Italianità
Mediterraneità in bilico: la costruzione dell’italianità attraverso la conquista dell’oltremare
di Francesca Genduso

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Although Italian colonialism was more restricted in geographical scope and duration than the
French and the British empires, it had no less an impact on the development of metropolitan
conceptions of race, national identity, and geographical imaginaries
R. Ben-Ghiat and M. Fuller

 

Nel giro di pochi decenni, l’Italia passa dalle lotte per la conquista dell’unità nazionale ai primi tentativi di occupazione in Africa Orientale. La costruzione di uno stato-nazione forte, in cui i propri abitanti siano legati da vincoli territoriali, politici e culturali, va di pari passo con il tentativo di estendere il proprio dominio al di là della penisola e di occupare così una posizione di prestigio all’interno dello scacchiere internazionale. In questo spostamento reale e metaforico, teso alla conquista dell’oltremare e alla costruzione di un’identità specifica, il Mediterraneo riveste un’importanza decisiva, non soltanto dal punto di vista spaziale, ma anche sotto il profilo ideologico. La “mediterraneità” dell’Italia funge da sprone e da giustificazione soprattutto per l’invasione di quella che nella retorica nazionale verrà identificata come “Quarta sponda” e al tempo stesso offre l’occasione per avviare un processo di riequilibrio interno tra nord e sud del paese.
Il movimento oltre i confini nazionali, infatti, comporta una ridefinizione spaziale, identitaria e sociale della cosiddetta madrepatria. La conquista di nuovi territori funge in qualche modo da valvola di sfogo per le tensioni interne di natura sociale, politica ed economica che rischiano di pregiudicare il discorso nazionale unitario. L’impresa coloniale si offre dunque come un tentativo di riequilibrare il divario tra nord e sud, tra città e campagna, tra aree recentemente industrializzate e zone rurali. La tendenza paternalista e imperialista, che fin dall’unificazione aveva contraddistinto i rapporti tra una parte definita più avanzata del paese, nei confronti di un’altra ritenuta barbara e arretrata, si sposta così verso altre categorie di alterità. Di fatto,

«In Italia l’Altro era il Mezzogiorno conquistato dal Piemonte, le classi popolari dominate dai latifondisti o dai padroni dell’industria nascente. Poi l’Altro saranno la Libia, l’Eritrea e l’Etiopia nella corsa alla colonizzazione» (Goussot, 1999)

L’oltremare diventa il luogo in cui dislocare ineguaglianze e disparità, trasformandole in motore di crescita sociale ed economica a livello individuale e nazionale. In questo modo, l’impresa coloniale viene presentata come uno strumento per riequilibrare le risorse e la loro fruizione da parte di tutta la popolazione. Come messo in evidenza da Gramsci, infatti, esiste un nesso profondo che lega la questione meridionale e l’impesa coloniale: il miraggio dell’altrove, e delle terre da colonizzare, offerto soprattutto ai contadini del sud Italia, diventa un modo per spostare l’attenzione da una categoria di subalterni a un’altra, lasciando però nei fatti intatte le disparità sociali ed economiche presenti all’interno del paese (Srivastava, Bhattacharya, 2012: p.253). Se possibile il sud si sposta ancora più a sud, attraverso la creazione di nuovi margini e di nuove marginalità che esulino dal territorio nazionale. Lo stigma razziale che raffigurava gli abitanti del “Mezzogiorno” come biologicamente inferiori e barbare colpisce adesso le popolazioni da assoggettare, portando all’esterno e rovesciando il ruolo tra colonizzati e colonizzatori. Da questo punto di vista, la conquista coloniale italiana può essere letta come un tentativo di “ribaltare le vittime in carnefici, trasformando i proletari oppressi in proletari oppressori” (Dal Lago, 2010: p.2).
L’impresa coloniale funge dunque da collante identitario per un territorio da poco unito che ha bisogno di miti fondativi per diventare una nazione. Fino a quel momento il Risorgimento era stato, infatti, l’unico punto di riferimento per lo sviluppo di una narrazione nazionale in cui tutti gli abitanti del paese possano riconoscersi. La conquista dell’oltremare intende continuare questo percorso, aggiungendo nuovi tasselli retorici a questo piano discorsivo e trasformando in punti di forza le caratteristiche geografiche ed etniche dell’aspirante potenza coloniale. La posizione geografica dell’Italia e le caratteristiche fisiche e culturali della sua popolazione, infatti, producono un’ambivalenza pratica ed epistemica: da un lato la vicinanza al continente africano giustifica le pretese imperialiste del governo, dall’altro questa contiguità si traduce anche in una certa similarità etnica. È in questa tensione tra prossimità e volontà di differenziarsi che si modella il concetto di mediterraneità italiana, soggetto a continui aggiustamenti secondo le opportunità politiche del momento. L’invasione, ammantata dalla missione civilizzatrice, richiede anche una ridefinizione identitaria da parte dei colonizzatori che devono presentarsi come una razza compatta ed omogenea da contrapporsi a quella inferiore e corrotta delle popolazioni africane. La creazione di un nemico esterno presuppone il dispiegamento di un’ideologia razziale che distingua in maniera netta un “noi” da un “loro”. La costruzione dell’alterità va perciò di pari passo con la formazione di un’identità nazionale che tenga conto delle caratteristiche sociali ed etniche della popolazione. Per questi motivi si possono individuare diverse fasi di elaborazione di una teoria della razza, in relazione al quadro politico nazionale e all’assetto ideologico europeo: la linea del colore si muove in base agli imperativi di omogeneizzazione interna e di assoggettamento dell’altrove. Di fatto,

“l’identità razziale degli italiani (…) emerse come il risultato di una contrapposizione che descriveva il Sé per mezzo di un «contrasto», ossia di un riferimento oppositivo «a ciò che non è» (degenerata, femminea, africana, nera)” (Giuliani, Lombardi-Diop, 2013: p. 22).

Una volta superate formalmente le disparità e discriminazioni interne attraverso l’invenzione di un altro esterno definito come barbaro, incivile e biologicamente inferiore, resta il problema di presentare un’identità razziale all’altezza di quella delle altre potenze europee, ma che tenga comunque conto delle differenze del popolo italiano rispetto agli altri. In questo scenario il Mediterraneo riveste un’importanza decisiva non soltanto per l’elaborazione di una linea strategica, ma anche per la rivendicazione di un’identità specifica. Indubbiamente gli italiani risultano molto meno “bianchi” dei loro vicini francesi e austriaci, mentre in certi casi mostrano più affinità fisiche con le popolazioni che vorrebbero assoggettare, soprattutto per quanto riguarda gli abitanti delle regioni meridionali. Per aggirare quello che potrebbe diventare un impedimento biologico alla presunta superiorità dei colonizzatori, la narrazione ufficiale parla di una bianchezza mediterranea, discendente diretta della gloriosa stirpe dei romani. In un periodo storico in cui in tutti paesi europei si assiste all’elaborazione di posizioni positiviste ed eugenetiche basate sulla purezza e la superiorità della razza, anche in Italia si moltiplicano gli studi e le teorie sulle differenze razziali. La corrente che verrà privilegiata nel primo periodo del regime fascista fa riferimento alle teorie dell’antropologo Giuseppe Sergi, secondo la quale africani e italiani appartengono alla stessa razza. Per lo studioso esistono due generi umani: l’homo asiaticus e l’homo afer, di quest’ultimo fanno parte tutte le popolazioni d’Europa (Sorgoni, 2003). Al fattore biologico si deve aggiungere però anche quello storico: nel corso degli anni, le varietà africana, mediterranea e ariana hanno ricevuto delle influenze diverse che ne hanno pregiudicato lo sviluppo fisico, intellettivo e morale. Mediterranei e camiti hanno dunque la stessa origine, ma mentre i primi hanno preservato le loro caratteristiche attraverso il fiorire della civiltà greca e romana, gli africani invece si sono corrotti e imbarbariti nel corso dei secoli. Pertanto,

«come in epoca liberale, così durante il Fascismo la bianchezza non aveva a che fare con il fenotipo ma traduceva in «colore» una precisa idea di cittadinanza, un’eredità culturale e/o storica, e precise posizioni di classe, geografiche e di genere» (Giuliani, Lombardi-Diop, 2013: p. 42).

Questa elaborazione teorica mantiene in tensione prossimità e differenze razziali, facendo combaciare le peculiarità mediterranee degli italiani con la pretesa superiorità rispetto alle popolazioni da assoggettare. La bianchezza distingue gli italiani dai cosiddetti indigeni, mentre la mediterraneità li rende diversi rispetto agli altri europei e più legittimati di loro a portare avanti una missione civilizzatrice: quello che in passato era motivo di discriminazione all’interno dei confini nazionali stessi, adesso, per l’ideologia coloniale, si colora di una sfumatura positiva. In questo modo, il bacino mediterraneo è al tempo stesso motivo di prossimità con il continente africano per ragioni spaziali ed etniche, ma discrimine differenziale per ragioni di tipo storico e culturale. Con la progressiva fascistizzazione dello stato e il conseguente cambiamento dello scenario ideologico e politico, l’ideologia razziale prende una svolta più autoritaria. Alla fine del 1930, la mediterraneità cede il passo alle teorie ariane in concomitanza con l’alleanza sempre più stringente tra Italia e Germania: l’oscillazione tra prossimità e distanza che contraddistingue la relazione con l’Africa pende adesso a favore del secondo termine. Le ricostruzioni etniche di Sergi vengono abbandonate in nome di una politica razziale che non ammette unioni miste e predica la purezza della razza bianca. Il passaggio da una concezione all’altra viene sancito definitivamente dall’emanazione del manifesto della razza ariana nel 1938, atto che certifica l’istituzionalizzazione di un razzismo diffuso già nei decenni precedenti che aveva già trovato una sua espressione in ambito coloniale.
Se con l’inasprimento del regime fascista, la mediterraneità etnica non viene più chiamata esplicitamente in causa per giustificare la conquista coloniale e, al tempo stesso, per trasformare in un punto di forza la presunta subalternità etnica, culturale e sociale delle “masse del Mezzogiorno”, nella narrazione ufficiale lo spazio mediterraneo continua a garantire quella contiguità tra l’Italia e le colonie che ne agevola di fatto l’espansione. Lo spazio colonizzato viene sottoposto a una ridefinizione totale che implica la produzione di nuove territorialità in funzione della prosperità economica dello stato colonizzatore e della sua narrazione nazionale. L’addomesticamento delle regioni conquistate presuppone l’annullamento dell’assetto organizzativo precedente e l’applicazione di un sistema di gestione delle aree urbane e rurali corrispondente alle pratiche spaziali occidentali. Nelle narrazioni ufficiali i possedimenti coloniali vengono rappresentati ora come un’estensione del territorio nazionale d’oltremare ora come dei meri possedimenti da sfruttare il più possibile per il benessere della madrepatria. Motivi utilitaristici e retorica nazionalista risultano dunque irrimediabilmente intrecciati con la prevalenza dell’uno e dell’altro a seconda delle contingenze storiche, geografiche e politiche. Il processo di territorializzazione nazionale viene portato a termine, dal punto di vista ufficiale, solo nel caso della Libia, che verrà dichiarata diciannovesima regione d’Italia. Al di là dell’operazione di propaganda operata dal regime per risollevare agli occhi dell’opinione pubblica un’impresa che si stava rivelando fallimentare, annettere un territorio significa considerarlo formalmente alla stregua di quello nazionale. Per quanto riguarda il Corno d’Africa le ragioni della sua conquista rispondono alla necessità diplomatica di ritagliarsi una posizione di prestigio nel panorama europeo, mentre la Libia incarna nuovamente il mito di Roma, lo splendore e la potenza dell’antico impero.
Il bacino mediterraneo svolge naturalmente una funzione cruciale nella creazione di questa filiazione diretta tra l’Italia e la sua colonia nordafricana, rapporto che non è possibile ricostruire con i possedimenti del Corno d’Africa che risultano sia geograficamente sia culturalmente più lontani. La percezione del Mediterraneo come ponte tra i due continenti piuttosto che come ostacolo e separazione fra di essi, viene resa ancora più esplicita dal discorso geopolitico, che si afferma in Italia alla fine degli anni ’30. Il concetto di Eurafrica, formulato già in ambito tedesco, nasce per legittimare l’estensione del territorio nazionale sulla scorta della continuità spaziale assicurata dal bacino mediterraneo e, al tempo stesso, giustificare la conquista, sottolineando la profonda differenza razziale, sociale e politica tra la nazione colonizzatrice e le colonie. Secondo questa visione, l’Europa e l’Africa costituiscono un’unica entità spaziale in cui lo spazio fluido del mare funge da cerniera, da motivo di raccordo tra i due blocchi. Come emerge dalle pagine della rivista italiana Geopolitica, edita dal 1939 al 1942, l’Italia si trova in una posizione strategica che le assicura il controllo dell’intera area mediterranea:

«col suo molo adagiato in mezzo al Mediterraneo essa è il porto naturale dell’Africa; con l’essere proiettata tutta verso sud, essa dell’Africa è la Testa, cui fa seguito una Spina Dorsale ideale che congiunge Roma con Città del Capo, mentre che il termine settentrionale di esso si proietta verso la Penisola Scandinava. Riconosciuta così la posizione che non può non assumere l’Italia nei confronti dell’Africa, e risistemata l’Africa alla luce di tale realtà, è lecito sperare in una futura Eurafrica dotata di una solida Spina Dorsale, capace di primeggiare ancora validamente e vittoriosamente nei futuri contrasti fra i Continenti» (Biondo, 1941: p. 569).

Questa breve ricognizione sul ruolo svolto dal Mediterraneo e dal concetto di mediterraneità nella creazione di un’identità nazionale e nella giustificazione della conquista dell’altrove è servita per mettere in luce il ruolo giocato dal colonialismo nella costruzione dell’italianità. L’immaginario spaziale ed ideologico del nascente stato unitario si è delineato e modificato durante gli anni, piegandosi alle esigenze politiche, strategiche ed economiche del paese. È in questo modo che le caratteristiche geografiche, etniche e culturali dell’Italia sono diventate gli elementi fluttuanti di un discorso nazionalistico, teso, di volta in volta, ad evidenziare un aspetto piuttosto che un altro. È anche in questo modo che il Mediterraneo, da punto di congiunzione tra due continenti secondo la retorica coloniale, si è trasformato nella contemporaneità in barriera letale per tutti coloro che cercano di attraversarlo.

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Immagine in homepage: Carta di Mario Morandi, pubblicata in Geopolitica, vol. III, n°2, 1941.

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Bibliografia

Ben-Ghiat and M. Fuller, “Introduction,” in Italian Colonialism, New York: Palgrave Macmillan US, 2005, pp. 1–12.
Biondo, “La Transafricana Italiana,” Geopolitica, vol. III, no. 12, pp. 569–575, 1941.
Dal Lago, “La porta stretta. L’Italia e ‘l’altra riva’ tra colonialismo e politiche migratorie,” Calif. Ital. Stud., vol. 1, no. 1, p. 12, 2010.
Giuliani and C. Lombardi-Diop, Bianco e nero : storia dell’identità razziale degli italiani. Firenze: Le Monnier, 2013.
Goussot, “Alcune tappe di critica al razzismo: le riflessioni di G. Mazzini, N. Colajanni e A. Ghisleri,” in Nel nome della razza. Il razzismo nella storia d’Italia (1870-1945), Bologna: Il Mulino, 1999.
Sorgoni, “Italian Anthropology and the Africans: The Early Colonial Period,” in A Place in the Sun. Africa in the Colonial Culture from Post-Unification to the Present, P. Palumbo, Ed. Berkeley – Los Angeles – London: University of California Press, 2003.
F. R. Srivastava and B. Bhattacharya, “The postcolonial Gramsci,” N. F. R. Srivastava and B. Bhattacharya, Eds. London and New York: Routledge, 2012, p. 253.

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Francesca Genduso è dottoranda in Studi Culturali Europei presso l’Università degli Studi di Palermo, il suo campo di ricerca è la geografia culturale. È stata dottoranda in visita all’Università Paris Diderot- Paris 7, e all’università di Utrecht. Il suo progetto di ricerca, dal titolo “L’Italia altrove” cerca di analizzare, attraverso lo studio delle riviste geografiche più influenti dell’epoca, la concezione spaziale, e non solo, prodotta dall’ideologia coloniale per rappresentare il rapporto tra l’Italia e le colonie e giustificarne la conquista.