§violenza
Modernità, supremazia bianca, e violenza.
La nascita dell’uomo futurista
di Cristina Lombardi-Diop

Introduzione
Qual è il legame tra la violenza sessuale e razziale e la nascita delle avanguardie artistiche? Cosa unisce, più in generale, la violenza all’esigenza estetica della modernità? Tali interrogativi ci riportano alla dimensione storico-politica della violenza nel contesto della modernità italiana. Mi riferisco a quel momento storico di inizio Novecento, quando il desiderio di espansione coloniale mette in moto, per la prima volta, una serie di discorsi e fantasie legati ad una concezione razzializzata del corpo della nazione e ad una specifica proibizione, quella della prossimità tra corpi bianchi e corpi neri, una proibizione che genera violenza. In un paese oggi impegnato a ribadire l’omogeneità della sua componente nazional-demografica, in cui il corpo nero genera ansia di assediamento, di difesa, di rovesciamento demografico, è necessario forzare il passaggio dal piano simbolico a quello politico, per parlare di dinamiche di potere maschile sui corpi non-bianchi, nel passato come nel presente. A tal fine, bisogna colmare il divario tra i due livelli (quello simbolico/quello bio-politico) e insistere sulla loro continua contaminazione. Tale sforzo rimanda inevitabilmente a quell’esteticizzazione della politica (e, in primis, della politica coloniale) che inaugura la modernità dell’Italia nei primi decenni del Novecento e che si dispiega lungo il Ventesimo secolo, nel corso del quale il piano estetico e quello politico si intersecano e si confondono.
Per parlare di violenza di genere e di violenza razziale, vorrei partire da una serie di spunti culturali e storico-ideologici del primo Novecento, tipici di un certo sentire culturale, ma le cui ramificazioni sembrano persistere tuttora. Mi soffermerò sull’estetica marinettiana, cercando di capire come l’articolazione della violenza razziale e della misoginia hanno fatto del futurismo il primo (e il più importante) movimento d’avanguardia in Italia. Nell’avanguardia futurista il discorso razziale sostiene tutta una serie di forme esteticizzanti della soggettività che inaugurano una nuova concezione della modernità e della cittadinanza politica. La retorica della violenza, e la violenza stessa, regola la disciplina dei corpi bianchi e dei corpi neri e li inquadra nella modernità assoggettandoli alla politica dell’espansione del capitale razziale[1]. Il lavoro di consolidamento del progetto di unità nazionale ha bisogno del corpo razzializzato, deve possederlo violentemente. Il soggetto maschile, in quanto bianco e quindi europeo/italiano, si nutre del corpo nero nel momento in cui proclama la propria rinascita in nome della modernità.

Virilità italiana e colonialismo
Nel corso del Novecento, gli abitanti delle colonie del Sud-est asiatico, dell’India, e di molto aree dell’Africa, sono stati una risorsa di esotismo carico di fantasie erotiche generatrici di metafore letterarie e poetiche. Sappiamo che tali fantasie non hanno operato solo sul piano simbolico. Secondo la storica Ann Stoler, il passaggio dal piano simbolico a quello politico, (ossia dai simboli e le metafore sessuali alle politiche sessuali) è alla base del potere imperiale dell’Europa sui paesi colonizzati. «Il controllo sessuale non è stato solo una metafora di convenienza del dominio coloniale; esso ha costituito, […], una distinzione di classe e di razza fondamentale, all’interno di un assetto molto vasto di relazioni di potere» (Stoler, p. 55)[2]. Attraverso le politiche sessuali gli europei hanno mantenuto le barriere razziali e sociali nei vari contesti coloniali. L’esotismo sessuale risulta quindi centrale per l’espansione del capitale razziale europeo e per il consolidamento nella modernità del soggetto politico maschile bianco.
Una delle sfere culturali in cui la fascinazione esotica di avventure amorose e sessuali con donne (e uomini) africani ha trovato ampia espressione è la letteratura coloniale delle prime tre decadi del Ventesimo secolo. L’Africa è considerata terra di rigenerazione per gli uomini italiani, che vi si avventurano in cerca di emozioni e eroismo, con la promessa di un rinvigorimento dello slancio eroico/virile del nascente nazionalismo. La virilità maschile entra nel dibattito sul colonialismo già alla fine dell’Ottocento, dopo la sconfitta di Adua, tanto da portare un commentatore dell’epoca, Pasquale Turiello, a ipotizzare l’interdipendenza di virilità e azione politica coloniale. «La soluzione del problema africano rimane anche oggi un problema più di virilità che di finanza italiana», scriveva Turiello, e la soluzione è “un’educazione più maschia”, anche attraverso la trasformazione della svilente esperienza di emigrazione in conquista coloniale[3].
L’intreccio tra soddisfazione maschile del piacere e occupazione coloniale è utile all’espansione del consumo, lì dove l’esploratore Gustavo Bianchi, per esempio, immagina la rigenerazione moderna dell’Africa attraverso l’apertura dei suoi mercati al capitalismo liberale di fine Ottocento. Ex militare e uomo di affari milanese legato agli interessi della Società di esplorazione commerciale in Africa, Bianchi prese parte alla prima spedizione italiana nella regione dello Shawa, finanziata in gran parte dalle nascenti società industriali quali la Carlo Erba e la Pirelli[4]. Appellandosi agli industriali (“datevi alla colonizzazione, datevi all’esportazione”) Bianchi propone un piano di sviluppo industriale in cui gli etiopi, indotti dai “bisogni” di un nuovo consumismo di massa, «impareranno a desiderare e ricorreranno a voi» (Bianchi, p. 477). La letteratura di esplorazione di autori come Bianchi propone nuove forme di individualismo e eroismo maschile che consolidano l’emergere, sul territorio da colonizzare, di uno spirito di frontiera, autosufficiente, autarchico, omosociale e omoerotico, il cui paradigma serve sia a D’annunzio, sia a Marinetti, in quanto annuncia la presenza di un maschile bianco, italiano, in un territorio di espansione ambito da tutta l’Europa quale l’Africa.

La balia sudanese
Le aspettative del nascente capitalismo italiano ci aiutano a spiegare un passaggio, apparentemente enigmatico, del Fondazione e Manifesto del Futurismo di Filippo Tommaso Marinetti, il primo manifesto del movimento, apparso su Le Figaro il 20 febbraio 1909. Si tratta del testo che segna la rottura definitiva di Marinetti con l’estetica simbolista e il dannunzianesimo, inaugurando una poetica avanguardistica e irridentista, volta all’azione e al dinamismo violento e anarchico. Il futurismo è di particolare interesse in quanto è stato il primo movimento artistico in Italia a porre la questione della validità di una contaminazione dell’arte con la politica in nome di una modernità specificatamente italiana. Notoriamente, le vicende successive del futurismo dopo la fondazione del movimento nel 1909, l’avvicinamento di Marinetti al movimento degli Arditi, ai Fasci di Combattimento e a Mussolini dal 1919 in poi, fanno si che la critica marinettiana parli di una dicotomia tra Marinetti artista (nella sua componente avanguardistica, modernista, anarchica) e di un Marinetti abdicato alla politica dopo il 1919 a favore di un partito forte, di un leader, di uno stato fascista. Contrariamente alle tendenze dominanti della critica letteraria su Marinetti, che vedono nell’Africa non più di uno sfondo mitologico senza alcuna relazione con la realtà coloniale, ciò che mi interessa è ritornare a parlare della contaminazione delle fantasie artistiche e letterarie con l’ideologia coloniale e imperialista che sostenne la soggettività di razza dell’italianità. L’ibridizzazione dell’arte futurista in realtà passa necessariamente attraverso la formazione di un’identità italiana razzializzata che alimenta fantasie imperialiste di conquista sessuale legate alla sottomissione di uomini e donne neri.
Il testo del Manifesto si struttura intorno ad una narrazione iniziale che descrive la nascita dei suoi punti programmatici a seguito di una notte di baldorie e di veglia da parte di un gruppo di “giovani leoni,” i futuri futuristi, la cui camaraderie omosociale è sine qua non per la creazione stessa del movimento. Marinetti immagina di incitare i suoi uomini a partire verso la conquista della morte in una corsa sfrenata in macchina, corsa che termina bruscamente quando l’auto, a causa di due ciclisti di strada, finisce banalmente in un fossato. Tale fossato, che Marinetti descrive come “materno,” gli ricorda “la santa mammella nera della [mia] nutrice Sudanese.” Segue la lista delle volontà dei futuristi, tra cui la glorificazione del pericolo, del coraggio, della guerra come sola igiene del mondo, del disprezzo delle donne, e di una “bellezza nuova: la bellezza della velocità” contro i musei, le biblioteche, le accademie, il moralismo, e il femminismo.
Nel passaggio sopracitato, il meccanicismo dell’incidente è rigenerante e rinsalda la coesione del gruppo maschile. L’unico elemento umano è il seno della donna sudanese, balia e non amante. Il rapporto generativo tra mascolinità e modernità futurista esclude il femminile eccetto in un rapporto vicario di nutrimento con il corpo nero, necessario alla nascita e allo sviluppo del soggetto maschile bianco e della modernità tout court. L’immagine di una donna nera che allatta la nascita dell’uomo futurista all’alba del colonialismo italiano, pur rappresentando una nuova estetica all’insegna di una pericolosa prossimità interrazziale, non ha però nulla di materno. Il corpo femminile nero è qui invocato non come il corpo della madre, ma come corpo produttivo di latte, di una sostanza che non si mischia con il sangue[5]. La nutrice sudanese non è infatti una madre, ma è il simbolo di un corpo altro da sè che contribuisce ad una rinascita rigenerante, purificante, bellica, in disprezzo e a scapito del femminile razzializzato. Se il corpo della donna nera è generatore di qualcosa, lo è nei limiti di una produttività funzionale allo sfruttamento coloniale (Africa che genera nutrimento) e di una nuova estetica glorificatrice di guerra, di militarismo, di patriottismo, che in quel preciso momento storico vuol dire la conquista della Tripolitania su un suolo arabo-africano.

Violenza coloniale e il fallo del potere
L’interesse marinettiano per le vicende coloniali non è occasionale e sporadico, ma segna tutta la sua parabola artistico-politica. In primis, il romanzo di ambientazione africana, Mafarke le futuriste, su cui mi soffermerò tra breve, scritto mentre Marinetti concepiva la nascita del movimento. La battaglia di Tripoli, del 1912, a sostegno dell’occupazione della Tripolitania, dove Marinetti era stato corrispondente di guerra; il “dramma africano” Il Tamburo di fuoco, del 1922, in cui Marinetti immagina il fallimento del tentativo di occidentalizzazione dell’Africa da parte di un leader forte, alter-ego di Marinetti; il diario autobiografico II fascino dell’Egitto, del 1933, ispirato al suo ritorno sul suolo natio; Il Poema Africano della Divisione “28 Ottobre”, del 1937, a sostegno delle campagne militari in Etiopia, e in ultima battuta, il discorso tenuto nel 1938 all’VIII Convegno Volta, intitolato “L’Africa generatrice e ispiratrice di poesia e arti”.
La questione della rigenerazione razziale e sessuale come matrice della modernità italiana si pone in maniera dominante nel romanzo Mafarka il futurista, apparso in francese nel 1909 (e nel 1910 in versione italiana) e dedicato ai suoi fratelli futuristi. L’intreccio, riassunto in breve, si concentra sulla figura di Mafarka-el-Bar, guerriero arabo che ha l’ambizione imperialista di conquistare tutta l’Africa. Mafarka è in realtà un Marinetti ‘in Arab face’, ossia un uomo bianco che si appropria del corpo di un arabo, ma dietro il quale si cela il suo alter ego, come evidenziato dalla critica marinettiana[6]. All’inizio del romanzo Mafarka ha appena sconfitto un esercito di africani neri, che chiama, paternalisticamente «negri miei amatissimi, miei futuri sudditi» (p. 20), capeggiati da suo zio, il re Bubassa. L’ambizione militare di Mafarka si accompagna a quella virile e misogina di generare un figlio meccanico e immortale, tale Gazourmah, senza l’intervento della vulva di una donna. La fantasia partogenetica di Mafarka celebra un mito di fondazione segnato dal passaggio, secondo l’autore, dall’irrazionalità del matriarcato africano all’era dinamica, libera e razionale del patriarcato. Tale passaggio avviene non a caso sul suolo africano. L’Africa di Mafarka il futurista è infatti araba e orientaleggiante ma per l’Italia sconfitta e umiliata nel 1896 dall’esercito di Menelik II ad Adua, rappresenta la terra da riconquistare in nome dell’espansionismo coloniale. I codici etno-razziali del romanzo (un “maschio arabo” vincente contro un esercito nero) anticipano le strategie filo-arabe che saranno il caposaldo della ‘politica islamica’ mussoliniana in Medio Oriente e in Nord Africa: simpatizzare e sostenere le popolazioni arabe contro l’imperialismo britannico e francese per poter aver campo libero sulle popolazioni nere del Corno d’Africa[7].

In Mafarka, il progetto virile domina tutto il romanzo e si accompagna all’eliminazione della donna nera dal sesso procreativo. La partogenesi maschile crea un uomo dalle ali meccaniche, un cyborg maschio e bianco, non contaminato dalla femminilità e dalla nerezza. Secondo Barbara Spackman, che ha acutamento analizzato il romanzo, ciò che è in gioco è il trasferimento di proprietà dal femminile al maschile ma anche dall’Africa all’Europa (franco-italiana, in questo caso), in cui la celebrazione della virilità richiede la ripetizione seriale della violenza e dello stupro. Il romanzo si apre infatti con una lunga, atroce scena di stupro di massa che è chiaramente color coded. «Sui corpi, appunto, delle giovani negre, stese supine in riva a quello stagno immondo, centinaia di guerriri ignudi si accanivano in quel momento, con furore epilettico, mentre gli altri aspettavano in fila il loro turno» (p. 27). Lo stupro avviene in un luogo che Marinetti immagina dantescamente come uno stagno melmoso in cui «uno strano ciclone umano» di «corpi giallognoli ammucchiati a piramide, [che] crollavano sudando il loro succo, quali mostruose olive» (p. 26). Gli stupratori sono i soldati del re Bubassa, nemico di Mafarka, aizzati alla violenza e alla ribellione dall’alcool e dagli stessi generali del re. Questi hanno “dorsi di bronzo” e “membri nerastri, affumicati,” mentre le donne “piccole mammelle color di caffè abbrustolito.” (p. 28). Nell’immaginazione femminicida di questo sterminio, le donne nere sono pegno di guerra, corpi da eliminare, in un delirio di carneficina sollecitato dall’ipervirilità nera, una “potenza genitale” (p. 31) piena di furore infernale. Mafarka, eroe arabo conquistatore di masse nere, assiste alla violenza deplorando e insultando la lussuria incontenuta dei suoi nemici, accusandoli di aver fatto del loro sesso «la vostra spada preferita, la sola spada che sappiate maneggiare con arte […] per generare dei figli di bagasce e dei cani leccatori di vulva, quali voi siete!» (p. 33). La lussuria dei neri è deplorevole, eppure le proprietà virili dei loro falli viene letteralmente incorporata da Mafarka affinché l’intreccio avanzi verso il coronamento della partogenesi maschile.
In una delle micro-storie inserite del romanzo, Mafarka, trasvestito da mendicante, racconta a Brafane-el-Kibir, “gran re dei negri” (p. 49) la storia di come il Demonio acquistò dallo stesso Mafarka uno stallone (“tutto nero”) dal fallo «color di porpora! …Ma aveva la punta tempestata di zafferi» (p. 50). Il fallo (o zeb, in arabo nel testo) dello stallone nero del demonio possiede un potere ipervirile che anche Mafarka acquista dopo averlo mangiato sotto le sembianze di un pesce dal sapore sublime: «Mafarka non si fece pregare e, preso a due mani il finto pesce, cominciò a spingerlo lentamente nella larga bocca, trinciandolo con i denti, come si mangia un banana» (p. 52). Il consumo del pesce-fallo, che approssima il sesso orale omoerotico, lo rende immediatamente prone allo stupro: «Poi, Mafarka si gettò sulle serve che stavano sparecchiando e le possedette, sui cuscini, una dopo l’altra, ridendo come un pazzo […]. E la violenza di Mafarka sempre cresceva man mano che egli passava dall’una all’altra…Ad un tratto egli balzò furibondo sul Demonio, urlando: ‘Il tuo palazzo m’appartiene! Vattene! Se non te ne vai ti sfondo le natiche!’» (p. 52).

La violenza e lo stupro si consumano contro le donne, ma minacciano anche gli uomini, e implicano possesso sessuale e simultaneamente conquista di potere politico. In un altro passaggio della storia, il fallo serve a Mafarka per soddisfare il desiderio omoerotico del suo stesso nemico, suo zio Bubassa, il quale «stuzzicato da sí meravigliose avventure, volle esperimentare personalmente le virtù di uno zeb tanto miracoloso […] Mafarka-el-bar, a quanto pare, si affrettò a soddisfare il re, a approfittando della postura sottomessa che questi aveva preso, lo imbavagliò, lo incatenò e gli rapí lo scettro!…» (pp. 54-55). Lo stallone nero del demonio servirà infine a Mafarka per impaurire e conquistare gli esercizi “negri” e le cavallerie nemiche facendole scagliare l’una contro l’altra. La “potenza genitale” dei neri passa dal fallo dello stallone del demonio a Mafarka (attraverso l’atto orale) e infine anche a suo figlio meccanico, il cui «membro affumicato e metalizzato […] si irrigidí come una spade» (p. 210) al momento della nascita.

Cosa ci dice questa economia fallica e libidinale, in cui lo stupro delle donne nere e il sesso consensuale con gli uomini genera potenza sessuale, potere politico e modernità? Spackman invoca a proposito la definizione di hom(m)osexual economy di Luce Irigaray, in cui il fallocentrismo, ossia la centralità di una certa morfologia maschile, crea un’economia simbolica in base alla quale il corpo delle donne diventa materia, degradata e abietta, che serve esclusivamente ai bisogni e ai desideri degli uomini, e allo scambio di potere tra gli uomini. Janet Lee, che ha analizzato i manifesti di Marinetti, inserisce l’ipermascolinità nel contesto sociale della crisi dell’eterosessualità dell’Italia di fine secolo, rinvenendo nell’atto della penetrazione omoerotica l’espressione malcelata dell’ansia del nascente nazionalismo circa il potenziale sfondamento dei confini di genere e di quelli territoriali.
A mio avviso, il contesto coloniale del romanzo spinge a leggere la violenza delle relazioni di potere tra arabi e neri in una prospettiva diversa, in cui le esigenze della supremazia di razza rimandano direttamente all’imperialismo coloniale e al capitalismo razziale. Lo scambio omoerotico tra uomini arabi/bianchi e uomini neri, il possesso della virilità nera, e la nascita di un figlio meccanico sul suolo africano senza l’intervento di rapporti (interrazziali) di piacere e riproduttività sessuale, risponde ad un desiderio di possesso ed eliminazione della corpo nero e della nerezza tout court.
In Mafarka, come nota anche Spackman, il corpo delle donne arabe ha “coscie zuccherate,” ha il “colore della vaniglia”. È di fatto un corpo che nutre e produce materie prime coloniali. Il corpo nero, invece, sia di donne sia di uomini, è un corpo abietto, carnaio più spesso che carne, corpo conquistato dal Sole (che nel romanzo possiede il potere supremo) in una fantasia di conquista imperiale che domina tutta la fine del romanzo. La violenza di massa contro le donne africane, quindi, ricostruisce uno scenario che prepara alla procreazione dell’uomo futurista senza la ‘contaminazione’ dell’eroe arabo/bianco con la sessualità interrazziale. L’appropriazione del potere virile del maschio nero, come atto castrante, implica l’appropriazione del suo potere politico ed economico e la sua femminizzazione. La proiezione verso il futuro imperiale dell’Italia sull’Africa è data dalla sintesi della nascita dell’uomo meccanico, figlio della modernità futurista. Mafarka il futurista mette in scena dunque la nascita dell’imperialismo italiano in un’Africa di conquista e di sterminio, dove il corpo nero deve essere letteralmente liquefatto, disintegrato.

Sangue misto
Nell’Introduzione a Mafarka, Marinetti annuncia che «gli uomini dalle tempie larghe e dalle mascelle d’acciaio figlieranno prodigiosamente» (p. 5). Il risultato del lavoro di Mafarka il futurista è dunque Gazurmah, “uccello invincibile e gigantesco” (p. 160), nato per conquistare un impero senza il contributo della donna, nato uccidendo suo padre. Come Marinetti stesso aveva previsto nel Manifesto e Fondazione del Futurismo, la nascita del movimento avrebbe implicato la scomparsa degli stessi futuristi entro dieci anni dalla sua fondazione. Il romanzo si chiude dunque con un passaggio di consegne, alle generazioni future, del progetto imperiale, a cui fanno corollario la sua violenza e la sua economia libidinale in nome del dominio della macchina bellica e della supremazia razziale. Il futuro della logica suprematista del futurismo fu la violenta occupazione coloniale in Libia, e successivamente nel Corno d’Africa.
Nel contesto politico del colonialismo, la rivendicazione in Mafarka dell’atto procreativo come esclusivamente paterno è simultanea alla prassi normativa coloniale del riconoscimento dei figli nati da relazioni tra un italiano e una donna africana (sia Eritrea, sia Somala) in base alla patrilinearità. Nel periodo liberale, i bambini italo-eritrei e italo-somali erano considerati cittadini italiani se il padre italiano li riconosceva legalmente. Nel caso di mancata assunzione di paternità da parte del genitore italiano, il codice civile del 1909 introdusse una norma sul riconoscimento dei bambini nati nelle colonie in base al fenotipo, che permetteva l’attribuzione di cittadinanza sulla base delle tracce di bianchezza e quindi, di consequenza, di italianità. Appare chiaro in questa norma il nesso tra italianità, bianchezza, e cittadinanza. Secondo Angela Pesarini, «Con il Codice del 1909, si è in presenza di un processo di razzializzazione dell’identità nazionale e dell’associazione discorsiva del corpo razzializzato con una serie di significati specifici ascrivibili a tratti fenotipici»[8]. Queste norme estromessero di fatto le donne nere dalla genitorialità di bambini misti nelle colonie italiane.
L’approccio dell’Italia liberale e fascista alla questione della sessualità interrazziale non fu un caso isolato. Il controllo sociale sulle distinzioni razziali era prerogativa di quasi tutti gli imperi coloniali, in misura più o meno accentuata. Il controllo coloniale sui corpi dipendeva dal potere di decidere chi fosse bianco, chi nativo/nero, quali bambini potessero diventare cittadini o restare sudditi coloniali, e quali fossero le progenie legittime e quali no. Il dato di partenza fu la definizione di virilità e mascolinità in quanto la sessualità maschile rappresentava un’affermazione della supremazia bianca. Nel contesto coloniale italiano, le ricerche sul campo hanno stabilito che il vero taboo non era soltanto la sessualità interrazziale, ma la nascita di una progenie di ‘sangue misto’. L’idea della contaminazione del sangue, nel contesto coloniale, rappresenta una minaccia alle divisioni razziali binarie tra neri e bianchi, divisioni che devono rimanere chiare. L’intento della legislazione, dal 1909 in poi, era quello di sottrarre i bambini alla maternità delle donne eritree, in un contesto locale in cui il codice civile eritreo ammetteva la ricerca della paternità, permettendo alle donne di individuare il padre e di obbligarlo alle proprie responsabilità. Secondo Giulia Barrera, durante il periodo liberale e il periodo fascista, le prerogative sociali e politiche della patrilinearità, da una parte, e quelle razziali dello stato, dall’altra, hanno fatto del corpo del ‘meticcio’ un corpo conteso, che deve dimostrare di essere o interamente italiano, o interamente eritreo.
La questione dell’appartenza all’italianità risente ancora oggi della minaccia di una supposta contaminazione del sangue, come del resto dimostra l’incapacità dei governi italiani, sia di sinistra sia di destra, di abbandonare lo jus sanguinis. Tale concezione dell’italianità, tutta compresa nelle restrizioni della cittadinanza sulla base di categorie bio-politiche, ritorna ad una concezione corradiana della razza pura come espressione totalizzante dello stato. Da qui all’incitamento alla violenza contro le donne e gli uomini neri, e quello alla violenza femminicida, il passo è breve, come la storia culturale del primo Novecento italiano sembra dimostrare. E tuttavia non va dimenticato come le fantasie misogino-razziali sanciscano il legame tra violenza sessista, l’eliminazione della nerezza, e la rigenerazione della virilità nazionale volta verso il future. È la formazione di questa identità a segnare l’entrata dell’Italia nella modernità, un’identità xenofoba, misogina e esclusivista, che ci aiuta, possibilmente, a comprendere il suo ritorno come matrice culturale e come fantasia del sociale nell’Italia contemporanea.

Note
[1] Per una chiarificazione di come tale logica diventi principio estetico nel futurismo si veda Winkiel. Per uno studio sull’esteticizzazione modernista della politica in Marinetti si veda Blum 1996.
[2] Traduzione dall’inglese a cura di chi scrive.
[3] Citazione del brano riportata in Spackman, p. 75.
[4] Zona strategica per raggiungere Assab, sul Mar Rosso, la regione di Shawa divenne la destinazione delle prime missioni coloniali degli italiani, il cui scopo fu anche quello di raccogliere intelligence militare. Si veda Zewde.
[5] Ringrazio Sara Antonelli per questa sua acuta osservazione in merito al rapporto tra latte e sangue.
[6] Si veda, in particolare, l’Introduzione di Luigi Ballerini a Mafarka il Futurista. Anche Spackman vede in Mafarka una proiezione del desiderio di dominio dei bianchi sull’Africa.
[7] Si veda Del Boca.
[8] Traduzione dall’inglese a cura di chi scrive.

References
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Spackman B.Fascist Virilities: Rhetoric, Ideology, and Social Fantasy in Italy, University of Minnesota Press, Minneapolis 1996.
Stoler A., Carnal Knowledge and Imperial Power: Power, Race, and Morality in Colonial Asia, in di Leonardo M. (a cura di), Gender at the Crossroad of Knowledge, University of California Press, Berkeley 1991, pp. 51- 101.
Winkiel L., The Rhetoric of Violence: Avant-garde Manifestoes and the Myth of Racial Community, in Bru, S., e Martens, G., (a cura di), The Invention of Politics in the European Avant-Garde (1906-1940), Brill, Leiden 2006.
Zewde B., A History of Modern Ethiopia (1855-1974), James Currey, London 1991.

Cristina Lombardi-Diop è una critica e storica della cultura di base a Chicago, dove insegna corsi di letteratura africana, cinema, studi di genere e studi postcoloniali presso la Loyola University. Ha curato il volume Postcolonial Italy (2012, tradotto in italiano come L’Italia postcoloniale, 2014) e un numero speciale del Journal of Postcolonial Studies on Postcolonial Europe (2016); Autrice di Bianco e nero: Storia dell’identità razziale degli italiani (2013), e co-curatrice del numero speciale di Roots&Routes sull’Afrofuturismo (Anno IX, N°31, Settembre – Dicembre 2019), Lombardi-Diop ha ampiamente pubblicato su argomenti quali la femminilità coloniale bianca, l’Atlantico nero e il Mediterraneo e la letteratura diasporica africana in Italia.