Care feminism, particularly in light of
the conditions of the global present, is a
political project. […] is about what living
with an infected planet can, could,
and hopefully will be.
(Krasny et al 2021: 32)
Cura e femminismo: fra lavoro riproduttivo ed etica
Il dibattito femminista sulle attività di cura ha visto emergere, nel tempo, due paradigmi differenti della filosofia politica contemporanea: quello della riproduzione sociale e quello dell’etica della cura.
Nato negli anni Settanta, dalla discussione internazionale interna al femminismo marxista e materialista sui rapporti fra capitalismo e patriarcato, il primo paradigma critica al marxismo la mancata considerazione del lavoro domestico non retribuito svolto dalle donne come lavoro riproduttivo – tassello base nel processo di accumulazione capitalista. Avendo assunto il salario come discrimine fra gli ambiti di lavoro e “non lavoro”, la società capitalista ha ricorsivamente invisibilizzato l’attività di riproduzione svolta in ambito domestico ritenendola insignificante ai fini della riproduzione della forza-lavoro e della trasformazione della società (Federici 2020). Il focus sulla riproduzione sociale, intesa come «l’insieme delle attività necessarie a sostenere e riprodurre la vita su un piano quotidiano, a livello intergenerazionale e nel lungo periodo» (Casalini 2010), permette dunque di evidenziare i mutamenti del concetto e del contesto di lavoro dovuti alle trasformazioni del capitalismo globale e le modalità con cui esso produce specifiche forme di soggettività tramite processi di femminilizzazione e razzializzazione dei corpi messi a lavoro.
Il secondo paradigma, nato nel mondo anglosassone degli anni Ottanta, muove invece una critica alle teorie liberali della giustizia ed evidenzia il profondo valore sociale della dimensione relazionale, oscurata dalla concezione liberale dell’individuo come entità autonoma e autosufficiente, spostando il focus dal contesto del lavoro di cura quotidiano verso una dimensione più globale della cura.
La progressiva politicizzazione del pensiero femminista della cura ha portato a spostare il focus dall’intenderla come disposizione caratteriale di un dato individuo – una virtù femminile, in una visione essenzialista, astorica e immutabile della femminilità – al concepirla come una pratica sociale che necessita di un sostegno da parte delle istituzioni e di una responsabilizzazione da parte dell’intera collettività. «Solo comprendendo la cura come un’idea politica saremo in grado di cambiare il suo status e la condizione di coloro che svolgono il lavoro di cura nella nostra cultura.» (Tronto 1993: 175). Un cambiamento che necessita la riscrittura degli attuali confini morali con cui si definisce chi e cosa sia degno di considerazione, includendo in qualità di attori politici coloro che, assegnati al lavoro di cura, ne sono stati tradizionalmente esclusi.
Enfatizzando la vulnerabilità come condizione globale, la crisi pandemica ha fatto emergere il lavoro di cura come uno degli elementi fondanti dei sistemi sociali, fondamentale alla creazione e al mantenimento dei legami relazionali. Ha inoltre evidenziato problematiche di forte divisione di genere del lavoro di cura, d’intersezione fra discriminazioni di genere, nazionalità e classe, di dipendenza del lavoro produttivo da quello riproduttivo, e della vita della società dall’organizzazione del privato (Serughetti 2020), riecheggiando il dibattito femminista degli anni ‘70 sul lavoro domestico come forma di mantenimento e prosecuzione non solo della vita privata, ma anche di quella pubblica e sociale.
Vicina a queste prospettive, la pratica dell’artista Mierle Laderman Ukeles ha contribuito a far emergere la cura come un vero e proprio ecosistema di pratiche e soggetti. Arrivando a concepire il lavoro riproduttivo come arte (Maintenance Art), l’artista solleva importanti questioni rispetto alle attività di cura svolte a livello individuale, sociale ed ecosistemico. La sua progettualità pone particolare attenzione alle istituzioni artistiche, (ri)portando alla luce il valore fondamentale delle attività di mantenimento che, spesso ignorate e svalorizzate, sono essenziali al funzionamento infrastrutturale delle istituzioni stesse.
Mierle Laderman Ukeles – Maintenance (as) Art
We can recognize care when a practice
is aimed at maintaining, continuing,
or repairing the world.
(Tronto 1993: 104)
Nel 1969, l’artista statunitense Mierle Laderman Ukeles redige il Manifesto for Maintenance Art. A seguito di una crisi che la coglie quando ancora studente deve affrontare una maternità, e che la porta a sperimentare una profonda dissonanza fra il proprio ruolo creativo e il lavoro di cura ripetitivo che è tenuta a svolgere in qualità di mamma e di moglie, Ukeles sente la necessità di riscrivere radicalmente il proprio approccio: «Stavo facendo un lavoro così comune; eppure, non c’era un linguaggio culturale […] che desse valore al lavoro che stavo facendo» (Finkelpearl 2000: 302-303). Il modello dell’artista autonomo dimostra «un lato nascosto e malvagio […] non riconoscendo chi lo sostiene, e chi lo supporta, e chi sta fornendo […] le materie prime, e chi sono le persone che le stanno estraendo dalla terra, e quali sono le loro condizioni di lavoro, e quali sono i costi di inquinamento dei materiali in circolazione in tutto il mondo, chi sta pagando per cosa» (Ivi: 304).
Riconoscendo il lavoro domestico come lavoro riproduttivo, in un atto linguistico di duchampiana memoria, l’artista proclama l’attività di mantenimento (maintenance) una forma d’arte: seppur caratterizzata da aspetti di circolarità e ripetitività, è infatti alla base dell’innovazione creativa e sociale.
Nel tempo Ukeles si è spesso impegnata in progetti che riflettono sull’idea della manutenzione, manifestando la stretta interconnessione esistente tra la cura personale – cura di sé – generale – dell’ambiente domestico e sociale/urbano – e relativa alla Terra – che include la progressiva riduzione dell’inquinamento ambientale e la conservazione degli habitat naturali. L’articolazione delle diverse scale su cui il tema della cura viene affrontato, nel suo lavoro, ha posto le basi per comprendere come l’assetto ecologico sia strettamente dipendente da questioni socioculturali di genere, razza e classe.
Nel redigere il Manifesto, un testo che si colloca a metà fra una dichiarazione d’intenti e un’opera d’arte concettuale, Ukeles rileva lo stato dei lavori di manutenzione nei contesti pubblici, privati e domestici, considerandoli, nell’accezione più ampia possibile, come l’insieme di quelle mansioni e di quei servizi che devono essere ripetutamente eseguiti al fine di mantenere un equilibrio esistenziale. Nel testo, l’artista identifica due differenti sistemi di base, quello del cambiamento o creazione (Development) e quello del mantenimento o conservazione (Maintenance), che fa corrispondere a due differenti impulsi, rispettivamente, quello di morte (Death Instinct) e quello di vita (Life Instinct). La manutenzione è descritta come una tensione vitale fondamentale a sostenere il cambiamento – inteso come sviluppo personale, artistico ed economico – a perpetuare la vita delle specie e dei sistemi sociali. La tensione di morte è identificata invece in una separazione individualista che è caratteristica del soggetto liberale. «Il problema, nota Ukeles, è che la nostra cultura valorizza il cambiamento quando le attività di manutenzione ‘occupano tutto il dannato tempo’» (Steinhauer 2017). Inibendo la contrapposizione fra lavoro fisico e simbolico e considerando i lavori di manutenzione quali processi performativi intrinsechi alla propria pratica creativa, l’artista li esegue in prima persona: generando uno slittamento di significato traduce l’attività funzionale del mantenimento in un carattere formale, trasformandola in gesto artistico.
Nelle ultime pagine del Manifesto, Ukeles avanza una proposta di arte pubblica incentrata sulla cura, da realizzarsi in una cornice museale. Il progetto, denominato CARE, si sarebbe articolato in tre differenti momenti o livelli: inizialmente, l’artista avrebbe portato a termine, trasponendole nello spazio del museo, alcune delle attività di cura normalmente svolte in ambito domestico, mettendo in mostra nello spazio pubblico museale l’importanza delle suddette attività di cura (1. livello personale). Successivamente, Ukeles avrebbe condotto delle interviste per indagare il significato del lavoro di cura e del concetto di libertà per chi, in prima persona, si dedicava a mansioni di mantenimento. Le trascrizioni delle suddette interviste sarebbero state esposte nelle sale del museo. Inoltre, in un’apposita stanza dell’istituzione, i fruitori della mostra sarebbero stati intervistati al fine di implementare le riflessioni degli addetti ai lavori, sviluppando ulteriormente il dibattito sulle attività di cura (2. livello generale). Infine, concependo il museo come spazio alchemico, Ukeles prevedeva di farvi giungere quotidianamente quattro differenti bidoni contenenti sostanze di rifiuto, rispettivamente, relative a un camion per la sanificazione, all’aria inquinata della città, all’acqua inquinata del fiume Hudson e a campioni di terra devastata. I quattro contenitori sarebbero stati purificati e riciclati all’interno degli spazi espositivi stessi, grazie all’aiuto di figure esperte. Il giornaliero ciclo di riabilitazione delle sostanze di scarto sarebbe proseguito per tutta la durata dell’esposizione (3. livello planetario o relativo alla Terra).
Il progetto CARE non arrivò mai a concretizzarsi, ma la proposta divenne un punto d’orientamento fondamentale per la ricerca dell’artista, ponendo le basi tematiche e concettuali della sua progettualità futura.
Performare la cura: Maintenance Art Tasks e Maintenance Art Performances
In occasione della mostra d’arte concettuale femminista c.7500 curata da Lucy Lippard nel 1973, Ukeles presenta una serie di scatti che, ritraendola in diverse azioni di manutenzione precedentemente performate, ricontestualizzano le attività e gli strumenti del lavoro domestico all’interno dello spazio museale, esponendoli come opere d’arte: in questo senso, le Maintenance Art Tasks (1973) [1] ben esemplificano il motto femminista “il personale è politico” [2], evidenziando le strette connessioni esistenti tra l’esperienza personale femminile e le più ampie strutture sociali e politiche di potere. A implementare l’apparato visivo dell’esposizione, sono presenti alcune registrazioni di interviste con persone impiegate in diverse aree del settore dei servizi. Inoltre, nelle tappe toccate dalla mostra itinerante, l’artista ha modo di proporre svariate azioni performative (Maintenance Art Performances) basate sui principi espressi nel proprio Manifesto. Se le Maintenance Art Tasks documentano attività di cura svolte in ambito domestico ed esposte solo successivamente all’interno di un’istituzione museale, le Maintenance Art Performances innestano queste stesse attività direttamente nello spazio pubblico, operando un ulteriore slittamento contestuale. Per l’occasione Ukeles lavora ancora in solitaria, ma sarà presto portata a creare progetti collaborativi con le comunità degli addetti ai lavori di mantenimento – comunità con cui, in quanto donna e madre, sente una profonda connessione (Finkelpearl, 2000) – dimostrando un’ulteriore apertura verso la dimensione urbana e globale della cura.
Come si evince da questi esempi, le azioni di Ukeles non mirano solamente a evidenziare il lavoro riproduttivo legato allo spazio domestico e/o allo spazio pubblico in generale, ma a criticare il museo in quanto istituzione: esso ha infatti sempre privilegiato l’opera d’arte rispetto alle attività di supporto che stanno alla base del mantenimento della propria organizzazione. Rilevando nel museo l’esistenza di una struttura di potere che necessita del dominio di “altri marginalizzati” per preservare il cambiamento generato dagli artisti innovatori, Ukeles ricollega il proprio agire alle operazioni dell’Institutional Critique (Fraser 1985). Come nota Shannon Jackson, studiosa di teatro, danza e arti performative, nell’opera di Ukeles la manutenzione emerge come un’attività materiale e di durata necessaria a supportare l’oggetto d’arte statico della “creatività smaterializzata” (Jackson 2011).
In particolare, la performance Transfer: The Maintenance of the Art Object – o Mummy Transfer – (1973) critica le modalità di assegnazione del valore all’interno delle istituzioni artistiche ed enuclea la divisione del lavoro in esse esistente. L’opera presenta i differenti gradi di potere che contraddistinguono tre azioni, in apparenza molto simili, quando eseguite da tre figure differenti – in questo caso, l’addetto alla manutenzione o custode, l’artista e il conservatore del museo. Durante l’azione, realizzata in occasione della seconda tappa della mostra curata da Lippard, Ukeles assume le funzioni di custode del museo (primo transfer) utilizzando i suoi strumenti per ripulire una teca di vetro contenente una mummia. Una volta concluso il processo di pulizia, l’artista marchia gli utensili e la teca con un timbro di gomma, etichettandoli come Maintenance Art Works e nominandoli duchampianamente come arte (secondo transfer). «Ho detto: ‘Farò un dipinto a polvere’. Copiandolo, perché era l’esperto, ho fatto esattamente quello che ha fatto lui, ma [la mia] era un’opera d’arte, perché così l’ho definita» (Schwartz 2010). Infine, l’artista trasferisce le successive mansioni di mantenimento al curatore del museo, la sola figura tradizionalmente autorizzata a gestire e conservare le opere d’arte all’interno dell’istituzione (terzo transfer). Nelle sue mani, un lavoro di servizio ritenuto non professionale assume una nuova autorevolezza. Dopo aver eseguito un condition report per verificare lo stato dell’opera, il conservatore la ripulisce ripetendo le stesse identiche mosse dell’addetto alla manutenzione. Afferma l’artista, «la nozione di valore mi aveva attraversata passando dall’operaio al conservatore. Volevo che la gente vedesse che la logica dell’istituzione crea un retrogusto amaro» (Ibidem).
Espandendo la sua prospettiva dalla dimensione domestica e personale fino ad accogliere i parametri di razza e classe all’interno della sua indagine sulle attività di manutenzione, Ukeles abbraccia un’ottica sistemica per operare a stretto contatto con diverse tipologie di funzionari del settore dei servizi, elevando lo status della loro occupazione da attività non riconosciuta e mal retribuita a forma d’arte.
Ne è un primo esempio I Make Maintenance Art One Hour Every Day (1976), progetto ideato per la mostra collettiva Art ⇆ World al Whitney Museum of American Art. Relazionandosi agli eventi del quotidiano, l’esposizione rifletteva sulla democratizzazione di un’arte impegnata a rivelare la natura e il funzionamento della società. Per l’occasione, l’artista sviluppa una performance collaborativa insieme al personale di servizio del grattacielo allora sede del museo, situato nel quartiere finanziario di New York – qui l’astrazione del capitale riflette quella della forza lavoro necessaria a tenere in piedi l’edificio ventiquattr’ore su ventiquattro.
Nell’arco di cinque settimane, Ukeles crea un’occasione di dialogo con trecento addetti alla manutenzione: scattandogli una foto mentre lavorano, chiede loro di considerare, per un’ora al giorno, l’attività che stanno svolgendo come Maintenance Art, riconsegnando loro una certa autorialità e portandole a contemplare le proprie mansioni al pari di un’azione artistica. La successiva esposizione al pubblico delle settecentoventi Polaroid realizzate per il progetto permette di (ri)portare alla luce un’attività altrimenti sommersa e disprezzata, benché essenziale, in un ritratto del grattacielo che lo mostrava come frutto del lavoro umano di molti e molte.
Dirty care: la residenza presso il Sanitation Department di New York
Negli anni Settanta la città di New York attraversava una profonda crisi economica ed era vicina alla bancarotta. Rispondendo alla provocazione espressa da David Bourdon in una recensione apparsa il 4 ottobre 1976 [3] sul quotidiano “The Village Voice” [4], dove il critico suggeriva al dipartimento di nettezza urbana della città di New York di richiedere fondi del National Endowment for the Arts per la loro attività di “manutenzione artistica”, Ukeles si mette in contatto con il commissario del dipartimento e dal 1977 è accolta in qualità di artista in residenza, sebbene non retribuita. L’artista legge un grande potenziale in questa occasione: i lavoratori della nettezza urbana «sono i domestici della città, e sono tutti uomini! […] come femminista, con questa forza lavoro tutta maschile, ho sentito che era l’occasione perfetta per infrangere così tanti preconcetti sul lavoro, per farli saltare in aria» (Harakawa 2016). Nel tempo, Ukeles matura un profondo interesse e rispetto per l’attività degli operatori del comparto, instaurando una forte sintonia con il loro lavoro di mantenimento: «Mi piaceva l’idea che i servizi igienico-sanitari andassero ovunque, e non si fermano mai, mai. Questo è un ottimo modello per l’arte. L’arte dovrebbe andare ovunque tutto il tempo. Non c’è posto speciale, non c’è momento speciale» (Finkelpearl 2000: 314).
Con essi Ukeles coopera a una serie di progetti di diversa natura, che spaziano dalla performance, a opere video-documentarie [5], a installazioni temporanee e permanenti.
In particolare, nella performance Touch Sanitation (1979-80) Ukeles realizza un “ritratto della città come entità vivente” (Ibidem): scortata nel corso di 11 mesi da un autista e da una guida messi a sua disposizione dal dipartimento di nettezza urbana di New York, ne incontra circa 8500 dipendenti per ringraziarli a uno a uno per il loro lavoro, stringendogli la mano mentre esclama “Grazie per mantenere in vita la città di New York!”. La stessa frase è stata riproposta durante la pandemia di COVID-19 in una nuova iniziativa di arte pubblica, realizzata in collaborazione con The Queens Museum, Time Square Arts e MTA Arts & Design. Proiettata su oltre 2000 display digitali diffusi nella città di New York, la dedica Dear Service Worker, “Thank you for keeping NYC alive!” For —–> forever… rinnova l’impegno dell’artista nel rendere omaggio ai lavoratori del servizio pubblico attraverso la sua pratica artistica [6].
La restituzione finale del progetto degli anni ‘80, Touch Sanitation Show (5 settembre – 04 ottobre 1984), prende corpo contemporaneamente in due siti differenti: la Street Marine Transfer Station, ubicata sulla cinquantanovesima strada, in concomitanza del litorale del fiume Hudson [7], e la Ronald Feldman Gallery, nel quartiere Soho. Nel primo caso, situandosi nel contesto di un impianto operativo per lo smaltimento dei rifiuti, Ukeles dispone diciotto camion della nettezza urbana in linea retta, facendo diffondere, al loro interno, una serie di registrazioni delle conversazioni avvenute fra lei e gli addetti ai lavori di manutenzione, intervallate da otto tracce sonore registrate in presa diretta all’interno del sistema igienico-sanitario newyorkese – queste ultime sono riprodotte in differenti punti della stazione di trasferimento dei rifiuti (Trax for Trucks & Barges, 1984). Per l’occasione, l’artista fa inoltre danzare sei chiatte della spazzatura trainate da due rimorchiatori (Marring the Bargers, 1984), in una coreografia che traccia un solco a spirale sulle acque del fiume Hudson.
Favorendo un approccio alla trasparenza e all’accessibilità delle strutture, l’artista consente alla cittadinanza di responsabilizzarsi rispetto ai rifiuti che generano ma anche ai meccanismi circolari di funzionamento dei più vasti sistemi urbanistici. «Per Ukeles, l’arte pubblica è un forum unico nel suo genere per esaminare il rapporto tra la vita pubblica, l’azione civica e i moderni sistemi che modellano la nostra cultura collettiva» (Phillips, 1989).
Interessata a indagare il posizionamento dei lavoratori del dipartimento di nettezza urbana all’interno del tessuto cittadino, nella seconda parte dell’esposizione – Maintenance City / Sanmen’s Place, ospitata nella galleria d’arte – Ukeles propone due grandi installazioni insieme alla performance Cleansing the Bad Names (1984): dopo aver interrogato gli operatori sanitari in merito agli appellativi negativi che si erano visti attribuire per la loro mansione, li riporta sui ventitré metri di estensione della vetrata della galleria, chiamando centonovanta persone, rappresentative di diversi ambiti sociali, a cancellare le scritte, riconoscendo la necessità di un impegno collettivo per operare un reale cambio di prospettiva. Ciò è reso evidente anche dall’opera The Social Mirror (1983), un camion della nettezza urbana rivestito di specchi la cui superficie riflettente espone il ruolo dell’intera società come parte delle diverse ecologie urbane: «Economie circolari significa che non c’è un fuori; si sposta materiale in tutta la città ma ciò avviene sempre all’interno di un sistema di flusso» (Harakawa 2016). Scopo dell’artista è quello di sottrarre allo stigma e all’indifferenza il ruolo del personale igienico-sanitario, dando vita a un’azione artistica articolata che, unendo la performance, il dialogo e l’esposizione, rivela la realtà sfaccettata di un ecosistema base della vita cittadina e fondamentale al suo mantenimento, dimostrando come l’arte esiste là dove esistono sistemi di sopravvivenza basilari.
Conclusioni
«L’approccio di Ukeles ha sempre dimostrato una tendenza collettivista e femminista, nonostante la sua parziale sussunzione nei rapporti di produzione del capitale e nelle strutture patriarcali di potere che informano le istituzioni culturali» (Petrossiants 2019) – problema con cui altri esponenti dell’Institutional Critique si sono misurati. Del resto, come fa notare l’artista Andrea Fraser nel suo celebre articolo intitolato From the Critique of Institutions to an Institution of Critique e pubblicato sulla rivista “Artforum”, l’Institutional Critique è sempre stata istituzionalizzata (Fraser 2005).
Spostando di volta in volta il focus per inquadrare la dimensione domestica/personale, sociale/urbana ed ecosistemica del lavoro di mantenimento, Ukeles fa propria l’idea di istituzione come campo di relazioni sociali, culturali, economiche e politiche, manifestando in modo molto chiaro una postura etica e pragmatica nei confronti delle istituzioni artistiche e, in un’analisi più generale, rispetto ai valori e alle pratiche su cui basare una (ri)produzione della società più equa. Situandosi sulla soglia fra sistemi artificiali e naturali, e fra arte e vita, l’opera di Ukeles sfida la nostra concezione limitata del ruolo dell’arte nel mondo e mira a sviluppare una coscienza ecologica nel senso più ampio del termine. In questa prospettiva, la sua pratica offre un terreno fertile di riflessione per la sopravvivenza planetaria nell’attuale crisi ambientale e pandemica, schierandosi in consonanza con le lotte per la giustizia sociale e climatica. «Sognavo di poter far crescere l’arte pubblica dall’interno di un sistema di infrastrutture pubbliche verso l’esterno, verso il pubblico, e che la crescita avrebbe interessato sia l’interno che l’esterno. […] Visione e volontà possono cambiare praticamente qualsiasi cosa. L’arte non l’ha sempre saputo?» (Finkelpearl 2000: 322).
Note
[1] Queste includono: Changing the Baby’s Diaper, Doing the Laundry, Well-Baby Checkups, Washing the Dishes, Getting a Haircut, Excavating the Building, Dressing to Go Out/Undressing to Go In.
[2] Utilizzato dal movimento studentesco e dal femminismo di seconda ondata, nello specifico, la frase divenne popolare a seguito della pubblicazione, nel 1970, del saggio della femminista Carol Hanisch The Personal is Political.§
[3] LINK Articolo consultato il 1° Aprile 2023.
[4] “Let’s hope that New York City’s financiers pursue the implications of Ukeles’s maintenance art. If the Department of Sanitation, for instance, could turn its regular work into a conceptual performance, the city might qualify for a grant from the National Endowment for the Arts.” LINK Articolo consultato il 1° Aprile 2023.
[5] Ne sono un esempio Sanman Speaks, colour, sound, 58:21min e Waste Flow, color, sound, 57:37 min. LINK Consultato il 1° Aprile 2023.
[6] LINK Consultato il 1° Aprile 2023.
[7] Il titolo di questa prima parte di progetto espositivo era Transfer Station Transformation.
Bibliografia
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Casalini B., Care e riproduzione sociale. Il rimosso della politica e dell’economia, in «Bollettino telematico di filosofia politica», 2016. Consultato il 1° aprile 2023. Disponibile al LINK.
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Finkelpearl T., Dialogues in Public Art, MIT Press, Cambridge (MA) e Londra 2000.
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Serughetti M., Democratizzare la cura / Curare la democrazia, Nottetempo, Milano 2020.
Steinhauer J., How Mierle Laderman Ukeles Turned Maintenance Work into Art. «Hyperallergic», 10 febbraio 2017. Consultato il 1° aprile 2023. Disponibile al LINK.
Tronto J. C., Moral Boundaries. A Political Argument for an Ethic of Care. Routledge, Londra e New York 1993.
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Deborah Maggiolo è curatrice indipendente e ricercatrice con base a Milano, co-fondatrice delle associazioni culturali Genealogie del Futuro e Sympoietic Society. I suoi interessi intrecciano ecologie postumane, politica femminista della cura e pratiche di attivazione comunitaria in una (ri)lettura critica e speculativa del presente. Ha proposto e coordinato progetti curatoriali ed editoriali, in spazi indipendenti e istituzionali; collabora con fondazioni culturali e associazioni nazionali e internazionali.