandare. Oggetti sottratti con la violenza, o comunque in una situazione di dominazione coloniale e di squilibrio di potere. Su questi oggetti dobbiamo domandarci l’opportunità e la modalità di esposizione, per non perpetuare indirettamente le modalità di sopraffazione che sono alla base della loro raccolta. Dunque, se tutta la collezione dell’ex Museo Coloniale è sicuramente problematica, riteniamo che soprattutto alcuni oggetti debbano essere oggetto di attenzione e riflessione. Su questi aspetti, un confronto con interlocutori (storici, intellettuali, professionisti museali, funzionari governativi) dei paesi ex colonie sarà fondamentale e necessario. Si tratta di processi lunghi, che potranno avviare richieste di restituzione e processi di riscrittura condivisa del loro significato.
VG, GG: Da diversi decenni in particolare in Europa, e nelle Americhe, l’arte contemporanea è entrata in qualche modo in dialogo costante con i musei etnografici, in particolare proprio in relazione alla spinosa questione dei cosiddetti “patrimoni difficili”, accumulati in epoca coloniale e oggi esposti al pubblico nei paesi colonizzatori. L’arte ha avuto e ha un ruolo di ri-mediazione rispetto a tutto ciò che i musei etnografici possono esporre, divenendo uno dei linguaggi principali per destrutturare il portato storico etnocentrico che li caratterizza. Il Museo Pigorini lo scorso autunno ha ospitato Resurface. Festival di sguardi postcoloniali, curato da Chiasma e Routes Agency, che ha proposto opere di arti visive e performative con un forte sguardo postcoloniale, in diversi ambienti del museo. Durante Resurface l’artista Leone Contini, per citare solo un esempio, è intervenuto all’interno della collezione coloniale creando una sorta di accesso ai magazzini ancora non aperti al pubblico, quindi lavorando in una intensa collaborazione con voi all’interno del museo. Ti vorremmo chiedere come si porrà il nuovo Museo Italo Africano in relazione alla possibilità di interventi di artist* contemporanei nei suoi spazi? C’è già l’idea di dedicare spazi specifici per interventi di arti visive e performative che possano discutere dall’interno la collezione stessa proponendo uno sguardo critico, a nostro parere, fondamentale proprio perché rimediato dall’arte?
RADL: Il museo avrà un’attenzione particolare al dialogo con l’arte contemporanea. Pensiamo che il confronto con artisti (dalla performance alle arti visive, alla letteratura) sia fondamentale per restituire la complessità delle storie collegate agli oggetti che saranno esposti nel museo. Negli anni scorsi, abbiamo già realizzato degli esperimenti in questo senso. Abbiamo ospitato una residenza di studio/artistica nell’ambito del progetto europeo TRACES: l’antropologo culturale Arnd Schneider e l’artista Leone Contini hanno esplorato durante la residenza i depositi del museo e le collezioni dell’ex Museo Coloniale e hanno realizzato un’installazione finale, che ha presentato oggetti delle collezioni reinterpretati, accanto a memorie contemporanee.
Nel 2019, inoltre, abbiamo ospitato e collaborato alla realizzazione del festival RESURFACE. Anche in questa occasione alcuni artisti hanno lavorato sulle nostre collezioni con produzione di opere site-specific.
Questa relazione con l’arte contemporanea proseguirà anche con il progetto europeo TAKING CARE, nell’ambito del quale organizzeremo workshop, residenze e una mostra finale, indagando un settore specifico delle collezioni dell’ex Museo Coloniale: la fiera campionaria. L’intento è quello di ragionare e riflettere, attraverso la collaborazione con artisti e attivisti, su colonialismo, sfruttamento delle risorse e squilibri ambientali. Stiamo inoltre progettando, con istituzioni, gruppi di curatori indipendenti e artisti, altri due progetti che presenteremo nei prossimi mesi. Alcune delle opere prodotte in questi progetti saranno esposte permanentemente nel museo. E alcune sezioni e installazioni potranno essere realizzate in collaborazione con scrittori e artisti, che sarebbe interessante per esempio coinvolgere nella de-strutturazione del museo come luogo oggettivo della verità, per presentarlo come un risultato di interpretazioni, letture e sguardi. Crediamo che sarà necessario, per esempio, inserire nell’allestimento un percorso nel percorso, con piccoli inserimenti che richiamino le motivazioni che sono dietro alle scelte allestitive e museografiche (per esempio piccole note di campo di noi curatrici e curatori, dubbi, conflittualità nelle visioni, risanazioni) per esplicitare le nostre scelte, smontare la pretesa “oggettivistica” dell’allestimento museale, inserendo, come ci insegna la pratica riflessiva in antropologia, le nostre soggettività e i nostri punti di vista, le motivazioni e le finalità, per rendere il pubblico partecipe del perché un certo oggetto è stato scelto e presentato, ma anche delle spesso lunghe e difficoltose riflessioni che hanno portato all’elaborazione di specifici exhibit. Credo che il contributo di un artista-ricercatore possa essere interessante e permetterebbe uno scambio di questo tipo.
VG, GG: Il MUCIV si trova all’interno di un quartiere (e di una città) densamente segnati dalle tracce del discorso coloniale (non solo di matrice fascista). Da diverso tempo, e ancor di più negli ultimi mesi in seguito al movimento Black Lives Matter, lo spazio pubblico è al centro di una contesa e di una presa di coscienza potente, rispetto agli immaginari che incarna. Inoltre, una delle questioni essenziali che sono emerse negli ultimi anni è la relazione con pubblici “diversi” in musei come il vostro che conservano e mostrano patrimoni di altre culture, spesso ottenuti non in maniera pacifica. In diversi paesi Europei, i musei etnografici stanno sempre di più spostando la loro vocazione verso l’idea di essere “laboratori culturali”, con particolare attenzione alle dinamiche interculturali e transculturali, alle comunità diasporiche e alle reti o associazioni di immigrati e di seconde generazioni.
L’Italia, come la maggior parte dei paesi colonizzatori, conta molti cittadini/e provenienti da ex colonie o seconde e terze generazioni. Diventa sempre più urgente quindi porsi la questione se un museo etnografico contemporaneo può in qualche modo divenire un luogo in cui anche un cittadino immigrato o 2G possa trovare una sua forma di identificazione, un luogo dove sentirsi voce parlante e non solo oggetto di rappresentazioni altrui. In che modo il Museo Italo Africano intende entrare in relazione con il territorio al quale appartiene, e con queste reti, associazioni, comunità, in particolare con le persone afro-discendenti e provenienti da paesi ex colonie? In che modo saranno coinvolte in questo processo la sezione didattica o la comunicazione rivolta al pubblico? Il MUCIV svolge da tempo un intenso e consolidato lavoro con le scuole di ogni genere e grado. Purtroppo le tematiche legate al colonialismo sono molto marginalizzate nei programmi della scuola italiana. Il nuovo Museo Italo Africano prevede di costruire una sorta di programma su questi temi per le scuole che già frequentano abitualmente il MUCIV? Pensi che anche in questo contesto educativo le arti contemporanee possano avere un ruolo importante?
RADL: Il Museo delle Civiltà, e in particolare il Museo Preistorico Etnografico “L. Pigorini”, ha sperimentato negli ultimi 10 anni pratiche collaborative e laboratoriali che hanno avuto come obiettivo la riflessione condivisa sul patrimonio culturale del museo e la co-creazione dei contenuti museali, attraverso la partecipazione di stakeholder e rappresentanti della società civile, come esponenti di associazioni della diaspora, artisti, studenti, studiosi, persone disabili. Diversi progetti hanno portato alla realizzazione di mostre ed attività partecipative (vedi per es. READ-ME – Rete delle associazioni della diaspora e dei musei etnografici, SWICH – Sharing a World of Inclusion, Creativity and Heritage). Proseguendo questa linea, stiamo lavorando alla definizione di attività che ci permetteranno (a diversi livelli e con diverse modalità, per es.: focus group ristretti sugli oggetti, incontri pubblici sulle linee programmatiche, interviste, etc.) di rappresentare nel museo molteplici punti di vista, narrazioni e sguardi sulla storia coloniale e su altri temi centrali nella narrazione museale. È molto importante per noi coinvolgere nel lavoro anche cittadini afro-discendenti che attualmente vivono in Italia, accanto a studiosi ed esperti che vivono in Libia, Etiopia, Eritrea e Somalia. Nel Museo Italo Africano saranno presenti diverse video-installazioni, risultato di focus group, laboratori e dialoghi con persone. Una delle installazioni su cui verte la prima parte dell’allestimento (nella formulazione attuale) sarà dedicata proprio ad una narrazione collettiva dell’eredità coloniale: diversi totem proietteranno voci e visioni per restituire al visitatore un racconto corale, di donne e uomini di oggi che ci forniscono letture, interpretazioni di storia coloniale come storia condivisa. Per quanto riguarda i percorsi educativi, stiamo riflettendo in particolar modo sulle modalità di comunicazione allestitive rivolte specificatamente al gruppo di studenti e scolaresche, che costituiscono la fetta più importante di visitatori del Museo delle Civiltà. A tal riguardo ci stiamo chiedendo quali strumenti siano più adeguati allo scopo, e stiamo immaginando di inserire in ogni sezione dei punti di esplorazione/interazione specifici.
Note
[1] Le riflessioni presentate sulle prospettive per il riallestimento del Museo Italo Africano “Ilaria Alpi” sono il risultato di elaborazione condivisa all’interno del gruppo di lavoro, composto da Gaia Delpino, Rosa Anna Di Lella e Claudio Mancuso, con il coordinamento del direttore Filippo Maria Gambari.
[2] L’ISIAO nasceva nel 1995 dall’accorpamento dell’Istituto italiano per il Medio ed Estremo Oriente (IsMEO), fondato nel 1933 da Giovanni Gentile e Giuseppe Tucci, e dell’’Istituto italo-africano (IIA), fondato nel 1906.
Rosa Anna Di Lella, antropologa culturale specializzata in museografia collaborativa e in progetti di mediazione del patrimonio culturale, dal 2017 è funzionaria demoetnoantropologa per il MiBACT. Svolge attività di ricerca per l’Istituto Centrale per il Patrimonio Immateriale ed è curatrice delle collezioni dell’ex Museo Coloniale per il Museo delle Civiltà di Roma.