Sempre di più è strano dover parlare
Perché nel pavimento delle parole ciò che è sotto non appare mai
È come l’asfalto che copre le vie di questa città
Copre tutto
Il Canto delle donne dell’asfalto (O Canto das Mulheres do Asfalto) è un testo di Carlos Canhameiro, messo in scena con la regia di Georgette Fadel nel 2015 in una piazza periferica di São Paulo, poi in altri spazi pubblici della città e nei villaggi di campagna tutto intorno.
Il Canto nasce sugli alberi della piazza frequentata fra l’altro da prostitute e dall’universo gay underground; nasce nelle gole di attori e attrici che devono urlare per farsi sentire, e il suono delle parole è aspro, violento. I performer, creature senza tempo, antichissime e future, scendono poi in strada, si insinuano nel traffico, lo disturbano, lo deviano. Finiscono sui cofani delle macchine, strisciano a terra, vanno a cercare il pubblico. La sensazione che si ha, guardando il video di quello spettacolo, è di pericolo; un’azione relazionale autentica e coraggiosa fra clacson, semafori, rumori. Eppure il pubblico è immobile, attentissimo.
Che cosa è successo? Le donne hanno deciso di non fare più figli per non essere complici di un mondo allo sfascio. Lo affermano e lo gridano con una potenza straordinaria, mai per giustificarsi ma solo per asserire una decisione già presa, irrevocabile: “Ce l’abbiamo fatta/oggi ci sarà tutta la spiegazione/oggi saremo asfalto che copre ogni emozione/oggi sarà il giorno della precisione delle parole”. Riecheggia in sottofondo la Lisistrata di Aristofane, in cui le donne di Atene, stanche della guerra, decidono di non avere più rapporti sessuali finché i compagni non sceglieranno la pace; ma come cantano queste donne “s’inganna chi pensa che ci sia ancora qualcuno che pensa che stiamo parlando di sciopero del sesso”, infatti è “decisione decisa piantata curata cresciuta fiorita e fruttificata”. Non è commedia ma canto.
L’attrice e regista brasiliana Paula Carrara, una delle performer della prima edizione, ha continuato a riflettere sulla potenza di quel testo e lo ha presentato in due prove aperte, l’ultima delle quali al Mudec-Museo delle Culture di Milano. In scena quattro donne, attrici non professioniste diverse fra loro per età, biografia e fisicità. Uno spazio asettico, quasi da ufficio, con un tavolo e le sedie imbottite; minime tracce di quotidianità (le tazzine del caffè, il bicchiere d’acqua); brevi sequenze corporee a punteggiare la forza del testo, che resta intatta anche nella traduzione italiana (il testo è pubblicato in entrambe le lingue da Lamparina luminosa, con meravigliose illustrazioni di Carolina Meirelles).
Le domande che pongo a Paula attraversano temi che sento molto attuali, anche in relazione ai luoghi comuni sulla genitorialità, sul corpo femminile e le sue età, sulla capacità di una libera autodeterminazione, sulle possibilità della lotta ovvero sui modi di trasformare il proprio dissenso “privato” in lotta, su come essere incisivi e su come rappresentare tutto questo. In che modo l’abdicazione alla maternità può costituire una risposta, e fino a quando le donne non faranno più figli? Perché questa scelta viene compiuta dalle donne ma il testo lo ha scritto un uomo? Chi ha figli deve sentirsi in colpa (dentro la dimensione drammaturgica, ben inteso)? Quanto sentimento di rinuncia c’è in questa lotta, ovvero – specularmente – quanto l’astensione è generativa (penso alla dimensione della clausura, al boicottaggio, alla meditazione, a ogni forma di apparente inazione che invece crea cerchi concentrici potenti)? La violenza è essere arrivati a questo punto o “punire” il mondo fermandone la possibilità di futuro, è subita o inflitta? O forse non è punizione ma estrema offerta di salvezza (“non avremo più motivi per cui lamentarsi”). La grande domanda che contiene tutte le precedenti è sul ruolo del teatro nel sublimare queste tensioni, e quale spazio di discussione o crescita si possa costruire una volta finito lo spettacolo.
Paula, l’energia cambia profondamente nel trasferimento/traduzione dallo spazio aperto e caotico della piazza a quello asettico del museo. Come hai sentito questo spostamento? Il Canto è diventato altra cosa? E allargando i confini della domanda: che cosa cambia nel passaggio dal Brasile all’Italia? Ha senso usare le stesse parole in questi due diversi contesti culturali e sociali?
Per quanto riguarda l’ambientazione, ti confesso che all’inizio non capivo perché la regista ci avesse chiesto di salire sugli alberi: come gli spettatori avrebbero potuto capire un testo così complesso, duro, senza punteggiatura? Nel tempo, quella piazza è diventata un manifesto, un manifesto dell’intensità di quella specifica città con le sue relazioni intense, i suoi contatti intensi, perfino i suoi errori più intensi che altrove. Il traffico è violento, un viaggio in metropolitana è un’esperienza violenta… Ma dopo un po’ di tempo tutto ha preso senso, piano piano abbiamo capito, anche nel corpo, il significato di quel “togliersi dalla realtà”, come se la decisione così incredibile descritta nel testo chiedesse di mettersi in un posto che stava oltre, più su, per essere più credibili. L’aspetto scenico è stato molto “pulito” nel passaggio in Italia: nella prima prova aperta milanese alla Corte dei Miracoli di Milano, e poi in forma alleggerita al Mudec, ci sono elementi che richiamavano alla sfera della cucina come sfera del privato, storicamente dedicata al pensiero femminile; in fondo, un luogo di potere. Io ho vissuto in prima persona la coda lunga di un pensiero che, almeno in Brasile, imponeva che per affermare il proprio essere creativo bisognava negare questa stanza/istanza privata che è la cucina, ma ho voluto riappropriarmene per farne davvero un luogo di potenza e di potere. Nel Canto non esiste una dimensione intima ma una dimensione collettiva che emerge in forma di quadri, non si parla mai del “mio” dolore: la cucina allora non è il luogo dell’intimità ma quello in cui progettare la rivoluzione.
Mi interessava portare il Canto in Italia anche in riferimento a una questione di età, all’”età-Europa” in relazione alla popolazione giovane del Brasile. Questo dato colpisce profondamente, a livello corporeo ancora prima che razionale: se cammini per strada in Europa o in Brasile avverti una differenza radicale nei corpi delle persone, e dunque nel tuo. In Brasile l’aspettativa media di vita è di 65 anni: è un popolo giovane, ma questa immagine si è materializzata per me solo quando sono arrivata in Europa, qui sono circondata da un popolo la cui pelle ha più rughe, più anni, più segni. Mi interessava questa differenza, perciò ho cercato interpreti sopra i 40 anni: volevo verificare come risuonava questo testo in un corpo femminile che veramente avesse vissuto degli anni in più.
Qui in Italia, ho sentito l’esigenza di valorizzare la dimensione dell’ascolto, il bisogno di consegnare questo testo in modo più integrale e fedele alla sua natura. Ho cercato l’estremo opposto rispetto alla versione di São Paulo: un invito a un tavolo, quasi senza l’artificio del teatro tra l’attore e il pubblico ma da persona a persona. Per questo non ho cercato attrici professioniste.
Parliamo della protesta insita nell’attesa, o comunque nella scelta di non fare qualcosa, che non è una rinuncia ma una scelta. Non avere figli è un gesto attivo. La lotta attraverso l’attesa, la cesura del tempo, la costruzione di un tempo diverso: a volte questa “rinuncia attiva” viene relegata a una dimensione femminile (Penelope e la sua tela). Ma forse così la si sminuisce un po’. Come può un atto di astensione generare una rivoluzione?
Questa tua domanda mi rimanda a un tema su cui rifletto spesso, quello del tempo come moneta e unità di misura nella costruzione di un sistema economico: il successo a volte viene misurato dalla mancanza di tempo, dal fatto di avere vite piene, senza un attimo di ozio o di sospensione. Quanto la mia tensione a riempire il tempo è espressione di un sistema che vuole togliermi la possibilità di vivere altre cose? Avendo una storia di attivista nei movimenti sociali conosco quella pienezza dell’occupare le giornate, spostarsi velocemente, creare relazioni; ma oggi mi interessa molto il rifiuto delle donne del Canto a produrre altri corpi, corpi che verranno catturati da un sistema che io posso criticare ma di cui faccio comunque parte. Per me questo rifiuto fa parte delle possibilità che bisogna comunque considerare. Che cosa significa non produrre più corpi? Significa minacciare da sotto un sistema che dipende dai corpi, dipende dalla gente.
È la dimensione di minaccia dal basso a creare quella dimensione ironica che non ci si aspetterebbe in questo lavoro? Un “fare i dispetti” al sistema?
È un testo molto attivo. Già la presa di parola è un gesto molto attivo. Occupare lo spazio del linguaggio è un gesto radicale, e anche questa è una minaccia. Ma non è una minaccia al genere maschile, né al diverso, anzi dal mio punto di vista è un tentativo di denuncia che va nella direzione opposta.
Minacciamo da sotto, tagliamo la radice dell’albero. In questo c’è l’ironia sublime di dire: abbiamo sbagliato, abbiamo fallito; e ora che cosa possiamo fare? Non c’è vittimismo; non c’è amarezza né desiderio di vendetta. C’è leggerezza nel dire anche le cose più dure, anzi trovo così umano questo Canto delle donne, perché è il massimo della compassione riconoscere che no, non stiamo vivendo bene; è un voler bene alle persone.
Lo capivo molto bene come performer, quando stavo lassù sugli alberi e vedevo le ragazze a testa in su ad ascoltarci, ad accompagnarci. Quello che facciamo lassù è un esercizio di potenza, io per fare il Canto non posso essere riposata come attrice, devo essere davvero carica; io sto dicendo che l’umanità finisce ma in realtà desidero che ce ne sia di più.
Un giorno Paula scrive: cerco delle attrici non professioniste sopra i 40 anni per portare in scena il “Canto delle donne dell’asfalto”. Fate girare la voce?
Fra le persone che rispondono alla chiamata c’è Sara Del Corona, giornalista, che racconta così quello che ha capito e vissuto.
Ci siamo ritrovate in quattro donne
Sara Del Corona
Ci siamo ritrovate in quattro donne, diverse che più diverse tra noi non potevamo essere, sedute su una seggiola a turno, guardando una alla volta le altre che restituivano lo sguardo. Con questo esercizio di presenza Paula ci ha buttate dentro il linguaggio ruvido, viscerale, in molte parti respingente di Carlos Canhameiro.
A unirci da subito credo sia stato il colpo di istinto che ci ha fatto rispondere al richiamo di una regista brasiliana che non conosce la paura: ultraquarantenni non-attrici cercansi per non-recitare un testo teatrale.
Paula già sapeva che basta aver vissuto un congruo numero di anni da donna per avere tutto quello che serve a questa storia. Noi però no, e ci sono volute un po’ di ore di lavoro sui canti che compongono l’opera, sul nostro corpo e sui suoi movimenti.
Non è lotta di genere, è cosa ovvia. Basta guardare con gli occhi bene aperti, dice il Canto senza figlio (il primo capitolo).
Non è lotta di genere, è cosa ovvia aver provato quel peso sulle ali, antichissimo, tramandato di madre in figlia come una cosa preziosa, che non ci ha permesso certi voli che sappiamo, ciascuna i suoi. E aver provato a spiegare a un uomo una qualche propria ragione – spiegarla con l’anima in gola così protesa che è mancato poco che cadesse fuori – senza la minima possibilità di un incontro. Di un riscontro. E aver subìto l’insulto e il tradimento di frasi inadeguate, o riduttive, o volgari, o violente, almeno quanto i pensieri che le spingevano fuori.
Le attrici di Hollywood e i film indie, le neofemministe ma anche le vetero, i libri poetici illustrati, le pubblicità dei biscotti, le amministratrici delegate e illuminate delle smart aziende, anche certi uomini in gamba: ultimamente tutti non fanno che ricordarci che la disparità di genere esiste, ed è dunque improrogabile un riscatto, inteso con una sua componente cruenta, almeno un po’. Be’, con Il canto delle donne dell’asfalto si può scoprire qualcosa di più e di diverso. Che non c’è lotta. Una cosa ovvia non ti chiede di combattere, non ti succhia energie. Sta lì. È un puro, neutro dato di fatto, quindi – guarda cosa mi viene da pensare – con una sua innocenza su cui non ci si deve accanire. Da cui si può semplicemente partire. Per concentrarci su cosa fare di noi.
Tra un esercizio di respirazione e una lettura, l’ho capito a un certo punto in un sussulto che è partito dalla pancia e si è fatto ascoltare, si è fatto vedere.
Ma allora serve a questo il Canto delle donne dell’asfalto, mi sono detta. E anche: ma allora leggere i libri non basta, il teatro è davvero e per sempre necessario.
Paula Carrara. artista della scena, attrice e performer, esplora dispositivi di creazione alla frontiera tra teatro, performance e musica. Da 2007 si dedica alla creazione in collaborazione con artisti come Carlos Canhameiro, Georgete Fadel, Joao das Neves, Maria Tendlau, Renan Marcondes, Cia.Estrela D’Alva, Cia. Ausencia em Cena and Cia.Les Commediens Tropicales. Laureata in Pedagogia Teatrale, ha frequentato un master sulla Formazione dell’artista della scena a l’Università di Sao Paulo. Attualmente sta lavorando a “Cassandra – a voice to find” con il sostegno di Mu.d Residenza Artistica (Napoli) e Kulturfactory Residency (Domicella).