Esistono negli archivi documenti inclassificabili o catalogati con tale minuzia da perdersi e perdere visibilità nel reticolo di parole-chiave e pratiche culturali di un dato momento storico. A questa tipologia di potenziali afasie archivistiche appartengono gesti basati sul silenzio o silenziati, documenti distrutti, dimenticati, ritirati o rifiutati dalle catalogazioni esistenti. Viste attraverso la lente delle pratiche artistiche contemporanee, le discontinuità e le assenze implicite nel documento che sfugge alle griglie di classificazione dell’archivio evocano (e talvolta si accumulano con) forme di (im)materialismo. Si tratta di abitare programmaticamente le periferie dell’archivio e di osservare le costellazioni di senso e le tracce materiali che si producono ai suoi margini considerandole come alternative e non come assenze.
È probabilmente in questo senso che il saggio narrativo Hunters & Gatherers di Geoff Nicholson apre all’ipotesi che a collezionare oggetti e informazioni non siano soltanto i criteri di catalogazione enunciati (Nicholson, 1991). Le deviazioni, i malintesi, le sviste, gli scarti e le mancanze che emergono alla lettura dei documenti, o nel tentativo di rintracciare i loro punti ciechi, producono anch’essi narrazioni: «La polvere raccoglie. Cade su vecchi tappeti, guaine in noce, velluto a coste, melamina. Si accumula sulle cornici dei quadri, nei contorni delle casette di pastori in porcellana, negli angoli dei ripostigli; nello sporco residuo nonostante gli stracci e gli aspirapolvere… Passa attraverso porte e finestre, alloggia nei nostri vestiti e nell’aria, si raccoglie in tutte le fessure».
La polvere, intesa da Nicholson come paratesto e meccanismo di colletta degli scarti narrativi ufficiali, fa eco alla complementarità fra lettura e non-lettura formulata da Pierre Bayard circa il bibliotecario dell’Uomo senza qualità di Robert Musil (Bayard, 2007). Dei tre milioni e mezzo di volumi conservati nella biblioteca dell’impero fittizio di cui si parla nel romanzo, il bibliotecario non ha letto altro che i titoli e i sommari: è il suo amore per tutti i libri, senza priorità o gerarchia, che lo incita a restare nelle periferie di ogni volume per evitare che un’attenzione troppo marcata nei confronti dell’uno lo distolga dall’altro. Se l’insistenza sugli apparati del bibliotecario di Musil è premessa alla visione d’insieme astratta e onnicomprensiva, Irit Rogoff ricorda che nelle storie ufficiali si annida anche una forma di polvere narrativa, legata al desiderio di ricostruire la circolazione interrotta dell’informazione e la speculazione circa la documentazione assente (Rogoff, 1996). Quest’ultima è tanto pregnante quanto l’evidenza storica corroborata da materiali d’archivio e consente di infiltrare la “cronaca seria” con esperienze soggettive capaci di destabilizzare le richieste che la storia dell’arte rivolge al realismo storico. Non si tratta per Rogoff di immaginare una “fattualità alternativa”, ma di “annullare la distanza” che dalla ricerca accademica essa instaura fra «ciò che è detto, chi lo dice e la persona a cui l’informazione è rivolta».
Una dinamica comparabile si manifesta anche nelle pratiche fotografiche degli anni Sessanta, secondo una nuova tipologia di sguardo che John Szarkowski chiarisce nel contesto della mostra collettiva New Documents (1967): il passaggio dalla fotografia documentaria con impatto sociale a un approccio conoscitivo personale; l’attenzione al “luogo comune” del reale e la volontà di rappresentarlo, tanto con apparecchi di visione che con inquadramento teorico (Meister, 2015). A questo si aggiunge, nelle riflessioni di Susan Sontag, la volontà di considerare la fotografia come documento materiale che può essere «ridotta, ingrandita, ritagliata, ritoccata, manipolata, truccata» e che, come qualunque oggetto cartaceo, può «sparire, acquistare valore», si può «comprare, vendere, riprodurre» (Sontag, 2004).
È all’incrocio fra queste dinamiche che emergono le ricerche visive degli artisti Noor Abu Arafeh, Petra Koehle e Nicolas Vermot-Petit-Outhenin e Uriel Orlow sui punti ciechi dell’archivio fotografico.
Nel caso di It Depends Entirely Upon the Hue of the Lighting (2012-in corso) di Petra Koehle e Nicolas Vermot-Petit-Outhenin, è dalla lettura materiale e immateriale di due fotografie a colori scattate nel 1944 che si innesca la ricerca sul controverso fondo Farbdiaarchiv zur Wand- und Deckenmalerei, oggi conservato al Zentralinstitut für Kunstgeschichte (Istituto Centrale di Storia dell’Arte) di Monaco di Baviera. Come suggerisce il titolo del lavoro, la chiarezza di un documento fotografico storico «dipende completamente dalla tonalità della luce» che lo rende visibile tanto a livello materiale (l’apparecchio fotografico e l’esecutore dell’immagine) quanto immateriale (l’apparato culturale e sociale che ne determina o permette la produzione, e la responsabilità di chi commissiona e di chi scatta).
Koehle&Vermot-Petit-Outhenin incontrano le due fotografie in oggetto nel 2006, fra «le note conclusive e l’appendice» della pubblicazione Führerauftrag Monumentalmalerei – eine Fotokampagne 1943-1945, che raccoglie gli atti del primo convegno di studi sul Führerauftrag Monumentalmalerei e sulle circa 39000 diapositive realizzate nel suo ambito fra il 1943 e il 1945 (Fuhrmeister et al., 2006). Il fondo emana del Mandato del Führer circa la pittura monumentale, una commessa rivolta da Hitler stesso al Ministero della Propaganda popolare del Reich con l’intento di realizzare una campagna fotografica per documentare cicli di affreschi, dipinti murali e altre decorazioni parietali di valore storico-artistico in 480 edifici storici costruiti fra il X secolo e la fine del XIX. L’idea era di far confluire le fotografie in una sorta di capsula temporale da utilizzare per la ricostruzione di opere distrutte nel corso della guerra.
Riprodotte a piena pagina in appendice, le istantanee scelte dagli artisti mostrano a destra un’impalcatura in legno da cantiere che incornicia stucchi, cimase e frammenti di un affresco. Sul piano alto del ponteggio, una donna china sull’apparecchio fotografico nell’atto di ritrarre un trio di putti bianchi. La pagina di sinistra inquadra un fotografo di spalle, cappotto nero e jeans blu chiaro, in elevazione su una pila precaria composta da una cassa di legno, un tavolino e una sedia antichi di colore bianco. Ai suoi piedi, si intuisce la presenza di un treppiede e, arretrando in prospettiva verso l’angolo a sinistra della scena, il dorso di una luce da studio dirige lo sguardo verso un dipinto murale incorniciato da stucchi. Riportato in primo piano, il dietro le quinte della produzione fotografica punta verso un episodio del mito di Amore e Psiche scelto a soggetto dei nove affreschi realizzati sotto la direzione del pittore Moritz von Schwind nel 1838. Lo scatto è di Rosmarie Nohr, nata a Hirschberg nel 1923, a quel tempo studentessa del neonato Instituts für Farbenfotografie an der Staatlichen Akademie für graphische Künste und Buchgewerbe (Istituto per la Fotografia a Colori dell’accademia statale di arti grafiche ed editoriali), fondato a Lipsia nel 1940 dal fotografo di spalle, Hans Geissler. È l’inverno del 1944 ed entrambi sono stati assegnati dal Führerauftrag Monumentalmalerei alla documentazione dello Schwind Pavillon costruito nel 1829 a Rüdigsdorf, nella zona di Lipsia.
Le diapositive scattate da Nohr e Geissler in equilibrio sulle impalcature si trovano oggi nell’archivio di Koehle&Vermot a Zurigo. Il loro statuto di immagini informali e furtive stride con le fotografie delle opere murali ritratte per la campagna. Tassello minore degli incroci fra la storia della democratizzazione della fotografia a colori e il Reich, la necessità di analizzare la materialità delle immagini in questione costituisce per Koehle&Vermot il motore narrativo di una serie di conversazioni con Rosmarie Nohr nel tentativo di comprendere l’intreccio di storie e le responsabilità che presiedono alla produzione delle immagini. Nel 2010, l’installazione Führerauftrag alla Shedhalle di Zurigo materializza il punto di vista della fotografia e l’immagine ingrandita di Rosmarie Nohr china sull’apparecchio fotografico. Non si tratta di un’installazione fotografica, ma di un gesto fotografico esplicito e tridimensionale, in cui si articola un’aderenza forte fra il referente e la fotografia (Barthes, 2003). Lo spazio centrale dell’installazione, concepito come una scena vuota, accoglie lo storico dell’arte e dell’architettura Philipp Ursprung e la teorica dei media Yvonne Volkart in conversazione con le immagini e la storia. Registrata e trascritta, la conversazione alla Shedhalle entra nell’archivio del progetto insieme alle interviste a Rosmarie Nohr. Queste ultime nutrono la partizione della mostra It Depends Entirely upon the Hue of the Lighting presentata alla Galerie de Roussan di Parigi nel 2013. All’ingresso della mostra, una serie di monocromi riproducono le scale cromatiche dei colori primari e complementari su cui si misura il colore della fotografia. Seguono tre nature morte a colori realizzati da Rosmarie Nohr durante gli studi all’Istituto per la Fotografia a colori di Lipsia.
A rendere possibile le fotografie di Nohr è, in principio, l’incontro ideologico fra la nuova pellicola a colori che Agfa produce nel 1935-1936 e la parziale defezione estetica di Goebbels dal monocromo dettato neoclassico dell’architettura nazista per sostenere lo sviluppo di una «fotografia a colori tedesca» (Berghoff, Kolbow, 2013). Di questa pellicola saranno dotati, fra il 1943 e il 1945, il gruppo di fotografi tedeschi ingaggiati nel Führerauftrag Monumentalmalerei, di cui fa parte Nohr. Nell’interrato della galleria, una tenda spessa attraversa lo spazio in cui le interviste degli artisti con Nohr diventano sceneggiatura che alterna le voci di tre ruoli, non identificati se non dalla responsabilità di chi prende la parola a partire dalla memoria della conversazione. Le parole in performance situano le scale cromatiche, le nature morte e le foto di Nohr e di Koehle&Vermot in una scena storica più ampia. Da un lato, la responsabilità di due individui che accettano l’incarico del Ministero della Propaganda popolare del Reich (Arendt, 1964). Dall’altro, la storia magniloquente e identitaria restituita dalle opere selezionate dagli enti preposti alla conservazione del patrimonio del Reich.
In questo campo di forze, i due scatti informali di Rosmarie Nohr e Hans Geissler offrono la visione latente di un atto fotografico intimo e precario e della costellazione di rapporti di potere che contestualizzano l’esistenza di queste immagini: lo squilibrio di potere fra il docente Geissler e la studentessa Nohr; la collaborazione di Nohr con un progetto di documentazione identitaria del Reich e, successivamente, nel dopoguerra, il suo coinvolgimento nella documentazione della prima esposizione riparatrice di opere che il regime nazista aveva definito “arte degenerata” (Koehle, 2020).
Il paradosso dei due fotografi autori delle immagini nell’ambito dell’incarico, ricorda Petra Koehle, è che i punti ciechi e le assenze degli archivi sono legati, storicamente, alla versione della storia di chi non era al potere. Nel caso del Farbdiaarchiv zur Wand- und Deckenmalerei, è il potere di un regime crudele che crea le immagini fra il 1943 e il 1945 – immagini che vengono digitalizzate al principio del XXI secolo e messe a disposizione del pubblico in libero accesso. Nel progetto di Koehle&Vermot la ricerca delle diapositive originali di Nohr e Geissler non è puntiglio di studio , ma è dettata dall’esigenza di tenere nelle mani l’immagine nel suo supporto originale per osservarne sia gli spostamenti di senso, sia quelli materiali a ogni cambiamento di formato e di contesto. Analogamente, a ogni nuova esposizione, l’installazione risponde al contesto della mostra: i testi si traducono nella lingua locale – francese, tedesco, estone…; le impalcature costruite dagli artisti nello spazio fisico interagiscono con le gallerie; a Francoforte, un giornale nel formato del Frankfurter Allgemeine Zeitung riproduce l’insieme delle immagini dei cinque edifici della regione su mandato del Führerauftrag Monumentalmalerei.
A introduzione del saggio Latent archives, roving lens, l’artista Uriel Orlow cita in esergo una riflessione fortemente visiva dello storico Pierre Nora sull’archivio che “secerne” memoria: «L’archivio è diventato la secrezione deliberata e calcolata della memoria perduta» (Orlow, 2006). Orlow introduce l’immagine dell’archivio contemporaneo gonfio di informazioni nel quadro dell’accelerazione post-Rivoluzione industriale e della conseguente percezione di una memoria più intensamente volatile. Per Orlow, la questione di chi conserva il materiale documentario entra in relazione con la fisicità dell’archivio, la materialità dei documenti e il contributo della telecamera e dell’immagine in movimento nella cura della memoria. Nel video Les Veilleurs d’images (I guardiani d’immagini, 2017), queste interazioni collegano il fondo di immagini stereoscopiche riunito dall’ex-soldato zarista Kostioukovsky fra il 1904 e il 1939, l’acquisizione della fototeca da parte del Mucem (Musée des civilisations européennes et méditerranéennes) di Marsiglia nel 2000 e la successiva digitalizzazione delle immagini nel 2013, con il concorso di un detenuto della prigione Maison Centrale di Poissy, nel nord della Francia.
A partire da una lettura approfondita del fondo, l’artista ricostruisce gli spostamenti di Kostioukovsky, che ripara a Parigi nel 1915, dove diventa imprenditore e fotografo amatore di immagini stereoscopiche. L’apparecchio stereoscopico documenta i suoi viaggi attraverso la Francia e l’Europa, racconta l’incontro con paesaggi naturali e grandi eventi storici, quale l’Esposizione Universale di Parigi del 1937 . Lo sguardo di Orlow sulla collezione concerne tanto i passaggi di proprietà del fondo, quanto le tracce materiali delle norme archivistiche che presiedono alla classificazione delle immagini in faldoni e armadi, le iscrizioni sulle etichette e l’iconografia dei soggetti ritratti. Osserviamo il perimetro del campo visivo al cui interno le immagini si mostrano, e sono visibili, attraverso i protocolli di conservazione e i gesti che preparano le immagini stereoscopiche alla spedizione. Aspetti umani di cura e di conservazione che, apprendiamo nel video dalle parole del detenuto-guardiano di immagini, «diventano completamente invisibili quando il lavoro è ben fatto». Secondo questo angolo, l’inchiesta di Orlow si sviluppa sulla base di una pratica prolungata di ricerca sul campo volta a raccogliere e analizzare le informazioni e a incontrare i testimoni e gli attori degli eventi.
Les Veilleurs d’images[1] si concentra sugli spostamenti fisici e di senso, materiali e latenti delle immagini del fondo Kostioukovsky. La telecamera assiste al controllo e all’uscita del fondo di diapositive su pellicola fotografica dalla sezione Arts de la scène dell’archivio del Mucem e in seguito registra l’arrivo e il trattamento digitale presso la Maison Centrale di Poissy. La visione a doppio canale adottata da Orlow fa eco al visore stereoscopico, anch’esso parte del fondo Kostioukovsky, attraverso il quale vediamo le prime immagini. Le porte a ruota degli scaffali dell’archivio si aprono, le scatole di conversazione vengono disposte sul tavolo, le immagini sono scartate e poi rincartate dalle mani guantate di una donna in camice bianco.
Le schermate successive inquadrano la porta di una prigione e seguono le immagini di Kostioukovsky sino alla sala di digitalizzazione – computer, doppio schermo, macchina fotografica, il rumore dell’acquisizione delle immagini – e le mani guantate del detenuto che le spolvera e (ri)fotografa. Sulle schermate in colore, une serie di incisi che Orlow raccoglie durante l’incontro con il detenuto; nato nella regione di Parigi, figlio di operai con cui viaggiava d’estate, nipote di un reporter, carpentiere, in seguito detenuto pagato quattro euro all’ora per digitalizzare immagini. I luoghi fotografati da Kostioukovsky si giustappongono ai ricordi personali del guardiano d’immagini e la riparazione dell’archivio si affianca alla “costruzione, riparazione, restauro” dei viventi («Il lavoro d’archivio implica sempre la questione della conservazione e del restauro. C’è un legame fra questo lavoro e la riparazione del vivente»). Le immagini di viaggio si giustappongono alle griglie, barriere, muri e giri di filo spinato della prigione.
In assenza di archivi, le narrazioni informali e collaterali della storia dell’arte tendono a prendere la forma di voci (rumors), aneddoti e, a livello privato, diventano segreto condiviso dai gruppi e dalle scene artistiche. Si tratta di conoscenza anonime, di difficile attribuzione a un tempo storico preciso, ma fondamentali quando si vogliono investigare situazioni alternative al contesto istituzionale dato. Questo perché, come ricorda Irit Rogoff, la loro fluidità disturba la nostra fede nelle rappresentazioni politiche e storiche ufficiali. Se Rogoff sottolinea la necessità di investigare nei dintorni dell’informazione assente per includere questi dati fragili e tradizionalmente marginali nella ricerca accademica, per far fronte all’assenza totale di tracce che segue la distruzione, sparizione o totale assenza di un archivio, Jalal Toufic propone un livellamento delle fonti documentarie storiche e fittizie poiché «la finzione è un contenitore di fatti storici, fatti economici e fatti estetici, e un fatto estetico è, in definitiva, un fatto come tutti gli altri» (Toufic, 2017). Laddove, in Les Veilleurs d’images di Uriel Orlow le immagini stereoscopiche evocano suoni, voci e visioni sul doppio binario dei ricordi personali e delle memorie storiche che producono alternative documentarie, nel lavoro dell’artista Noor Abu Arafeh gli oggetti, e di conseguenza anche le fotografie, ricordano; si fanno quindi archivio aperto a letture speculative. La strada è iniziata da Michel de Certeau, che osserva a proposito delle prove indiziarie: «Anche gli oggetti hanno memoria. La maniglia ricorda chi l’ha girata, il telefono chi ha risposto. (…) Sta all’investigatore imparare il linguaggio delle cose, per poterle ascoltare quando hanno qualcosa da dire» (de Certeau, 1988). L’indagine di Noor Abu Arafeh si basa sull’ipotesi che una fotografia possa registrare l’informazione oppure dimenticarla e quindi celarla. Nel 2015, la ricerca dell’artista sull’assenza di archivi istituzionali per l’arte contemporanea palestinese la porta ad approfondire la vicenda di artisti cardine, quali Suliman Mansour, Nabil Anani e Tayseer Barakat. Nel corso della ricerca, incontra il dipinto Fourteen Men della serie Art Exhibition: Ready-Made Representations (2011), a partire da 54 documenti fotografici scelti dall’artista e trasformati in dipinti a olio in Cina. Il referente del quadro è la foto di gruppo degli artisti partecipanti alla collettiva First Spring Exhibition,organizzata nel 1985 al centro d’arte Al Hakawati di Gerusalemme dalla League of Palestinian Artists. Noor Abu Arafeh ricerca informazioni sui tredici artisti, sulla mostra e sulla fotografia. Un artista in particolare emerge nella ricerca, Sager Al-Qatel, morto nel 2004 in Olanda, sul quale le informazioni appaiono inaccessibili. Alla sua visione della storia, fra il 2014 e il 2015, Noor Abu Arafeh consacra un primo video, Observational Desire on a Memory that Remains (2015). Nelle due voci del video, il passato della memoria di Sager si sincronizza con il presente della ricerca di Noor Abu Arafeh. A parlare per Sager è la sua fotografia in bianco e nero, che completa in chiave speculativa e a tratti fittizia il resoconto sulle scoperte e i vuoti di memoria dei documenti interrogati da Noor Abu Arafeh per ricostruire i dettagli dell’esperienza.
Nel 2018, l’artista ritorna sulla foto di gruppo della First Spring Exhibition dopo aver individuato un’altra assenza. La nuova fase di ricerca dà luogo al video The Magic of the Photo That Remembers How to Forget (2018). Il video parte dalla foto di gruppo dei quattordici artisti uomini della First Spring Exhibition per parlare di una quindicesima artista che avrebbe partecipato alla mostra ma che non compare nell’istantanea. Si tratta di un dato storico sfuggito alle maglie della storia espositiva ufficiale o, suggerisce la voce di Noor Abu Arafeh, di un elemento che si è ritirato dall’immagine ed esce quindi anche dalla scena principale dei resoconti sulla mostra. La foto della Spring Exhibition appare e scompare al suono di un clic fotografico per poi ricomporsi in una sequenza di bande colorate verticali che sembrano segnalare un errore di trasmissione. L’ipotesi di Noor Abu Arafeh è che una forma di negligenza archivistica abbia determinato la perdita di memoria fotografica da parte del documento visivo, immemore a causa dell’errore fotografico e dell’archivio assente.
Se le microstorie del documento visivo risultano mancanti o inintelligibili per via della loro natura precaria, è tuttavia proprio il loro carattere effimero che le predispone a essere raccontate e ri-raccontate. Ad ogni cambiamento di contesto e di formato, costituiscono un archivio di storie parallele orali e materiali che dettagliano le occorrenze della macro-storia di partenza.
La questione è centrale quando, nell’autunno 2019, inizio la collaborazione con gli artisti Petra Koehle e Nicolas Vermot-Petit-Outhenin sulla ricerca Mémoire institutionnelle: esthétique politique du don au Palais des Nations de Genève. Il progetto comincia con la consultazione degli archivi relativi all’operato della Società delle Nazioni fra il 1919 il 1946, per poi concentrarsi sul Palazzo delle Nazioni e sull’idea che l’architettura, nella sua faraonica materialità, sia essa stessa documento. Costruito nel cuore del Parc de l’Ariana a Ginevra, fra il 1929 e il 1937, la dimensione leggendaria e monumentale del Palazzo delle Nazioni è immortalata nel 1968 dal catalogo quantitativo del romanzo Bella del Signore di Albert Cohen: «E poi mille e novecento radiatori, ventitremila metri quadrati di linoleum, duecentododici chilometri di fili elettrici, mille e cinquecento rubinetti, cinquantasette idranti, centosettantacinque estintori!» (Cohen, 2013). Come nel caso delle diapositive, dei fondi fotografici o dei documenti individuali discussi in questo saggio, per la lettura del Palazzo e del suo archivio ci soffermiamo sui dispositivi che producono le viste d’insieme e sui dettagli che restano fuori quadro. Immaginiamo che in una situazione collettiva, accanto alle storie ufficiali e agli archivi di eventi, la pratica quotidiana degli spazi del Palazzo delle Nazioni e lo spirito di solidarietà internazionale sottinteso dal progetto dell’ONU abbia generato conoscenze tacite e storie informali, che funzionano come «mediatori fra una successione di eventi locali e una strategia istituzionale» (Greenblatt, 1992).
Nel 2014, in visita al Palazzo delle Nazioni con l’archivista dell’ONU Jacques Oberson, Koehle&Vermot individuano negli archivi la documentazione relativa a una serie di doni dei Paesi membri sollecitati nel 1932 per finanziare la costruzione degli arredi d’interni dell’edificio: «Lungo corridoi e scalinate, (…) impaziente di sottolineare l’entusiasmante carattere ufficiale, menzionò fieramente i doni dei diversi paesi: tappeti di Persia, legni di Norvegia, tappezzerie di Francia, marmi d’Italia, dipinti di Spagna e tutte le altre offerte, spiegandone ogni volta la qualità eccezionale» (Cohen, 2013). Attraverso le lettere e la documentazione amministrativa, ricostruiamo il processo di creazione delle sale, le trattative finanziarie, estetiche e politiche che l’hanno accompagnata, la competizione nazionale e internazionale che li anima. Speculiamo sugli ambienti non concretizzati, sui doni rifiutati. Fra le righe della retorica diplomatica, la corrispondenza ci mostra come il disaccordo estetico su una decorazione in legno possa tradursi in disaccordo politico, e viceversa. È così che pavimenti, tende, sedie, decorazioni murali e stanze intere del Palazzo delle Nazioni raggiungono una forma di consenso architettonico fra epoche e stili eterocliti – consenso che mette in ombra i dibattiti geopolitici e le ponderazioni alla base delle scelte estetiche.
Sono quindi molteplici i modi per “sparire” da un archivio (Sciego, 2020). Perché ciò avvenga, si devono silenziare le tappe che presiedono alla produzione del documento; la storia materiale e culturale del suo supporto; le circostanze individuali e di sistema che determinano la creazione del documento in oggetto e il contesto della sua ricezione; in alternativa, si può recidere il legame fra il documento e il suo referente reale, riducendone la credibilità. La sparizione sarà tanto più efficace se accompagnata da un grande rivolgimento storico che sospende, devia o modifica le forme di conservazione e catalogazione. Adottando una metafora fotografica, Siegfried Kracauer propone una procedura complementare per sparire dalla visione storica (Kracauer, 1969). Per Kracauer, la completezza dello sguardo storico dipende dall’angolo della ripresa e dalla capacità, attraverso movimenti di camera, di collegare macro-eventi con la specificità dei dettagli, per creare visioni d’insieme. Tuttavia, continua Kracauer, ciò che il macro-storico non vede è in buona parte oscurato da ciò che vede.
Note
[1] Uriel Orlow, “Les Veilleurs d’images”, 2017, Gallery Immagini LINK
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Federica Martini, PhD, è curatrice e storica dell’arte contemporanea. Dal 2018 è capo dipartimento Arti visive all’EDHEA Ecole de design et haute école d’art du Valais HES-SO (Svizzera), dove fra il 2009 e il 2017 ha diretto il programma MAPS Master of Arts in Public Spheres. È stata membro dei dipartimenti curatoriali di Castello di Rivoli, Musée Jenisch e MCBA/Lausanne. Nel 2012 ha iniziato il Museum of Post-Digital Cultures con Patrick de Rham e Elise Lammer, e cofondato la serie editoriale SARN Minutes su tematiche legate alla ricerca art-based/art-led.