Vuoto apparente
Lo spazio vuoto di Yasmeen Godder
Danzare rovistando tra scaffali della memoria, oggetti della cronaca e immagini di morte
di Paolo Ruffini

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Nessuno sa tutto, ognuno sa qualcosa, la totalità del sapere risiede nell’umanità.
Pierre Lévy, L’intelligenza collettiva

 

Nella cultura ebraica lo Tzimtzum corrisponde al ritrarsi di Dio in se stesso, potremmo dire un ritirarsi nelle sue sconfinate profondità, una sfida oltre la Sua immanenza che rende possibile la creazione e la sua manifestazione anche attraverso la volontà dell’uomo, se è vero (come è vero) quanto scrive Abrahm Joshua Heschel che ogni opera creata è lì per soddisfare il bisogno che Dio ha dell’uomo. Svuotarsi per dedicarsi, dunque. Dio, così, si impone un limite, si sottrae e crea un vuoto per permettere l’esistenza del mondo. Il nascondersi di Dio oltre a simboleggiare l’esilio del popolo di Israele, al chiudersi anch’esso per tenere salda la propria identità, ribadisce di fatto un impegno nel mettersi a disposizione dell’uomo obbligandolo alla responsabilità verso se stesso. Il vuoto, quindi, è un’opportunità, un dono in cui pratica e pensiero preesistono: uno spazio della mancanza, spazio della propria autodeterminazione, spazio riempito da forme al di là della nostra attrazione o sopravvivenza allo stesso. Il vuoto in quanto dono, come scrive Jacques Ellul a proposito di Qohèlet, è quella opportunità per l’uomo che «davanti all’opera di Dio tace o la evoca solo in modo indiretto»1. Ma la sottrazione all’esistente è anche un gesto affermativo, un motivo non propriamente linguistico ma una rappresentazione. Sulla negazione e le immagini Paolo Virno ci ricorda che nel tentare di definire il significato di un’immagine mentale, mentre coincide col suo riferimento, nessun fenomeno può dirsi davvero interiore e nemmeno davvero esteriore. In quell’apparente svaporamento delle azioni «lo stato di cose che percepisco o ricordo o prefiguro non gode di alcuna autonomia rispetto al corrispondente atto percepito, mnemonico, prefigurativo»2. Sulla potente assenza della presenza di Dio (così percepita dall’uomo) uno spettacolo come Sul concetto di volto nel Figlio di Dio del regista Romeo Castellucci ci racconta molto della tentazione idolatrica dell’arte. Un passo à rebours nel suo “discorso” iconoclasta per un ritorno in verità, Castellucci sembra scontornarlo dal contesto biblico e usarlo per un suo innesto nella superficie cristologica che riverbera uno spazio senza figura. Maria Bettetini, nella sua lettura dell’Esodo, ci ricorda che «non ci sarà per te altri èlohim sulla mia faccia», quando cioè Moshe percepisce la presenza di Dio ma non può vedere la sua faccia, ovvero l’ammonimento al non farsi copie dalla realtà e persino tentare di imitare il Creatore, dunque nel tentare di sostituire lo spazio del divino, la narrazione del divino con la figura; ogni luogo di Dio, ogni Sua manifestazione «non lo rappresentano, sono metafora e non metonimia: parlano di Dio, ma non svolgono le sue funzioni e non sono sostituibili a Lui o a una sua parte»3. Ma un’altra opera della Socìetas Raffaello Sanzio, e in tempi decisamente anticipatori, aveva posto la questione della nullificazione dello spazio (e della figura) toccando forse con assoluta dissoluzione degli schemi retorici della “rappresentazione” il punto più alto della composizione scenica nel superamento del postmoderno. L’indagine, allora, già offriva una possibilità dello spazio neutro tra l’essere e la creazione ex nihilo; quell’Amleto ha definitivamente posto un limite invalicabile oltre il quale sarebbe sciocco tentare una sua qualsivoglia collisione con le esperienze di frantumati display e di finte scatole sceniche che lo hanno preceduto. Persino banale ricorrere ad Artaud (mito e feticcio dei più in costante recupero di posizione retorica), o anche soltanto alle stigmate della crudeltà – nella superficiale lettura che ne è stata data, per rivendicare un passo non scontato di ciò che intendiamo per indagine. La scena rovista tra lo svuotamento testuale e una visionarietà incorporata, come ci ricorda Annalisa Sacchi proprio a proposito dell’Amleto della Socìetas: «Perché evacuata la sua parola, il corpo di Artaud rientra in minore sul palco. Il suo corpo svasato dall’elettroshock (Genesi. From the museum of Sleep), la bocca torturata delle ultime immagini, il balbettio delle glossolalie che sono già oltre la lingua (Amleto). Anche in questo senso la SRS delimita per sé un luogo avulso rispetto al chiacchiericcio teatrale su Artaud, strappa il fondo alla sostanziale indifferenza che, mentre evoca la peste artaudiana, ricade poi nella rigidità catatonica della rappresentazione (con la finzione dello strazio, della mortificazione, della vergogna e dell’abiezione»4 Questo rientrare “in minore” del corpo (ma si potrebbe dire del pensiero scenico applicato allo spazio) è l’aspetto, la condizione per accedere in quel “luogo avulso” che non è più solo del reale organizzato e non è ancora, e non lo sarà mai vita enunciata, quel corpo-pensiero “in minore” esorbita di materie residuali, di spezzoni e metafore dell’esistente, oggetti che rimarcano la loro memoria indipendentemente dall’uso che se ne fa, dal posizionamento che occupa nella quotidianità delle persone. Il tentativo è quello di compiere un gesto ordinario al servizio della memoria, un prelevamento operato su altre opere o frammenti di esse che permangono come spazio fisico prima ancora che immateriale, resistono all’usura e per questo entrano a far parte dei reperti, degli oggetti, delle immagini che nella loro «densità figurativa» contribuiscono a creare una estensione del reale e dei suoi tracciati di autenticità. In questa diagonale che tiene assieme documento del reperto, oggetti nel vuoto dello spazio della memoria e residuo, traccia, citazione del contemporaneo Yasmeen Godder pone un’ulteriore sfasatura del senso. Coreografa-intellettuale israeliana di straordinaria coerenza poetica, è tra le poche esperienze contemporanee a mostrare un orizzonte di contenuti non scontati.

Immagine

Yasmeen Godder, Strawberry Cream and Gunpowder
Foto di Tamar Lamm

Parafrasando Maurice Merleau-Ponty, si potrebbe dire che i suoi contenuti, il suo lavoro scenico sono destinati a esistere come cosa davanti ai nostri occhi in quanto coscienza incarnata del movimento che si muove nella direzione di una realtà alterata, la quale evidenzia la problematica di una lingua che non è più naturale ma non è ancora, e forse non lo sarà mai, artefatta. La sua lingua, o meglio il suo vocabolario, è stata in un primo tempo incentrata sul disturbo, sulla fredda messa in mostra delle emozioni esasperando l’espressività del danzatore. Mentre, oggi, è “ordinato” da scarti di senso lasciati depositare sul terreno del conflitto senza effetto di salvezza; forse si tratta soltanto di un’altra esplorazione del sentimento con una buona dose di feroce autoironia che si aggiunge al discorso sulla percezione da lei perseguito spostando sul palcoscenico il lavoro relazionale di Sophie Calle. Dalle micropartiture facciali alla segmentazione del movimento, che trovava riflessi e distonie sia dal gesto che dalla partitura fisica, abbiamo assistito in questi anni a uno spostamento drammaturgico amplificato da una preoccupazione sempre incipiente di osservazione del corpo, una indagine che ne sveli la nervatura, la filigrana – l’altra faccia insomma – dell’essere strumento sociale. È un’attitudine costante della Godder, per esempio, quella di indagare il femminile come un territorio volutamente sconnesso e popolato da figure emozionali che si lasciano attraversare dall’estro fisico oppure da un’esuberanza capace di mettere in crisi qualsiasi ordine di linguaggio coreografico. O anche, da una dismisura alla David Lynch esternata nei caratteri più che nella evidenza figurale dei danzatori. Caratteri, messi a disposizione in uno spazio spettacolarizzato dove tutti, a partire dagli “attori” in scena, non hanno chiaro quale sia il patto da condividere e quale sia il vero rischio da correre. Dunque non esiste un solo punto prospettico della scena per la Godder la quale sovrabbonda, come nel cinema di Lynch o nella grafìa pittorica di Bill Viola, di convincimenti soggettivi e logiche di insieme e dove i protagonisti si lasciano “raccontare” affollati da fantasmi che arrivano da un archetipo (magari anche pop) o si affacciano con forza dalla stringente contemporaneità (il reenacment dell’elettronica o del folk, come nel caso di James Blake o Devendra Banhart, o le ombre espressioniste della cronaca). Il corpo resiliente di Yasmeen Godder, in tal senso, ha quella capacità di definirsi non per sottrazione o svuotamento ma per valore aggiunto in opposizione all’omologazione del linguaggio coreografico attuale, ri-mettendo in discussione il concetto stesso di attualità nel momento in cui non viene meno un ancoraggio alle proprie radici e alla propria storia. Si evidenzia così uno stare sempre in uno stato di allerta percependo altre presenze in scena, quelle immateriali quasi fantasmatiche degli archetipi e quelle più fluide, mobili dei corpi che sopraggiungono sulla scena, che poi è il materiale dell’esperienza personale di ogni singolo danzatore che porta con sé come fotogrammi cinematografici. Difatti «il cinema è un mezzo che ha sempre affascinato Yasmeen Godder»5, scrive Liora Bing-Heidecker, riferendosi a quella stratificazione di immaginari che interferiscono sul senso dei suoi spettacoli. I danzatori si indagano, accennano di sfuggita a una complicità; quasi sempre assistiamo a liturgie di seduzione e di sopraffazione. E tutto è portato all’estremo tanto più se le ragioni appartengono a quella sfera del femminile, come detto sopra, perché nel femminile la Godder riconosce una eversione potenziale rispetto al fallico adeguamento alla norma del corpo maschile. Sono figurine alla André Derain o alla Ernst Ludwig Kirchner, e rivelano un’attitudine a una sorta di esplorazione antropologica delle relazioni attraverso la “esposizione in movimento” del corpo, rovesciando in questo modo il paradigma della danza per individuare nel movimento, o anche soltanto nel gesto, l’aspetto meno frequentato, il dettaglio non rivelato, il margine, il confine (o il diaframma) nascosto della persona che mostra senza pudicizia questo “limite”. L’impossibilità alla menzogna del bien fait nel corpo coreografato obligano lo spettatore a seguire un certo sgretolamento delle forme, sebbene la Godder abusi di codici della danza e li metta in evidenza provocatoriamente nell’attimo stesso della loro dissoluzione. In altre parole, accenna alla struttura della danza ma nella sua dimensione di spazio avvertibile, esperibile, che non lascia alcuna traccia, se non nella transitorietà di un corpo resiliente, ovvero pronto a modificarsi nell’atto dell’esecuzione. Il codice coreografico, con il suo pieno di informazioni, diventa per la Godder una tabula rasa, materia potenziale, uno spazio vuoto da abitare per assimilazioni e nuovi esuberi. Lo spettacolo è un pretesto, un contratto con lo spettatore che ben riconosce l’inclinazione ad appropriarsi di icone della danza consumate, pronte a svelarsi nel fallimento della loro enunciazione. Una paradossale iperfetazione di accessori posticci da capitalismo cinese, fatta anche di respiri, intromissioni sonore, balbettii ironici o da consumo rumorale, come lo chiamerebbe l’antropologo Iain Chambers, dove «sospesa la pausa, la musica procura un taglio sul corpo del senso comune. Il desiderio di comunicazione trasparente è eluso, la rappresentazione razionale subisce un trauma»6. Il fuori-fuoco del cinema è per Yasmeen Godder uno straripamento della significazione gestuale verso l’abisso interiore dei danzatori, messi alla prova di un gioco che è allo stesso tempo un “divertimento” e un “giogo”, perché lì si inasprisce la tensione coreografica attraverso la quale ogni interprete riesce a trovare una propria libertà creativa, sebbene l’abisso al quale si allude appaia nella costruzione coreografica come un sottotesto, una traccia nascosta nella “confezione” metafisica, inorganica dell’opera. Pertanto un nascondimento. Materiali inerti in cui la Godder fa riverberare un “debito” puramente concettuale. Sono perifrasi sociali e, come scrive Maurizio Ferraris nel suo Documentalità, «all’origine della costruzione di oggetti sociali ci sono atti sociali fissati attraverso la memoria, anche più e ancor prima che espressi dal linguaggio. Infatti, possiamo immaginare oggetti sociali che vengono costituiti anche in assenza di linguaggio»7. Il vuoto riempito di una perifrasi figurativa che diviene “politica” o, come lei stessa ama sottolineare, una tensione politica del corpo, uno sguardo liberato dalla pura forma, una osservazione di sé rovesciata e debitrice di un immaginario che si autoalimenta senza subire la fascinazione del proprio tempo, optando invece per una rifrazione originaria fra azione e intenzione in grado di configurare un suo mondo, una “bolla” direbbe il filosofo Peter Sloderdjk che tutto contiene e fa vivere, una cornice che separa, “distingue” dal resto, l’esterno; è un modo per confrontarsi col tempo disatteso, con l’inevitabilità del caso che i corpi dei suoi danzatori portano con sé. È probabilmente per questo che la sua danza risulta incauta e dura, lasciandoci appena il sapore di un inquieto nomadismo del corpo femminile indagato.

Nel suo più che decennale percorso un capitolo a sé stante è lo spettacolo Strawberry Cream and Gunpowder; spettacolo totem che amplifica il silenzio del tempo storico e la percezione di quel corpo scenico in transito. Qui il vuoto si configura nella successione ossessiva di tableau vivant, la sua attenzione si concentra sugli accadimenti tragici che ciclicamente tornano ad affacciarsi in Israele, e che sottratti al voyeurismo dei media si caricano dello stupore del dolore. Queste fonti figurative, estrapolate dalle fotografie dei giornali, sono vere e proprie istantanee delle atrocità che attentano lo spazio civile del vivere quotidiano, e che in Strawberry assurgono a icone iperrealiste di un collettivo e catartico rito di passaggio. I danzatori, come emersi dalla scultura monumentale di Pascal Convert (Sans titre – ispirata a una veglia funebre in Kossovo) si avvicendano sul palcoscenico, componendo fermo-immagini che hanno la durata dell’istante. Si tratta proprio della costruzione di una durata – prendendo in prestito il pensiero di Georges Didi-Huberman – declinata attraverso un particolare rapporto tra storia e memoria, presente e desiderio. E questa costruzione, questo emblema temporale dell’immagine si scontra con gli ostacoli della consuetudine, rovescia dunque la realtà trasfigurandola e rendendola puro potenziale, non esauribile, non risolvibile. La massa dei corpi in conflitto, l’ostacolo di quei corpi ci chiama a un approccio fisico disorientandoci, perché quelle immagini del dolore a squarciagola che urlano e strepitano e protestano davanti ai nostri occhi ci riportano sì a un muro del pianto, a “bocche senza freno”, alla “stoltezza senza Legge” e alla “sventura” come nel vocabolario tragico di Euripide ne Le Baccanti, ma soprattutto all’immagine affrancata dal suo dover divenire altro da se stessa; dalla sua inequivocabile e consumabile pienezza.

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1 Jacques Ellul, La ragion d’essere. Meditazioni sull’Ecclesiaste, Edizioni Fondazione Centro Studi Campostrini, Verona 2013, p. 262
2 Paolo Virno, Saggio sulla negazione, Per una antropologia linguistica, Bollati Boringhieri, Torino 2013, p.48
3 Maria Bettetini, Contro le immagini. Le radici dell’iconoclastia, Editori Laterza, Roma-Bari 2006, p. 64
4 Annalisa Sacchi, Shakespeare per la Socìetas Raffaello Sanzio, Edizioni ETS, Pisa 2014, p. 46
5 Liora Bing-Heidecker, Stirring the grottesque, in Droit Gur Arie and Avi Feldman (a cura di) Extremum reflection on the work of Yasmeen Godder, Petach Tikva – Museum of art, Asia Publishers, Tel Aviv 2014, p. 42
6 Iain Chambers, Mediterraneo blus. Musiche, malinconie postcoloniali, pensieri marittimi, Bollati Boringhieri, Tornio 2012, p. 52
7 Maurizio Ferraris, Documentalità. Perché è necessario lasciar tracce, Editori Laterza, Roma-Bari 2009, p. 183

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Paolo Ruffini, operatore culturale esperto della scena contemporanea si è occupato di teatro e danza per magazine e quotidiani. Autore di alcuni libri e curatore della collana “Spaesamenti” per Editoria & Spettacolo, è nel comitato scientifico della rivista Periaktoi e scrive per Hystrio. Nel biennio 2006-2007 è stato condirettore artistico di Santarcangelo – International festival of the Arts, successivamente nelle stagioni 2008 e 2009 è stato assistente del direttore del Teatro di Roma.