Teatro Contadino, Teatrino.
Nel 1974 il trentacinquenne artista Vincenzo De Simone ritorna a vivere nel suo paese nativo, Roccarainola – piccolo comune dell’Agro nolano -, dopo un decennio di permanenza in Valtellina, deciso a mettere in atto un’esperienza che traduca finalmente in pratica le idee che va discutendo con i suoi colleghi già da qualche anno – almeno a partire dal 1969-1970, quando, insieme all’artista conterraneo Camillo Capolongo compila una bozza del poi mai definitivamente realizzato Manifesto CAPA -: recuperare uno specifico artistico ma calarlo pienamente nel sociale. Una proposta che in quel territorio non cade come un fulmine a ciel sereno, ma, nota lo stesso De Simone, «si inserisce nell’ambito del discorso di gestione sociale della cultura che da tempo vanno facendo il Multiplo di Marigliano, il Teatro di Marigliano (L. de Berardinis, P. Peragallo) e il Centro Arte Incontri di Nola, operanti sul territorio nolano, anche nel tentativo, qualificante per i gruppi stessi, di operare un decentramento delle attività culturali»1. Essa si pone inoltre in piena conformità con quanto in quegli anni va teorizzando Enrico Crispolti – che infatti vuole il Teatro Contadino alla Biennale di Venezia del 1976 – circa l’artista che si converte in operatore estetico e quindi in una sorta di levatrice della creatività collettiva e dunque in stretto rapporto di affinità e dialogo con esperienze che vanno nascendo nella seconda metà del decennio settanta un po’ ovunque in Italia, ma forse soprattutto in area campana2.
L’occasione è data dall’inizio del suo insegnamento di educazione artistica presso la Scuola Media G. Pascoli del limitrofo comune di Cicciano, ove i suoi alunni – e le loro stesse famiglie – vengono felicemente trasformati in altrettanti operatori del Teatro Contadino, insieme ad altri colleghi insegnanti o artisti e a tanti altri individui minorenni e adulti che escono ed entrano continuamente dal gruppo, determinandone una conformazione estremamente liquida. Come può avvenire che in tempi relativamente rapidi si riesca a suscitare una tale quantità e qualità di partecipazione, senza incontrare significative resistenze e defezioni da parte di persone che per lo più possiedono un livello di istruzione molto basso e dei loro figli che dalle condizioni culturali della famiglia di origine sono inevitabilmente influenzati?
«L’assurdo che contraddistingue la pratica didattica corrente delle nostre scuole», scrive Corrado Ruggiero su “Paese Sera”, «è quello che esiste una spaccatura verticale tra i temi e i problemi che vengono affrontati, calcolati dall’alto sulla testa di alunni e docenti dai programmi ministeriali, e la effettiva realtà che poi, una volta fuori dalle aule scolastiche, ci si trova costretti ad affrontare. Può capitare (ovvero capita tutti i giorni) che un ragazzino dei nostri vicoli sia “intrattenuto” dalla salubrità delle ariette alpine laddove il suo problema, invece, è che di pomeriggio deve andare a lavorare da cameriere sottopagato in un bar. Oppure che un figlio di contadini di un qualunque paese del Sud sia costretto a leggere sul sillabario delle meraviglie della tecnica “milanese”, sui vantaggi della metropolitana, lui che – probabilmente – ha visto sì e no qualche volta il treno»3. La scuola italiana si confermerebbe insomma «ancora una volta e per questa via, come scuola dello spreco e dell’inganno nel momento in cui mette tra parentesi tutte le capacità formative e critiche del ragazzo per alienarlo ad un modello culturale sceso dall’alto sulla sua testa, sui suoi reali bisogni e problemi e, nella misura in cui l’allontana dalla presa di coscienza dei “propri” problemi, per ingannarlo spacciandogli per “reali” i falsi problemi dei nostri libri di lettura»4. Ebbene, per Ruggiero, in sintonia con il giudizio di Crispolti, il lavoro che De Simone svolge nella scuola ciccianese possiede niente di meno che il merito di contestare «radicalmente questa spaccatura»5. La profonda confutazione dei «modi più correnti di gestione dell’insegnamento di istruzione artistica» avviene infatti, per il critico romano, sottoponendo «tali metodologie (che in genere, e nei casi migliori, nascono da una pratica di psicologia della forma, e magari di nozioni cibernetiche, e di sommaria informazione storico-artistica) ad una verifica rispetto a precise necessità e condizioni locali, anziché piegare queste necessità ad un astratto modello altrove elaborato»6.
Teatro Contadino, Animazione.
Tali critiche ed intenti sono confermati dal testo a firma dell’intero gruppo che compare sul fascicolo realizzato dal Teatro Contadino in occasione della Biennale del 1976. Esso denigra infatti «La normale, o meglio, la tradizionale attività scolastica, costretta a trasmettere una cultura o una pseudo-cultura ancorata a vecchi schemi di selezione e di casta», la quale «ha finito già da tempo per perdere il contatto con la realtà sociale in cui si trova ad operare». Una condizione che «si riflette sul comportamento dei ragazzi che, se si prescinde dal fine utilitaristico del “pezzo di carta” da prendere ad ogni costo, soprattutto tenendo presente la realtà socio-economica di tutto il meridione, non trovano nel lavoro scolastico alcuna valida motivazione, per cui le ore scolastiche diventano una “parentesi noiosa” della giornata, da trascorrere alla men peggio prima di riprendere la “normale” attività quotidiana». Per superare questo stato di cose alquanto sterile il Teatro Contadino non scorge altra soluzione che andare alla «ricerca di contenuti tali da rafforzare le motivazioni; in parole più semplici si tratta di rendere la scuola più “interessante”. Solo l’interesse, infatti, può garantire il buon esito di un lavoro; lavoro che solo in questo modo può diventare una fase attiva, un momento valido del processo educativo». Inoltre «Solo con l’interesse assume valore anche lo studio, lo sforzo, in quanto questi elementi si trasformano in ansia di conoscere, desiderio di sapere di più, bisogno intimo di soddisfazione spirituale; e, solo incoraggiandolo nelle sue attività quotidiane, senza voler per forza distorcerne i modi di pensare, è possibile ottenere dall’alunno quell’impegno necessario alla realizzazione delle mete prefissate»7.
Tali presupposti conducono naturalmente alla ricerca della messa a punto di «un metodo di ricerca», «un’ipotesi di lavoro» che rendano «la scuola più viva e reale, ricercando quei contenuti che fossero più accessibili agli alunni, accessibili e facili, nella misura in cui fossero stati anche reali; e d’altra parte noi crediamo che non ci sia niente di più facile e di più interessante di un contenuto reale». Niente di più reale ci può essere pertanto per quei ragazzi del «mondo contadino, molto vicino agli alunni che la realtà contadina la vivono ogni giorno, trovandosi ad abitare in una zona a carattere prevalentemente agricola, usando come mezzi per la realizzazione dei loro manufatti (teatri-oggetti), materiale povero di rifiuto (in particolare il legno), e servendosi per la conoscenza del problema in modo più ampio di altri sussidi, quali la ripresa fotografica e filmica, interviste ai contadini, registrazioni animazioni». Si giunge così felicemente «al rovesciamento della normale attività scolastica». Esso va infatti considerato come un «risultato oltremodo positivo, dal momento che si sono avuti: da una parte l’aumento delle motivazioni del lavoro scolastico, nel senso che caricandolo di questi nuovi contenuti, il lavoro stesso non risulta più avulso dalla realtà e diventa pertanto più comprensibile e più logico e giustificabile agli occhi degli alunni; dall’altra il miglioramento dell’integrazione dell’individuo nel gruppo e nella classe e un maggiore sviluppo dei comportamenti cooperativi, soprattutto in relazione alla ricerca e all’utilizzo del materiale povero e di rifiuto, con una logica e conseguente diminuzione della competitività fine a se stessa, a beneficio del lavoro collettivo, contribuendo in tal modo al processo di maturazione e di socializzazione degli alunni stessi»8.
Da una parte così il lavoro col Teatro Contadino fa sì che presto gli alunni riescano «ad avere più chiare le idee circa l’ambiente in cui vivono, dove cominciano a muoversi adesso con una certa padronanza di sé, prendendo visione dei problemi con uno spirito critico che è ben lungi da quel senso di sgomento, trattandosi di problemi fuori dalla loro portata, o di indifferenza, trattandosi di problemi che a prima vista sembrerebbero non interessarli, da cui erano caratterizzati», dall’altra tale «chiarificazione e puntualizzazione dei problemi» sortisce di conseguenza «quasi un effetto liberatorio: liberatorio per quel tanto di liberazione che la rappresentazione in se stessa provoca, allorché si focalizzano tutte le energie individuali verso un determinato obiettivo; liberatorio nel senso che i ragazzi, rappresentando problemi reali, si riaggancino al resto della realtà sociale uscendo in certo modo dal ghetto del mondo infantile; liberatorio, perché l’uso del teatrino come mezzo di espressione, realizzabile prescindendo da capacità artistiche e intellettuali, mette ogni ragazzo in condizione di sviluppare le sue idee e la sua capacità critica nel modo a lui più consono e alla pari con gli altri, risultando così eliminata la figura del “leader”, del primo della classe»9.
Teatro Contadino, Teatrino.
Ma qual è dunque, più nello specifico, la prassi del Teatro Contadino? Dove comincia e dove si arresta il ruolo di De Simone rispetto all’attività autonoma degli alunni? Quali sono le varie fasi in cui tale prassi è scandita? De Simone ritaglia per sé un ruolo di coordinatore generale delle varie azioni singole – del resto «il lavoro di gruppo», fondamentale per la «socializzazione degli alunni», non è mai «tale da limitare l’individualità»10 -, anche la sua funzione, che non è certo quella dell’artista ma semmai dell’insegnante «risulta in un certo modo rovesciata: l’insegnante diventa qui solo un cooperatore che può esprimere la sua idea e il suo giudizio al pari con gli altri ragazzi, rinunciando alla sua preminenza nel momento in cui si presenta disponibile anche ad un eventuale rigetto da parte degli alunni delle sue idee circa l’impostazione e la realizzazione del lavoro»11. La sua figura è forse ben descrivibile adoperando la metafora della cornice, un’ampia e mistilinea cornice ove vanno a coagularsi contributi molteplici ma sempre ben orchestrati in un disegno unitario. «Formato il gruppo, concordate le idee e i presupposti di lavoro, i ragazzi si sono subito resi conto che fare un lavoro basandosi solo sulla fantasia e sulle capacità individuali, sarebbe stato, oltre che inutile, anche poco interessante ed hanno quindi sentito il bisogno di informarsi, di documentarsi, attingendo questa volta non ai libri o agli strumenti scolastici, ma alla realtà quotidiana, con osservazioni precise sull’ambiente mai prima prese in considerazione»12. Essi procedono così, ad esempio, con l’ausilio di registratori e persino talvolta di videocamere, ad intervistare i contadini – spesso familiari, soprattutto i nonni – per attingere a quella memoria delle antiche tradizioni della cultura rurale che questi ancora conservano viva e non di rado anche operante. Si tratta infatti di un rievocare personaggi, fatti e detti del passato, ma anche di catturare un presente preindustriale che in buona parte nella Cicciano degli anni settanta è ancora attualità: «Se dovevamo drammatizzare una scena di campagna», ricorda De Simone, «il contadino veniva a scuola. E la scena era Cicciano. Turillo ‘o surbettaro stava a Via Caserta, che era la sua zona, e così sullo sfondo c’è davvero Via Caserta. I pupazzi si muovono in Via Caserta. Il dialetto è il loro, le voci del mercato, ad esempio. Il puparuolo costava quanto costava nella realtà. […] I personaggi che si muovono dentro (al teatrino-oggetto) stanno dentro la loro realtà Le parole sono quelle che davvero pronunciano. È tipico delle parti nostre dire: “Damme ‘nu poco ‘e addore!”»13.
Il momento dell’inchiesta non è infatti che la prima fase; ad essa segue naturalmente il processo che porta alla drammatizzazione: «Partiamo da una lezione tipo», racconta ancora De Simone «in cui tu entri in classe e i ragazzi ad esempio hanno avuto il compito di intervistare le loro nonne. Ascoltiamo tutte le registrazioni che hanno portato, poi ne scegliamo una e la drammatizziamo. Come la drammatizziamo? Facciamo uno schema alla lavagna, che ancora una volta assume il suo compito non per una lezione tradizionale, ma come supporto per delle idee, perché ci dà la possibilità di cancellare e di aggiungere subito i dati. Alla fine quando ha preso forma l’idea di quello che dobbiamo orchestrare, si dice, ad esempio: “C’è bisogno di marionette, facciamo le marionette!”. E partecipavano anche i genitori alla loro realizzazione»14. «Alcune di queste costruzioni», testimonia Domenico De Masi, «sono “agite” dai ragazzi sia nella fase di confezione che nel suo uso successivo, nel senso che consistono in piccole macchine teatrali con le quali gli allievi possono rappresentare episodi di vita quotidiana come attraverso un teatro di burattini. Altre, invece, una volta completate, sono statiche raffigurazioni di episodi familiari o di cicli stagionali»15. In alcune occasioni – per raccontare la storia dell’inquietante figura della Malombra, ad esempio – il medium prescelto diviene il fumetto16. «Accanto al teatro-oggetto», si viene a sapere tuttavia dal testo del Teatro Contadino contenuto nel fascicolo per la Biennale, «i ragazzi hanno dato vita anche ad azioni teatrali vere e proprie utilizzando se stessi come attori e ricavando il palcoscenico dall’ambiente circostante (un angolo della scuola o del paese o della campagna)»17.
Teatro Contadino, ‘A Malombra.
Teatro Contadino, Marionette su ruota.
Osservando le operazioni con gli occhi del sociologo, De Masi insiste sulla posizione di «ghetto subalterno» che Cicciano ancora occuperebbe, malgrado tutto, nel mondo contemporaneo, un ghetto nel quale «sono imprigionati altri ghetti più piccoli: la famiglia, la parrocchia, la scuola. E nel getto-scuola, sigillati come un gioco di scatole cinesi, vi sono gli altri, 102 ragazzi, tutti figli di proletari solo qualche figlio di professionista: il settanta per cento figli di genitori che non hanno mai superato la quinta elementare, ripartiti in quattro aule di prima media». La condizione del ghetto preserva così, ancora nella metà degli anni settanta – ovvero in un’epoca che col senno di poi si è voluta riconoscere quale inizio dell’era postindustriale -, «una realtà preindustriale e, quel che è ancora più importante – una realtà – che, di fatto precede l’avvento delle comunicazioni di massa» e le loro costruzioni ne sono espressione e testimonianza tanto in termini di contenuto, quanto in termini di forma. Se infatti «le storie rappresentate sono tutte ricavate dalla vita rurale; la vita del pomodoro dal seme al frutto; la vita della patata o della vite; lavoro o riposo in mezzo ai campi; storia del tronco dell’albero; storia dei nodi fatti dai contadini, ecc. Quasi tutti cicli che cominciano con la semina e terminano con la vendita dei frutti ad un compratore ignoto, oltre il quale comincia la catena industriale che i ragazzi nemmeno sospettano», a livello puramente linguistico «queste costruzioni rivelano che gli autori sono immuni da qualsiasi influenza del cinema e della televisione: nulla che ricordi “Topo Gigio” consueti ai ragazzi di città, nulla che ricordi i “Paperino” i “Topolino” dei cartoni animati. Raro l’impiego di pezzi di plastica»18.
Tutto ciò suggerisce a De Masi «una forte sproporzione tra la ricchezza espressiva degli autori, e la povertà delle cose che gli è dato di esprimere, tra la loro capacità e la loro esperienza, tra il molto che essi potrebbero dare e il poco che gli è stato dato. Si veda, ad esempio, una delle costruzioni più suggestive e più tristi di tutta la raccolta: la fascina di legno che traspare dal pacco in cui è stata costretta, e ci si chiede – senza conoscerlo – chi può essere il ragazzo pervenuto già in pochi anni ad una così compiuta espressione artistica: da quali genitori è nato? In che stanza ha dormito? Di che cosa è stato nutrito? Che cosa ha rappresentato per lui lo Stato, la Repubblica italiana fondata sul lavoro, con tutti i suoi faraonici apparati assistenziali, i suoi ministri, le sue accademie, le sue città, le sue rotative e i suoi aeroporti!»19.
Senz’altro l’analisi di De Masi dimostra una discreta aderenza alle caratteristiche dell’operazione. È verissimo che solo spostandosi di pochi chilometri, magari raggiungendo la stessa Napoli, il lavoro dei ragazzi avrebbe presentato contenuti completamente diversi e probabilmente lasciato emergere più o meno frequentemente l’impronta stilistica dei cartoon della Disney o della Warner Bros. – forse sarebbe stato ancora presto per quelli giapponesi. Tuttavia questa dimensione di getto, improntato a «chiusi limiti di una “Istituzione Italo” protetta da ogni forma di modernizzazione»20 non va estremizzata ed assolutizzata, ché siamo sempre in un’Italia che ha conosciuto il boom industriale più di vent’anni prima, malgrado l’irrilevanza e la marginalità del paesino in questione. Quanto alla povertà dei mezzi, alla lontananza siderale da un contesto in cui vi è una iperproduzione di immagini – condizione che Jean Baudrillard non avrebbe denunciato che poco più di un decennio dopo21 – esse non sono che le condizioni magari non sufficienti, ma forse necessarie perché esiti creativi così peculiari vengano fuori. Nei manufatti dei ragazzi non ci scorgo mai pertanto – come avviene a De Masi – tristezza, ma triste semmai sarebbe pensare di sradicare quelle facoltà creative per ancorarle a presunti standard di efficienza e perfezione, caratteristiche che possiedono sempre un certo quid di costrizione verso una logica quantitativa che è quella appunto del capitalismo industriale e postindustriale.
Mostra invece di apprezzare ampiamente l’eliminazione di «qualsiasi tipo di valoristica fondata sui concetti del bello e della perfezione stilistica», impegnato in una battaglia contro i gusti ancora prevalentemente classici della critica ufficiale, il critico teatrale Edoardo Fadini. «Ciò che conta», proclama convintamente, «è la capacità del recupero culturale e la sua dinamica di riappropriazione sia nei confronti di una tradizione culturale negata ed emarginata per secoli sia nei confronti della carica liberatoria e libertaria che il teatro a questo livello porta con sé». Non gli sfugge inoltre quanto l’uso che De Simone fa del teatro sia sì legato al versante del recupero della tradizione, ma anche alla rottura con quanto essa possiede di autoritario e dunque alla prospettiva di una maggiore eguaglianza sociale che comincia dall’educazione: «Per De Simone il teatrino realizzato dai figli dei contadini è allo stesso tempo un modo di rompere il vecchio vincolo autoritario della comunità e “mostrare” le strutture dinamiche dell’apprendimento. Il quale, poi, è “oggetto” dell’azione nella misura in cui diviene secondario nei confronti dell’ambiente in cui agisce il teatro (il lavoro, le strutture familiari, il rapporto sociale, l’autorità, il meccanismo “agito” della liberazione della fantasia ecc.). Da questo punto di vista è interessante constatare quanto si equivalgono le azioni teatrali di propaganda politica aperta, quello di riappropriazione elementare del patrimonio culturale delle classi subalterne e infine il teatro di ricerca, che attraverso forme linguistiche diverse, pone il rapporto tra teatrante e ambiente storico-sociale come struttura portante dell’elaborazione drammaturgica rinnovata»22.
Teatro Contadino, Fumetto.
Anche per il Teatro Contadino, come per i tanti altri gruppi fratelli nati ad ogni latitudine della penisola, arriva così il momento della vetrina della Biennale di Venezia del 1976 – di una partecipazione che nel caso specifico è dovuta, come preannunciato, all’invito di Enrico Crispolti, responsabile, insieme a Raffaele De Grada, del Padiglione Italia, ma anche a quello di Remo Galli, responsabile del Padiglione Svizzero, che, essendo rimasto positivamente sorpreso dai materiali del Teatro Contadino presenti nella mostra del critico romano, chiede di averne anche nella sua sede espositiva. Contestualmente anche per il Teatro Contadino, come per l’A/Social Group, reduce dal suo lavoro con i degenti dell’Ospedale psichiatrico “Frullone” di Napoli23, o come per Riccardo Dalisi24, impegnato prima con i bambini degradato Rione Traiano di Napoli e poi con gli anziani della Casa del Popolo di Ponticelli, si pone lo spinoso problema di adattare un’esperienza che critica radicalmente il concetto tradizionale ed elitario di arte, trasformandolo in una questione di creatività collettiva, ad un contesto ufficiale che invece è il luogo della selezione per eccellenza da parte del sistema artistico, in quanto capace di decretare, prima ancora che una cosa è arte o meno, che una cosa è arte di pregio e quindi di valore anche economico e quindi di potere. Quale contrasto più stridente con le logiche improntate alla povertà ed all’essenzialità dei mezzi del Teatro Contadino contro la specializzazione e la professionalizzazione della civiltà industriale e postindustriale?
D’altra parte non è mai così sicuro che il mantenimento di una purezza assoluta sia la soluzione migliore, giacché la purezza forse preserva un po’ di bellezza in più ma alla fine, lo si sa, porta sterilità. Probabilmente la presenza del Teatro Contadino – e degli altri gruppi dell’arte nel sociale – fa sì, in definitiva, che l’istituzione si serva di loro più di quanto loro si servano di lei. Non di meno sarebbe miope ed ingeneroso liquidare come mera corruzione dei presupposti originari l’esposizione dei teatrini-oggetto nelle prestigiose sale dell’apparato biennalistico o le esuberanti animazioni tenute nei suoi Giardini, né si può semplicemente storcere snobisticamente il naso di fronte ad un «paese incollato da giugno a settembre alla televisione, ai giornali…»25 appositamente per seguire le vicende dei propri piccoli e grandi conterranei in trasferta.
Teatro Contadino, Biennale di Venezia ’76.
D’altra parte la Biennale del 1976 – lo si sa – è l’inizio della fine per quasi tutti i gruppi dell’arte nel sociale, che entro l’aprirsi del nuovo decennio sono ormai quasi tutti sciolti come neve al sole. L’attività del Teatro Contadino – come del resto l’attività di Dalisi – è una delle poche a perpetuarsi, sia pure necessariamente trasformata, nei decenni successivi e formalmente, benché l’ultima sua iniziativa risalga ormai a più di dieci anni fa, il gruppo è tutt’ora esistente. Già alla fine degli anni settanta De Simone lo fa transitare in una nuova fase, all’insegna di elaborazioni scolastiche intorno al tema del piano regolatore (1978-1979). Nei primi anni ottanta, inoltre, sempre attraverso la Scuola Media G. Pascoli di Cicciano, il Teatro Contadino si fa promotore dell’operazione S.O.S. per la Terra (1982-1983), cui segue S.O.S. per l’Acqua (1990-1991), S.O.S. per l’Aria (1993-1994) e S.O.S. per il Fuoco (1998-1999), ove alla scuola di Cicciano si sostituisce per la prima volta il Liceo Scientifico Statale S. Di Giacomo di San Sebastiano al Vesuvio. Non viene mai scalfito invece il ruolo dei ragazzi, che anche in occasione di questi eventi, non meno che negli anni settanta, operano da protagonisti.
S.O.S. per la Terra è probabilmente la prima mostra di mail art che venga organizzata nel meridione d’Italia. Qui dalla terra intesa ancora come suolo agricolo si passa alla Terra intesa come pianeta, osservato alla luce delle inquietanti emergenze del tempo – crisi ecologica, fame nel mondo, conflitti bellici… – che poi, se è possibile in termini ancor più drammatici, sono le stesse di oggi. Gli alunni inviano decine e decine di messaggi con doppio testo italiano-inglese ad artisti sparsi un po’ in ogni parte del mondo – Spagna, Brasile, Stati Uniti, Olanda, Francia, Germania, Argentina… – per chiedere loro un piccolo contributo – disegni, sculturine, collage, schizzi, vignette… – che faccia appunto riferimento al tema sollevato, onde ottenere infine una sorta di grande mosaico che è il portato di molteplici sensibilità artistiche provenienti da ogni latitudine, cui però si aggiungono i contributi degli stessi alunni, che, stimolati da quelli degli artisti, dal loro paese di provenienza, intervengono con una loro risposta autonoma – «un disegno, una poesia, un teatrino, un’animazione…»26, suggerisce lo stesso De Simone. S.O.S. per l’Acqua replica lo schema messo a punto quasi un decennio prima – cui si aggancia anche attraverso il sottotitolo “Acqua elemento vitale per la terra” – rendendo peraltro finalmente manifesta la scelta di alludere, come nota il critico Enzo Battarra, agli «elementi cari alla filosofia greca»27 e similmente fa S.O.S. per l’Aria, mentre probabilmente la stessa Cicciano si va facendo con gli anni sempre meno quel ghetto incontaminato decantato vent’anni prima da De Masi. Con S.O.S. per il Fuoco si ha un piccolo cambiamento di prospettiva, almeno a livello concettuale, se il livello operativo rimane invariato, in quanto il fuoco completa alla perfezione il novero dei quattro elementi proposti dal filosofo presocratico Empedocle, ma non è, al pari di terra, acqua ed aria, oggetto di inquinamento, bensì semmai soggetto. Vi è chi come Lazzaro Alfano, collega di De Simone presso la scuola media di Cicciano e operatore del Teatro Contadino di vecchia data, anche in considerazione del fatto che questa volta la scuola si trova in un paesino alle pendici del Vesuvio, riconduce questo elemento alla minaccia del vulcano – «noi siamo partiti dall’assunto, nella nostra zona di esorcizzare in qualche modo questa paura del Vesuvio»28, o chi, come il critico Nicola Scontrino, lo accosta al concetto di «”Furor”, intendendo così quello che Michelangelo interpretava come senso della struttura che ci porta alla creazione»29.
L’ultima apparizione del Teatro Contadino risale al 2006 con S.O.S. Culture, Arti, Sport senza barriere per Airone, allorché 112 opere di artisti provenienti da 15 nazioni sono esposte a Palazzo Magnani a Reggio Emilia – ove De Simone si è ormai trasferito dal 2001 – e battute all’asta affinché il ricavato vada a sostenere l’ampio progetto socio-culturale-sportivo che l’associazione di volontariato Airone sviluppa su quel territorio a beneficio dei diversamente abili. Se ancora con gli S.O.S. precedenti si manteneva viva una buona parte dell’ispirazione originaria del Teatro Contadino, altrettanto pare difficile dire in questa occasione e non solo perché la scena non è più l’Agro nolano, bensì un efficientissima cittadina dell’Italia settentrionale, ma anche e soprattutto perché questa volta scompare completamente la scuola e gli alunni, e quindi anche la dimensione didattico-educativa, essendo l’ideazione e l’organizzazione affidate a soli adulti.
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1 Vincenzo De Simone, Teatro Contadino, in Eduardo Alamaro, Gaetano Bianco, Enrico Crispolti, Riccardo Dalisi, Antonio Davide, Crescenzo Del Vecchio, Vincenzo De Simone, Gerardo Pedicini (a cura di), Area di base.uno, Beniamino Carucci Editore, Roma, 1978, p. 24.
2 Cfr. Enrico Crispolti, Arti visive e partecipazione sociale. Da “Volterra 73” alla Biennale 1976, De Donato editore, Bari, 1977.
3 Corrado Ruggiero, Rivolta contadina del ’19 nel “murales” dei bambini, in “Paese Sera”, Napoli, domenica, 25 settembre, 1977.
4 Ibidem.
5 Ibidem.
6 Enrico Crispolti, Teatrini di campagna, in “La Voce della Campania”, Napoli, anno IV, n. 12, 15 giugno 1976; ora anche in Teatro Contadino, Edizione Comune di Cicciano, 1976, pp. 5-6; ed in Eduardo Alamaro, Gaetano Bianco, Enrico Crispolti, Riccardo Dalisi, Antonio Davide, Crescenzo Del Vecchio, Vincenzo De Simone, Gerardo Pedicini (a cura di), Area di base.uno, cit., p. 25.
7 Teatrini di campagna, in Teatro Contadino, cit., pp. 13-14.
8 Ivi, p. 14.
9 Ivi, p. 16.
10 Ivi, pp. 14-15.
11 Ivi, p. 15.
12 Ivi, pp. 16-17.
13 Testimonianza inedita di Vincenzo De Simone, Reggio Emilia, ottobre, 2013.
14 Ibidem.
15 Domenico De Masi, in Teatro Contadino, cit., p. 8.
16 Cfr. Ricerche di base, 79/1.
17 Teatrini di campagna, in Teatro Contadino, cit., p. 17.
18 Domenico De Masi, in Teatro Contadino, cit., pp. 8-9.
19 Ivi, p. 9.
20 Ibidem.
21 Cfr. Jean Baudrillard, La sparizione dell’arte, 1988, trad. it. a cura di Elio Grazioli, Abscondita, Milano, 2012.
22 Edoardo Fadini, in Teatro Contadino, cit., pp. 32-33.
23 Cfr. S. Taccone, L’arte, il corpo, l’istituzione: l’A/Social Group dal “Frullone” alla Biennale di Venezia, in “roots§routes”, Roma, ANNO VI, n. 22, maggio-agosto 2016; https://www.roots-routes.org/?p=18687.
24 Sulla questione dell’ambiguità reale o presunta di Riccardo Dalisi rispetto alla dimensione istituzionale dell’arte – non solo rispetto alla biennale veneziana – cfr. S. Taccone, La contestazione dell’arte, Phoebus, Casalnuovo di Napoli (NA), 2013, pp. 128-130.
25 Testimonianza inedita di Vincenzo De Simone, cit.
26 Testimonianza inedita di Vincenzo De Simone, Napoli-Reggio Emilia, febbraio, 2017.
27 Enzo Battarra, E ci asciughiamo al sole, in Teatro Contadino chiama S.O.S. per l’Acqua – International Mail Art Exhibition, Scuola Media G. Pascoli, Cicciano, 1991, p. 21.
28 Lazzaro Alfano, in Teatro Contadino S.O.S. chiama per il Fuoco – International Mail Art Exhibition, Liceo Scientifico Statale S. Di Giacomo, San Sebastiano al Vesuvio, 2000, p. 78.
29 Nicola Scontrino, in Teatro Contadino S.O.S. chiama per il Fuoco – International Mail Art Exhibition, cit., p. 82.
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Stefano Taccone (Napoli, 1981) è critico d’arte e dottorando in Metodi e metodologie della ricerca archeologica e storico-artistica presso l’Università di Salerno. Ha pubblicato le monografie Hans Haacke. Il contesto politico come materiale (Plectica, Salerno, 2010); La contestazione dell’arte (Phoebus, Casalnuovo di Napoli, 2013) e curato il volume Contro l’infelicità. L’Internazionale Situazionista e la sua attualità (Ombre Corte, Verona, 2014). Collabora stabilmente con le riviste “Segno” ed “Operaviva”.