Piante che crescono in luoghi inconsueti
Ci sono erbe che non vede nessuno. O meglio: ci sono piante che vengono viste solo come fastidiose. Non stanno al loro posto, non crescono negli spazi che la città moderna del ventesimo e ventunesimo secolo ha loro destinato. Si cercano lo spazio vitale nelle crepe, nelle incrinature della levigata pellicola di asfalti e cementi che glassa le metropoli. Sono abili in questo non perché hanno messo a punto strumenti appositi nel corso delle lotte per l’esistenza con le città moderne, ma perché usano strategie affinate in passato, nelle praterie e nei campi coltivati, a contatto con le forme di colonizzazione della natura che gli uomini hanno sviluppato dal neolitico fino a poco più di un secolo e mezzo fa. Nessuno le vede, eccetto i soggetti pagati appositamente e incaricati di estirparle e di impedirne la crescita in alcuni selezionati luoghi. Nelle loro crepe sopravvivono guardinghe e invisibili. Forse in attesa.
Ne parliamo a scuola
In classe ne abbiamo parlato. Già in prima elementare avevamo imparato a riconoscere la piantaggine, il trifoglio, la borsa del pastore, capaci di crescere un po’ dappertutto nel cortile della scuola e anche di spingersi sul marciapiede fessurato o di rispuntare dietro il muretto. Un’esperta di piante medicinali travestita da fata dei boschi aveva spiegato ai bambini che le foglie della piantaggine hanno proprietà antinfiammatorie e antisettiche e da allora l’angoscia di ogni ferita e sbucciatura procurata in cortile poteva venire alleviata attraverso la fasciatura con le sue foglie quasi magiche. Ora però siamo in quarta, c’era l’occasione di spingere lo sguardo oltre i confini della scuola, a scoprire con occhi non stereotipati la città che vive attorno a noi. Così abbiamo parlato un po’ di queste piante e della città, della loro lotta per sopravvivere e della loro forza. Alcuni le avevano già notate, altri erano pronti a farlo. L’incarico per il fine settimana era di cercarle, notarle, fotografarle, accogliere la loro esistenza dentro le mura a volte rigide della nostra conoscenza e consapevolezza. L’invito ha funzionato e sono arrivate a scuola fotografie di questo mondo prima invisibile, una galleria di immagini della natura che si insinua.
Allora ne abbiamo riparlato liberamente: «Dove le hai trovate?» «Questa cresce sul tetto del garage»; «sotto quelle grate in piazza Carducci c’è un vero bosco»; «arrivano lì con i semini portati dal vento o dalle api», «ma noo, le api portano il polline, sono gli uccelli che mangiano i semi e poi fanno la cacca»; «le mie erano piante del giardino che avevano spinto le radici sotto il muretto ed erano rispuntate fuori dall’altra parte», «quelle nei tombini sono contente perché hanno sempre acqua», «sotto la grata all’uscita dell’aula ce ne sono alcune da tanto tempo».
Così è stato facile passare allo storytelling con immedesimazione. Quale pianta vuoi essere? Scegli quella che hai fotografato, oppure quale? Pronti, via.
Le «nostre» piante
Le piantine cresciute sulle pagine di quaderno dei bambini non sono diverse dalle altre, anche loro hanno bisogno di luce e di acqua, come l’orchidea e il peperone.
«Di mattina io mi sveglio con il sole, che d’inverno il sole arriva alle 7:30, poi mi metto al lavoro cioè inizio a prendere il sole…»
Sono individualità forti e curiose:
«Io sono una pianta molto resistente sia al caldo e sia al freddo».
«Mi piace vivere perché è bello vedere i bambini e le bambine prendere il treno».
Le storie che emergono da questo gioco di immedesimazione sono diverse le une dalle altre:
«Io sono nato vicino a una ringhiera che è vicino a un parco».
«Io sono caduta da un fiore e probabilmente il vento mi ha portato via. Quando c’è il sole io mi apro…».
«Ho le foglie simili alla ninfea ma sono più piccolina».
«Io sono una pianta che sta tutto il giorno a testa in giù».
Tutte quante conducono vite faticose, ma piene di dignità:
«Visto che per gli uomini sono un’erbaccia, nessuno mi annaffia (sarebbe bello), quindi la mia unica risorsa d’acqua è la pioggia, perché voi sapete che se non ho acqua muoio»;
«gli umani mi chiamano erbaccia perché non fornisco cibo per gli umani ma io sono una pianta qualsiasi come tutte».
Lottano giorno per giorno per sopravvivere:
«Io sono una piantina non tanto alta tutta verde che mi sono intrufolata e attaccata al muro. Non c’è molto nutrimento, ma riesco a vivere…».
Alle volte emerge una parvenza di coscienza orgogliosa della propria storia e identità:
«noi piante ci dividiamo in due categorie, quelle da giardino e quelle selvagge»,
in questi casi conoscono bene la gerarchia che noi umani abbiamo instaurato tra di loro, che le condanna a una vita pericolosa e piena di stenti:
«quando ero in quel giardino era bellissimo perché era pieno di fiori, erano tutti in fila; il mio semino era in mezzo alle file. Tutti sapevamo che un giorno prima o poi ci avrebbero ucciso, cioè staccato le radici. Loro credono che noi siamo erbacce, quindi non c’è niente da fare, però se potessi essere un’altra pianta, non un’erbaccia per gli umani, mi farebbe piacere, almeno non mi ucciderebbero».
Altre volte invece patiscono la perdita della memoria, e con essa di parte della coscienza di se stesse:
«Io sono caduta da un fiore e probabilmente il vento mi ha portato via (come seme). Per me è difficile sopravvivere senza memoria»;
«non mi ricordo di mia mamma perché il vento mi ha fatto sbattere la testa e ho perso la memoria».
La maestra Pierina
Non è certo nuova l’idea di mostrare ai piccoli (bambini) le piccole (piante). Pierina Boranga ne trasse tre libretti dal titolo generale La scuola e il fanciullo, dedicati alle piante dei muri (1925), della strada (1927) e delle siepi (1940) che divennero dei classici della scuola elementare nel ventennio e soprattutto nelle ristampe del secondo dopoguerra. La maestra Pierina, subito dopo la conclusione della Grande guerra, insegnava a Milano e aveva ottenuto il trasferimento alla scuola messa in piedi da Giuseppina Pizzigoni, la cosiddetta Rinnovata, improntata a un metodo molto attivo per l’epoca e a contatto con il mondo naturale. Vi insegnò per dieci anni e ne trasse esperienza e spirito innovatore che poi trasferì nelle scuole di Belluno. Nei libretti – nella scelta di organizzare passeggiate didattiche nel “regno del lastricato e dell’asfalto” alla scoperta delle erbe umili, solitamente ignorate ed escluse dall’orizzonte della didattica – trasmette l’idea di una scuola più attiva e a contatto con gli elementi della natura, da cui trarre modelli per il disegno, informazioni per l’educazione scientifica, suggerimenti per un uso giocoso. Le chiama “militi dell’asfalto”, effetto dell’immersione bellicista di quel ventennio.
Nessuna traccia ovviamente di un approccio “evoluzionista”: in quei libretti le qualità che consentono la sopravvivenza delle specie sono tutte di origine divina, a mostrare la razionalità e la perfezione del “creato”: “la natura è opera divina e la Provvidenza ha cura anche del filo d’erba a cui ha dato i mezzi non soltanto per vivere, ma anche per difendersi dai nemici della sua esistenza”. Eppure, più che l’ingenua fiducia religiosa, leggendo oggi quelle pagine mi colpisce il nostro analfabetismo di ritorno rispetto alla sapienza incorporata in quelle “creature”, che siano le nomenclature dialettali o scientifiche, o le geniali strategie di impollinazione e disseminazione.
Una vita difficile
Torniamo alle piantine di oggi, al vaglio dell’immedesimazione. Per alcune questa vita è tutto ciò che possono attendersi:
«Io sono una piantina che è nata in un tombino. La mia vita non è dura, il tombino mi fornisce l’acqua necessaria per vivere. Il tombino ha delle fessure dove il sole può passare e così fornirmi la luce di cui ho bisogno».
Vivono nelle crepe, nelle nicchie, con qualche rimpianto solo accennato:
«Se penso alla mia crescita è stato difficile perché le mie radici sono bloccate nella crepa stretta del palazzo. Quando ero più piccola ci stavo più bene nella crepa perché avevo le radici più piccole»;
«Spero di spostarmi da questo lampione perché ho le radici troppo piccole per diventare adulto credo che se sto per tutta la vita nel lampione non diventerò tanto grande, a meno che non prenderò tanta luce…»
Per altre il desiderio di migliorare la propria condizione emerge chiaramente, a volte tingendosi dei tratti del sogno:
«Io sono cresciuto in un angolo in mezzo a delle mattonelle, forse di un marciapiede (…) A me piace stare lì però speravo di trovare di meglio».
«Mi piacerebbe essere nata in un giardino con qualcuno che mi curasse e che mi dà da bere».
A volte sono costrette alla solitudine
«Io lì sono un po’ solitario ma credo che posso resistere»
ma sono anche intraprendenti, e spesso sanno trarre forza dal non sentirsi sole:
«Io sono nata lì vicino a un palo e a un cemento; mi piace molto perché ci sono molte altre piante accanto a me».
«… per vivere prendo il sole così mi abbronzo e quando arriva un seme sono felice così non sono più da solo»;
«quando sono in difficoltà chiedo aiuto alle mie amiche e io aiuto loro perché fra piantine ci si aiuta e adesso viviamo in pace e armonia. Gli umani alcune volte ci pestano e questo ci dà un po’ di fastidio ma noi sopravviviamo e se ci fanno male noi reagiamo, ci mettiamo tutte insieme e ci aiutiamo».
I miceli che vivono in simbiosi con le radici danno loro la possibilità di comunicare:
«Io riesco a parlare con le altre piante mie amiche attraverso a un altro tipo di piante che sono dei funghi dove ci sono delle cordicine attaccate alle mie radici che ci permettono di avvisarci quando ci sono i pericoli»;
«Le mie piante amiche sono collegate con le micorrize, delle linee di comunicazione sotterranee dove posso parlare».
Quante paure però a vivere in maniera così precaria e clandestina:
«Quando sono diventata grande le foglie iniziavano a uscire fuori dal tombino e allora avevo molta paura delle persone che mi calpestassero».
«Le mie paure sono che gli umani mi strappino via o mi calpestino o se no che mi mangi un uccello».
«Io ho un sacco di pericoli tipo: ci sono dei signori che con una specie di pala ci tagliano, oppure la neve, anche con quegli oggetti che soffiano aria calda per spostare le foglie…»;
«Anche la neve mi fa morire perché è un cuscino gelido»;
«Morire secca vuol dire che per un po’ di giorni non piove e rimango senza l’acqua».
La volontà di giustizia e di uscire dalla precarietà emerge anche scardinando la regola del gioco di immedesimazione e perfino quella del funzionamento della natura:
«A volte penso di essere un umano e di proteggere tutte le piante».
Metafore indolenti
Richard Mabey, in un fantastico libro – Elogio delle erbacce – indica in Dürer il punto di svolta pittorico che sancisce l’ingresso delle “male erbe” nel mondo dell’arte: «Un cespuglio di erbacce osservato con tale reverente attenzione che avrebbero potuto essere i fiori dell’Elisio». Erbacce definite spregiativamente tali perché non funzionali, perché disturbanti, perché irrispettose dei confini umani, capaci di lottare per la propria sopravvivenza a dispetto di tutti i tentativi umani di estirparle definitivamente. Il ranuncolo o campanella ha sviluppato nei millenni, nel suo corpo a corpo con l’agricoltura, la capacità di moltiplicarsi per effetto del taglio delle radici, perché ogni volta che il fittone viene sminuzzato raddoppia il numero di piante potenziali che può generare, trasformando le azioni del contadino dall’intento distruttivo in opportunità a suo favore.
Gli uomini si sono sbizzarriti nel tempo a caricare queste piante delle etichette più deteriori, presentandole come brutte, malvagie, gracili, additandole al disprezzo e alla demonizzazione, quando non alla invisibilità. La parola «erbaccia» è divenuta metafora usata in retoriche stigmatizzanti, come quella citata dallo stesso Mabey riferita ai bambini timidi e gracili. Ma loro sono pronte a lavorare in silenzio, a riconquistare al «naturale» gli spazi che gli uomini abbandonano, come i campi incolti, gli edifici diroccati e dismessi, le città fantasma. Da lì queste piante maledette, ancelle della rivincita della natura, riprendono lentamente possesso dei templi della dissennatezza umana come Pripyat vicino a Chernobyl o Centralia in Pennsylvania.
«Metafore indolenti non ne trarrò», scriveva il poeta, ma è difficile ascoltarlo. Oggi i piccoli silenziosi sconfinamenti di quelle erbette ci ricordano che le nostre città sono innaturali, spietate con quelle parti di noi stessi che rigettiamo fuori di noi, infatuati di consumi, egoismo e modernità. Queste piante sono evocatrici di significati potenti, si mettono a pensare con noi. Insegnare alle giovani generazioni ad ascoltare queste metafore, a mettersi nei panni di quelle erbe forse darà loro la forza e l’astuzia per provare in futuro a tirarci fuori da queste infatuazioni, per ritornare a vedere la catastrofe futura nella cecità che ci lascia indifferenti verso quelle erbette – reali o metaforiche – che attraversano i nostri «sacri» confini di cemento.
Gianluca Gabrielli è storico e insegnante di scuola primaria. Il suo ultimo libro è Educati alla guerra. Nazionalizzazione e militarizzazione dell’infanzia nella prima metà del Novecento (Ombre corte, 2016), dal quale è tratta l’omonima mostra. Con Davide Montino ha curato La scuola fascista. Istituzioni, parole d’ordine e luoghi dell’immaginario (Ombre corte, 2009) e con Alberto Burgio è autore di Il razzismo (Ediesse, 2012). Ha inoltre pubblicato Il curricolo “razziale”. La costruzione dell’alterità di “razza” e coloniale nella scuola italiana (1860-1950) (Eum, 2015). Ha contribuito alla realizzazione delle mostre La menzogna della razza (1994), I problemi del fascismo (1999), Il mito scolastico della marcia su Roma (2012).