Cara Martina,
Ho visto My Home, in Libya e mi è piaciuto moltissimo. In questo tuo ultimo lavoro, del 2018, la casa dei tuoi nonni vicino a Padova, diventa il luogo di partenza per ricostruire una mappa del loro passato. Tuo nonno Antonio è nato a Tripoli, in Libia, quando questa era una colonia italiana, e lì ha sposato Narcisa. Sono stati costretti a lasciare il paese all’improvviso nel 1970, dopo il colpo di stato di Gheddafi. Con l’aiuto di Mahmoud, un giovane libico contattato da te tramite i social media, il tuo film raccoglie le immagini da lui stesso girate di quella che è diventata oggi l’allora “casa” dei tuoi nonni. Tramite lo scambio di immagini e chat, la vostra relazione diventa più profonda; il web vi permette di superare pian piano i confini fisici e culturali che separano le vostre vite, portandoci all’interno di un mondo nel quale i media non hanno accesso. Avevo già visto MUM, I’M SORRY, ho una serie di cose in testa mentre guardo e ci ripenso…
Come nascono le tue storie? In che modo le nostre storie si intrecciano a quelle degli altri? Le storie degli altri nel tuo lavoro sono storie dolorose, cariche di silenzi… Dove finisce il bisogno di raccontare noi stessi e dove iniziamo a raccontare gli altri? Cosa ci unisce e ci divide dai soggetti che raccontiamo?
Per esempio, in My Home, in Libya, la casa dei nonni è uno spazio chiuso, che si apre al dentro, non al fuori, ed è però in contiguità’ spaziale (attraverso il montaggio) con il tuo spazio creativo, il laboratorio in cui tu ricostruisci i frammenti della loro storia. Quali spazi abitiamo nel racconto degli altri? Mahmoud ricrea lo spazio del ricordo, trovo molto bella questa cosa che sia lui a permettere la ricostruzione del ricordo. Per lui, quale spazio di ricordo pensi possa essere generato?
Mi colpisce molto il tuo interesse per il mare! Lo condivido anch’io… Il mare per me ha una valenza conoscitiva, è generatore di forza e potenza distruttrice, per me il mare è sempre legato al tempo, in quanto il suo moto è incessante, ma ovviamente un tempo non lineare, in cui radici e percorsi sono indistinguibili…
Ho scritto una poesia per il mare mosso, che in dialetto chiamiamo “U’marusu” (questo il titolo) te ne mando un paio di strofe:
Sei venuto, mare ondoso,
hai ricoperto di alghe i ciottoli
di pietra, il fondo buio
smosso dalla tua stessa forza,
hai scompigliato spiaggia,
posto bagnanti accaldati
come formiche in fuga,
senza tregua scuotendo
il mio corpo remoto.
[…]
Nel tuo assalto potente
hai spazzato ogni residuo
di ingenuità per richiamarmi
al tuo ordine antico.
Da quale distanza arrivi
per lasciarmi, svuotata,
trascinare ancora al tuo cospetto?
Ma non ancora, una prima
volta (purezza saturnina del tuo
pulviscolo salino), saggiamente
resto affinchè la vita non ritorni,
ma torni al grado zero dell’inizio,
del mio essere dimentico.
Ti abbraccio,
Cristina
Cara Cristina,
“Le relazioni umane, come le onde del mare, hanno tempi, moti e maree. La riva le attrae e
le respinge. Ci si infrangono, lasciandoci qualcosa di sé, e poi si ritirano, riprendono il
largo, si rimescolano. Per poi tornare, o magari no. È imprevedibile. È tutto mare.”
Riprendo questo estratto dal trattamento che ho scritto per My home, in Libya. Queste poche righe appaiono verso la fine, e non sono confluite nel film, quando ho deciso che non ci sarebbe stata una voice over. Ma le trovo peculiari qui. Ricordo come allora, mentre le scrivevo, mi apparissero come una sorta di punto d’arrivo, un ancoraggio, dopo burrasche di riflessioni varie, per il film, per me. Mi piace che tu chiuda sul mare. Io riprendo dal mare. Che è la massima vicinanza e la distanza assoluta. Unisce, e separa assieme. Me da Mahmoud. Noi dall’altro. Quell’altro, il di là. È l’infinito, incalcolabile. E come l’infinito può diventare nulla, letto al contrario. Da lì la vita arriva, e gran parte di vite del nostro presente lì finiscono senza lasciare traccia, tracce, resti.
Mi sento molto legata al mare, da sempre. E non essendo nata in una città di mare è anche fatto bizzarro. Ma è come se il mare fosse dentro di me da prima di me, da prima della mia città, di nascita. Lo sento forte e l’ho sempre sentito. Agitato, poi calmo, ventoso sempre, maree alterne, legate a lune e connessioni astrali. Come bene dici tu, è generatore di forza e forza incontrollata al tempo stesso, distruttrice. E quindi, come è possibile gestirlo, approcciarlo?
Un po’ come il dolore, la disperazione. Un po’ come la gabbia della nostalgia. Come la approcci?
Il mare dentro di me probabilmente viene da un tempo che mi sfuggiva, e che in qualche modo ho cercato di afferrare, in sprazzi di brezza, e di blu. (Assieme al mare, c’è molto blu. Nel mio film, nei miei film, come dominante che scelgo esteticamente, cromaticamente, nella mia vita. Mi ci riconosco e ritrovo molto nel blu).
Mi chiedi come nascano le mie storie e come le nostre storie si intreccino a quelle degli altri. Credo che ogni volta che racconto una storia è perché la sento un po’ mia. Perché qualche particella di quella storia riecheggia dentro di me, in frammenti che non mi sono sempre chiari, se dovessi spiegarli, ma che sento con precisione e lucidità. Quindi mi verrebbe da dirti che le storie che racconto si intrecciano sempre in qualche modo con la mia, in misure e percentuali e sfumature diverse. E che le racconto perché ne sento un reale bisogno. Perché credo siano in qualche modo ognuna un rebus che, anche se non sempre in maniera palese ed esplicita, se affronto, analizzo, raccolgo, curo, elaboro, accolgo, mi aiuta a elaborare, curare, risolvere, chiarire quello stesso rebus che sento irrisolto o oscuro dentro di me, come parte di me.
Quando ero, credo, in quarta o quinta superiore, scrissi un giorno questa “filosofia dei micromondi” che, riassumendo molto, se non ricordo male, diceva che ognuno di noi è un micromondo in sé, fatto di particelle, relazioni e connessioni e che tutte queste relazioni e connessioni per forza di cose incontrano, sono connesse e in relazione con relazioni e connessioni appartenenti ad altri micromondi. Quindi la somma dei micromondi, tutti in qualche modo connessi tra loro, forma l’universo. E quindi in ogni micromondo c’è una particella di universo così come l’universo contiene microscopicamente tutti i micromondi.
Mi fa sorridere che venga a galla ora questo ricordo, che è anche un’immagine precisa. Credo che contenga in gran parte la risposta, per quanto riguarda me, a quello che mi chiedi.
Siamo animali sociali, interdipendenti, sempre.
Credo che nel mio raccontare gli altri ci sia anche sempre un raccontare me stessa. O cercare delle risposte a, per, me stessa. Credo sia un atto tanto altruistico quanto egoista, nel quale cerco di dosare con cura e rispetto per l’altro queste due facce della medaglia.
Cerco di pormi sempre in risonanza, cercando un sentire comune, una nota che suoni sulla stessa scala e intensità, e di dedicarle uno spazio, un tempo, un’attenzione peculiare, su cui costruire una relazione di scambio. Tento di costruire una membrana osmotica tra me e il soggetto che racconto, che poi, in realtà, si racconta a me, si apre. E io con lui, lei. Lascio passare e trattengo secondo quello che lascia passare e trattiene, e cerco di forzare leggermente, a poco a poco, mettendomi per prima in gioco.
Sono consapevole della mia posizione concettualmente di potere, nei confronti del soggetto cui mi approccio e della storia che racconto, e cerco sempre onestamente di non abusare di questa posizione, di criticizzarla, cercando il posizionamento che sento il più adatto a me, di trattare questa dinamica obiettiva di potere con il massimo rispetto dei reciproci spazi, che è il rispetto di quella stessa nota che unisce, che risuona in quella storia quanto risuona nella mia. Rispettando l’altro rispetto me stessa, e le storie di entrambi.
Il film è uno spazio/tempo dedicato a questo scambio.
A un dentro corrisponde sempre un fuori, a un vuoto sempre un pieno. Di suono, di luce, di spazio.
Quello che resta fuori dall’inquadratura esiste comunque, c’è. Fa sentire la sua presenza. Il mondo esterno che sembra essere escluso dal dentro della casa dei nonni, è presente in echi, suoni, ed emanazioni tangibili. Non può essere escluso.
La vita, le relazioni, sono costantemente contiguità di tempi e spazi. Il montaggio cinematografico li esplicita, li rende visibili, secondo quella linea narrativa che voglio segua la storia, nell’intrecciarsi di storie.
È difficile definire quale spazio abitiamo nel racconto degli altri. Quello che possiamo immaginare è la nostra interpretazione di quello che potrebbe essere il nostro spazio nel racconto degli altri. Nel racconto che questi altri fanno a loro stessi di sè, e che ci comprende o ci esclude. È una questione di posizionamento, e di punto di vista. So cosa vedo da qui, da dove sono io, con il mio sentire. Posso solo presupporre cosa vedi tu da lì, con il tuo punto di vista e il tuo sentire. Posso arricchire la mia prospettiva solo chiedendotelo, posso solo fidarmi della tua risposta. Non credo esistano versioni esaustive, di Storia, storie e narrazioni. Per questo credo molto nella costruzione corale, plurisoggettiva.
“il mio corpo remoto”
sta forse di là del mare?
(dello schermo)
È altro da me, ma sono io.
(È altro da me?)
Siamo tutti un essere dimentico?
Esiste una cura, un antidoto?
Mi piace pensare di si. Mi piace tentare, che si.
Ti abbraccio,
Martina
Cara Martina,
tutto è mare. Nel contesto del Mediterraneo della nostra contemporaneità, questa frase mi fa pensare alla violenza che ne scaturisce, che non ha nulla di naturale, ma che invece è una violenza storica, prevedibile. L’Europa ha fatto di questo mare una barriera, un cimitero, un campo di battaglia, un incubo dal quale non ci si risveglia. Il mare per te è legato anche al passato? Al di là del mare c’è il passato? Vuoi dire qualcosa sul legame tra mare e passato, anche in My Home, in Libya?
Rebus: ecco come funziona il tuo racconto per immagini. Nei rebus bisogna interpretare il significato nascosto dietro le immagini. Il bisogno di raccontare nasce forse dal fatto che ogni storia è un rebus? Nel tuo lavoro ho l’impressione che il rebus non venga risolto, e che le immagini non facciano che significare esattamente questo: il rebus è irrisolvibile. Io, che ho fatto delle parole la mia dimensione espressiva, crescendo non ho mai amato i rebus, preferivo di gran lunga le parole crociate, gli anagrammi, il bersaglio di parole…
Infatti: Questo modo di procedere appare chiarissimo in My Home, in Libya. Mi pare che sia proprio questo che avviene in questo tuo lavoro, dove la corrispondenza via chat con Mahmoud diventa una ‘membrana osmotica’ che lascia passare e trattiene il racconto, la dimensione di potere delle vostre soggettività e il vostro presente. My Home, in Libya mostra proprio questo processo di apertura, il mettersi in gioco reciproco, nel corso del tempo e dello spazio narrativo. Ma simultaneamente, mentre Mahmoud fa i conti con una città sotto assedio, una città in guerra, il mondo delle radici dei tuoi nonni, che scaturisce da una violenza coloniale, non è più ricostruibile. Insomma la storia nel presente fa i conti con il passato. Quel mondo non è più ricostruibile se non attraverso le vostre soggettività in frammenti. Il silenzio tra un messaggio e un altro mi sembra, riporti a galla la frammentarietà della nostra memoria storica del colonialismo.
Sono molto curiosa di chiederti come tale considerazione possa descrivere il tuo metodo e le scelte estetiche e narrative di MUM, I’M SORRY. In questo caso, quello che resta fuori è indicibile, ma esiste comunque. Il tuo lavoro rifiuta ogni forma di narrazione oggettiva, lineare. MUM, I’M SORRY nasce dal tuo dialogo con alcuni migranti sopravvissuti al lungo viaggio attraverso il Mediterraneo, entrando a confronto con ciò che resta invece di coloro che ce l’hanno fatta, grazie anche al lavoro della dottoressa Cristina Cattaneo, anatomopatologa e antropologa forense, che partecipa a un progetto pilota per identificare profughi e migranti morti nel Mediterraneo del Labanof (il «Laboratorio di antropologia e odontologia forense») di Milano. Attraverso un lento lavoro di ricostruzione degli oggetti, l’obiettivo della tua telecamera “scandaglia frammenti di storie e di affetti, quel che resta di cose appartenute a corpi senza vita: orologi, anelli, foto, pezzi di carta e numeri annotati suggeriscono un vissuto e speranze di nuove prospettive.” (Chiara Agnello, PAC Milano).
Quando ho visto MUM, I’M SORRY per la prima volta mi è venuta voglia di sapere di più delle storie di coloro che hanno posseduto quel cellulare, quell’orologio, quel portafoglio.
Il silenzio, nel caso di MUM, I’M SORRY, è carico di presagi che rimandano di nuovo a una violenza taciuta. La telecamera non è in grado di raccontare quel che resta fuori dall’inquadratura, se non per frammenti. L’estetica del frammento in questo caso, di fronte all’arbitrarietà della morte di questi naufraghi del nostro presente, diventa il segno della capitolazione di ogni giustizia storica. Il lavoro della telecamera assomiglia quindi al lavoro di ricostruzione forense di quei frammenti di vissuto che emergono dal mare. Dietro ogni frammento c’è una vita, una storia, che ha bisogno di essere riportata a galla, di essere raccontata.
Esatto. Nel caso di MUM, I’M SORRY, chiedere scusa vuol dire fare i conti con la colpa del silenzio dei protagonisti di questa storia. Possiamo solo cercare di ricostruire, in assenza di voci, di soggettività’ agenti. Questo mi lascia un senso di frustrazione, e vorrei chiederti in che modo ti sei sentita coinvolta in questo silenzio.
Se il corpo remoto, sta al di là del mare, dello schermo, la cura, l’antidoto è il ricordo? Forse ogni espressione poetica, artistica, non è che questo tentativo di cura contro l’oblio, il silenzio?
Un caro saluto a te, Martina, grazie.
Cristina
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Cara Cristina,
mi chiedi se per me il mare sia legato anche al passato, se al di là del mare ci sia il passato. Sinceramente, non riesco a scinderlo in temporalità presenti o passate. È come se ci fosse sempre e ci fosse sempre stato. In My home, in Libya, al di là del mare c’è la Libia, c’è Tripoli, quella dei ricordi dei miei nonni, ma che è solo lì, nei loro ricordi, e quella che vive Mahmoud, oggi, e che è tutta un’altra cosa. Eppure è sempre lì, oltre il mare, e la stessa città: Tripoli. Così il mare che solco io nel mio viaggio di avvicinamento a quella costa che non posso raggiungere è il viaggio al contrario che hanno fatto i miei nonni e mio padre bambino, nel 1970. Ma nel 2017 era lo stesso mare, eppure tutto un altro mare. Forse è proprio nel mare che si annulla, o si incontra, lo scarto tra presente e passato? Non lo so. Forse.
Sui rebus ci hai preso in pieno. E sai qual è la cosa “divertente”? Che mi hanno sempre incredibilmente affascinata, ma io sono stata sempre davvero pessima a risolverli. Quindi si, il rebus è proprio irrisolvibile…
Il frammento, il silenzio, spesso sono tutto ciò che resta delle storie mai raccontate. Sono la base per una ricostruzione, per un tentativo di interpretazione, di intuizione. Ma non il pretesto per sostituirsi come soggetto a chi non può parlare per sé – sempre tornando al posizionamento, a “soggettività agenti” come ben le definisci tu. Quello che si può fare è cercare di costruire uno spazio in cui quei frammenti e quel silenzio abbiano modo di dire la loro, in qualche modo. Con il silenzio di MUM, I’M SORRY, così come con i neri in My home, in Libya, cerco di creare quello spazio. Il silenzio non è privazione di narrazione; il silenzio ha molto da dire. L’assenza per sottrazione, il vuoto che era pieno, è una modalità altra di presenza. Durante la lavorazione di MUM, I’M SORRY ho incontrato molte persone con esperienza di migrazione attraverso (anche) il Mediterraneo. Ho raccolto le loro storie, abbiamo riflettuto assieme su “cosa resta”, per chi arriva, e chi non arriva. E poi c’erano quegli oggetti, che erano ciò che restava di quelle specifiche individualità, di quelle storie soggettive. E l’unica azione possibile era non intromettersi, non intromettere altre voci, se voci non erano rimaste. Quindi l’assenza di voce, il silenzio è stata alla fine l’unica scelta possibile, per rispetto di quelle specifiche voci. Ed è un silenzio rumorosissimo, pieno zeppo di non detto.
E forse è proprio questo, l’antidoto all’oblio.
Se deve essere silenzio, che dia disturbante, assordante, insopportabile. Che porti a dire “ora basta!”. E poi si ricominci da lì.
Ti abbraccio, grazie a te, davvero.
Martina
Cristina Lombardi-Diop è la direttrice del programma Rome Studies Program presso la Loyola University di Chicago, dove insegna Modern Languages and Literatures e Women’s Studies and Gender Studies. È editrice, assieme a Caterina Romeo, di L’Italia postcoloniale (2012) e autrice, con Gaia Giuliani, di Bianco e nero. Storia dell’identità razziale degli italiani (2013). Fondatrice e direttrice della serie editoriale Transiti, per Le Monnier Mondadori, ha pubblicato ampiamente testi su temi quali la femminilità coloniale bianca, l’Atlantico Nero e il Mediterraneo; spazi culturali africani e letteratura diasporica Africana in Italia. L’attuale focus della sua ricerca è sulla soggettività nera all’indomani della traversata del Mediterraneo.
Martina Melilli (1987) è un’artista audio-visiva e una regista. Laureata in Progettazione e Produzione delle Arti Visive (IUAV), ha approfondito gli studi in cinema documentario e sperimentale alla Luca School of Arts, Bruxelles. I suoi lavori sono stati esposti in mostre individuali e collettive, nazionali e internazionali (tra le più recenti, European Identities: New Geographies in Artists’ Film and Video, a cura di Leonardo Bigazzi; Project Room al PAC -Milano) e i suoi film sono stati selezionati in importanti festival in Italia e all’estero (tra cui Locarno Film Festival, International Rotterdam Film Festival, Ji.hlava IDFF, CineMigrante, Filmmaker Film Festival, Milano Film Festival, Chicago International Film Festival, …). Ha vinto diversi premi, tra cui il premio Quotidiana 2016, Artevisione 2017, Premio Corso Salani 2019.