i non-detti del museo
Memorie in lotta. Berlino, città-museo della distruzione
di Erika Silvestri

Non sapersi orientare in una città non vuol dir molto. Ma smarrirsi in essa come ci si smarrisce in una foresta, è una cosa tutta da imparare. Che i nomi delle strade devono suonare all’orecchio dell’errabondo come lo scricchiolio dei rami secchi e le viuzze interne gli devono scandire senza incertezze, come le gole montane, le ore del giorno. Tardi ho appreso quest’arte; essa ha coronato il sogno, i primi segni del quale furono i labirinti che arabescavano le carte assorbenti dei miei quaderni (Benjamin, 2007).

Schöneberg, Credit by Jonathan Freschi.

Se è vero che il tempo modifica i corpi come le facciate dei palazzi, lasciando segni e rovine che si accumulano e si intrecciano fino a dare vita a lineamenti nuovi, allora Berlino non è sicuramente figlia di Χρόνος (Chronos). La capitale tedesca non ha antiche vestigia da esporre sotto gli occhi dei suoi abitanti e si staglia severa come una figura mitologica: è la città nata dalla distruzione, la figlia degenere della catastrofe, perennemente tesa tra rinascita e macerie.
Si lascia ammirare senza poterci concedere il ricordo della bellezza passata e le sue forme di oggi sono troppo diverse da quelle di un tempo, per cercare di risalire dalle une alle altre. Sebbene la quasi totalità degli edifici sia stata ricostruita in seguito ai bombardamenti e poi alla caduta del muro, camminando per le sue vie si ha la netta sensazione di essere circondati dalla storia, anche se in modo molto diverso da quello con il quale a Roma incontriamo i fantasmi del passato.
Berlino fa sfoggio di monumenti commemorativi, pannelli, statue e memoriali, rappresentanti di memorie diverse che non sembrano convivere pacificamente, ma lottare tra loro: cercano di farsi spazio sulla scena e mettersi in luce agli occhi degli spettatori di oggi sgomitando, alzando la voce, esagerando i toni. Non sono monumenti costruiti secoli fa, ma pietre e cemento che ricordano crimini recenti, come la scultura in memoria della protesta femminile del 1943, a Rosenstraße, o il memoriale per gli ebrei assassinati d’Europa, il parallelepipedo di cemento in memoria degli omosessuali perseguitati, il monumento a sud del Reichstag in ricordo dei Sinti e Rom uccisi o quello per le vittime del programma di eutanasia Aktion T4, davanti alla Philharmonie; il centro di documentazione sul lavoro forzato, i solenni memoriali-cimiteri per i soldati russi caduti, come quello a Treptow… la lista è ancora lunga, ma ciò che unisce le numerose stanze di questo museo frammentato è il loro contenuto traumatico, difficile da tradurre in parole.
La sua memoria storica, come la sua pelle, è percorsa da una lunga cicatrice che tiene insieme due corpi estranei, dando vita a una creatura mostruosa, figlia di madri diverse.
Una creatura morta due volte, nel 1945 e nel 1989.
Tutto ciò che è avvenuto prima e dopo questi due momenti è stato distrutto e ciò che vediamo oggi è il risultato di questi problematici decessi.

Welthauptstadt Germania, File:Bundesarchiv Bild 146III-373, Modell der Neugestaltung Berlins ("Germania"), Wikimedia Commons
Warschauer Brücke, Credit by Jonathan Freschi

L’altare del potere
Albert Speer disegnò la Reichsparteitagsgelände, la bianca arena per i raduni del partito nazista a Norimberga, ispirandosi all’altare di Pergamo, simbolo di bellezza e potere eterni. Se Norimberga era stata scelta come sede per la copia dell’altare dal quale il Führer parlava alla nazione, Berlino, che conservava dal 1886 il frontone occidentale del vero altare di Zeus, sarebbe dovuta diventare un altare essa stessa, il palcoscenico sul quale mettere in scena il potere millenario le cui rovine avrebbero sfidato lo scorrere dei secoli: la Welthauptstadt Germania, la capitale del mondo.
Il progetto, firmato dal primo architetto tedesco, prevedeva la costruzione di edifici-simbolo ricoperti di marmo bianco che avrebbero completamente cambiato faccia alla città, rendendola il museo a cielo aperto della splendente gloria nazionalsocialista.
Un asse di circa cinque chilometri avrebbe dovuto attraversare il Tiergarten, permettendo alle armate di sfilare solennemente, mentre all’estremità nord avrebbe dovuto stagliarsi la Volkshalle, il più grande edificio chiuso del mondo, la Sala del Popolo sormontata da una cupola grande sedici volte quella di San Pietro. Al vertice opposto, portavoce dei fasti della nuova città eterna, un enorme arco di trionfo.
Oggi Berlino non può raccontarci nulla di questo bianco sogno di gloria e non perché con l’inizio della guerra il progetto fu interrotto, rimandato e mai ultimato.
Parlarci delle sue giovanili ambizioni significherebbe guardare allo specchio i capelli ancora troppo biondi e gli occhi troppo azzurri, fare i conti con quel passato che non passa, perché non può passare. Berlino è ostaggio di questo tabù, che non le permette di raccontarsi come forse vorrebbe, guardando dritto negli occhi multicolori i suoi abitanti di oggi. Quella che fu la capitale del Terzo Reich è ormai la prima città del trauma, e non c’è museo nel quale i traumi possano essere esposti. Dei traumi non si parla o si parla a bassa voce, i traumi si tramandano ai propri figli come colpe ataviche che piegano le schiene e abbassano gli sguardi.
La distruzione sembra cancellare ogni cosa, non solo la materialità, ma anche l’essenza.
Nel testo Die Unfähigkeit zu trauern. Grundlagen kollektiven Verhaltens, gli psicoanalisti Alexander e Margarete Mitscherlich (1967) spiegano come migliaia di cittadini tedeschi che erano stati entusiasti sostenitori di Hitler, svilupparono dopo la guerra difese psicologiche per rispondere alla colpa, alla vergogna e al rimorso.
Tra queste difese, quella più diffusa era la dissociazione di coscienza, che permetteva di superare la crisi senza prenderne veramente consapevolezza, perché non era possibile piangere per il sogno distrutto in cui il Volk, il popolo, aveva creduto così ciecamente.
Trauern, portare il lutto –necessario, ci dice la Mitscherlich, per una sana evoluzione mentale- a Berlino non è stato possibile: non c’era tempo, non era il caso, non poteva esistere un lutto legittimo agli occhi del mondo, per il popolo che aveva compiuto crimini tali da necessitare una nuova definizione, i crimini contro l’umanità.
Ridotta in cumuli di macerie da bombardamenti e dagli scontri finali tra gli ultimi soldati tedeschi e l’Armata Rossa, la città moriva per rinascere nel suo anno zero, impegnata a rinnegarsi per non somigliare affatto a quella che era stata.
Cosa si può esporre, per raccontare la distruzione e l’assenza?

LadenKino, Friedrichshain, Credit by Jonathan Freschi
Görlitzer Park, Credit by Jonathan Freschi

Barriere contemporanee
La cicatrice è lunga quasi centosessanta chilometri e oggi rimane come linea di demarcazione del confine della nostalgia, quello spazio di non-detto che aleggia ancora per le vie riunificate della città. La terra di nessuno non costeggia più il muro, ma altre barriere contemporanee: i rumori molesti e i profumi di Istanbul, come pirati pronti all’agguato in cima alle scale della U-Bhf Hermannplatz, dove la lingua madre è il turco e si mangia il kebab più buono d’Europa o l’atmosfera calma di Lichtenberg, dove la moda e i colori sembrano essersi persi tra i balconi tutti uguali di qualche sovraffollato Plattenbau sovietico, fermo agli anni ’80. Nelle vie attorno a quella in cui vivo, a Friedrichshain, si aggira ancora qualche autentico punk di sessant’anni, cordiale, sorridente e vestito come allora, ma gli abitanti dei club di oggi hanno inventato uno stile nuovo, che ormai fa tendenza anche fuori dalla Germania, monocromatico e minimalista. L’apertura di un cantiere informa ogni giorno dell’ennesima demolizione, ulteriore perdita avvenuta: il morbo della gentrificazione ha già infettato e ripulito le facciate di tanti palazzi che prima erano occupati, ha sgomberato club storici e chiuso birrerie di quartiere per aprire caffetterie alla moda e ristoranti fusion.
Le nuove didascalie di questo museo teso tra ricostruzione e rovine sentimentali sono figlie del consumismo di ultima generazione, ecologico e vegano, dal volto politicamente corretto. Anche la Ostalgie è ormai una moda che vuole tenere in vita ad ogni costo l’atmosfera pre-’89 e il tema ricorrente di tante visite guidate, ma scorgere la città come appariva quando la ferita-muro era aperta sembra impossibile come immaginare quella sognata da Hitler. Quello del novembre 1989 è stato un crollo in divenire, di tutto ciò che dal muro era tenuto in vita e niente sa raccontarlo meglio di un museo assente, fatto solo delle parole di chi c’era e ha assistito a quella perdita goccia a goccia, simile a una tortura della Stasi.

Haupstadt der DDR, haupstadt der DDR, haupstadt der DDR /
Compagni est-europei, uno sforzo ancora /
Delle sale da ballo un po’ più che di merda /
Un’ opinione pubblica un poco meno stupida
[1].

Quasi mi sembra, senza sapere perché, di riuscire a ricordare scene che non ho mai vissuto nella Charlottenburg a ovest di quel muro ormai invisibile, ma niente è rimasto, neanche dell’incredibile ricchezza culturale degli anni ’20 nella quale scrittori, architetti, musicisti, attori, pittori, artisti di ogni genere si incontravano a Savignyplatz, proprio dove oggi si sovrappongono ristoranti asiatici che sembrano tutti uguali.

All of your tomorrows are a dream I never had /
Everything is broken, everything unsaid /
But I see all your shadows running /
Circles at my feet /
And you’re making all the promises that /
No one never keeps
[2].

Il museo dell’assenza
Capitale della Germania unita nel 1871 e di nuovo nell’agosto 1990, oggi è forse la capitale d’Europa. Chissà per quanto ancora, visto che al di fuori di Berlino Χρόνος esiste e corre veloce come i granelli di sabbia in una spaventosa clessidra.
Quello che Berlino non vuole e non può dirci bisogna cercarlo in solitaria, fiutare le 7785 Stolpersteine [3], e le – quante? – bombe inesplose disseminate sotto tutta la città, che ogni tanto spaventano ancora e bloccano una delle numerose linee della metropolitana. Trovare il luogo esatto, nel cimitero di Dorotheenstadt, dove sono stati seppelliti i trecento frammenti umani ritrovati nel 2016, residui di esperimenti medici condotti durante gli anni scuri del nazismo da Hermann Stieve che a Berlino ha continuato a dirigere il reparto di Anatomia dell’ospedale universitario della Charitè fino al 1952. Immaginare in quali appartamenti vivevano i centosettantamila ebrei berlinesi, un terzo degli ebrei di tutta la Germania prima della seconda guerra mondiale (Richie, 1999), portati a morire lontano dalla loro Heimat, la loro patria, o fuggiti oltreoceano.
Ciò che è andato perduto per mancanza di interessi politici, forse si può ancora ricostruire ascoltando i silenzi, camminando per le vie che oggi hanno nomi diversi, fermandoci lungo il canale Landwehr per dedicare un pensiero a Rosa Luxemburg, dialogando in modo attivo con il passato di pietra assente e d’aria rarefatta, come ci ha insegnato il berlinese Walter Benjamin:

La vera immagine del passato guizza via. È solo come immagine che balena, per non più comparire, proprio nell’attimo della conoscibilità che è il passato è da trattenere. […] Infatti è un’immagine non rievocabile del passato quella che rischia di scomparire con ogni presente che non sia riconosciuto inteso in essa. (Benjamin, 1997).

Welthauptstadt Germania, File:Bundesarchiv Bild 146III-373, Modell der Neugestaltung Berlins ("Germania"), Wikimedia Commons

Note
[1] Live in Pankow, da Ortodossia II, CCCP, 1985.
[2] You need the drugs, WestBam, 2013.
[3] Per un elenco completo delle pietre d’inciampo disseminate in tutta la città: www.stolpersteine-berlin.de

Bibliografia
Benjamin W.Sul concetto di storia, Einaudi, Torino, 1997.
Benjamin W., Infanzia berlinese, Einaudi, Torino, 2007.
Mitscherlich A. M., Die Unfähigkeit zu trauern. Grundlagen kollektiven Verhaltens, Piper, München, 1967.
Richie A., Faust’s metropolis. A history of Berlin, Carroll & Graf, New York, 1999.

Erika Silvestri nasce a Roma, dove si è laureata in Storia Moderna e Contemporanea, specializzandosi nella storia della Germania totalitaria e dei crimini del nazionalsocialismo. Si occupa di ricerca storica e collabora con istituti di ricerca italiani e tedeschi. Il suo libro Il commerciante di Bottoni, sulla storia di Piero Terracina, sopravvissuto ad Auschwitz-Birkenau, è stato pubblicato da Rizzoli. Al momento è ricercatrice presso il Friedrich Meinecke Institut della FU Berlin.