Nel saggio De Senectute, Francesca Rigotti identifica la vecchiaia come un topos filosofico che ha affascinato i filosofi e le narrazioni popolari fin dall’antichità. Platone nella ‘’Repubblica’’ considerava la vecchiaia come una benedizione (Rigotti, 2018) poiché permetteva agli anziani di dedicarsi interamente alla filosofia dopo aver abbandonato gli ardori della gioventù. Questa prospettiva, sostiene Rigotti, apparteneva esclusivamente agli uomini, mentre alle donne non più fertili spettava il dovere di rilegittimare il loro ruolo all’interno della società, non più come madri ma come levatrici, aiutando le altre donne a adempiere al compito della procreazione.
Nonostante nella contemporaneità questa dicotomia sembri in parte essere stata scardinata, il topos della vecchiaia rimane rilevante ed è stato dissezionato da due donne che hanno sperimentato sulla propria pelle una sorta di epifania, facendo del loro corpo un medium per parlare della vecchiaia.
«Poi lo sguardo si spegne. Succede, un giorno qualsiasi, in una qualsiasi occasione. Te ne accorgi per caso, magari non subito; sei in tram o in ufficio, a una festa, per strada, non importa, ma senti che non c’è più nessuno che ti scelga tra la folla, sei una presenza opaca tra tante, forse, perfino invisibile. Non sapresti dire quando è iniziato perché vai sempre di fretta, sei distratta e corri, corri da sempre: da una certa età in poi, la velocità tende ad abbandonare i muscoli ma resta il ritmo che scandisce la vita. Non è facile ammettere che ti dispiaccia non essere guardata. Ma ancora più complicato è fare i conti con quello che l’invisibilità comporta. Una minaccia non più alla propria incolumità ma alla stessa identità» (Caputo, 2009).
È con queste parole che la scrittrice femminista Iaia Caputo nel saggio Le donne non invecchiano mai, ritrae il momento cruciale in cui, giunto il cinquantesimo anno di età, si accorge improvvisamente che nella vita quotidiana lo sguardo degli uomini – che aveva combattuto per anni – comincia a non posarsi più su di lei e sul suo corpo. Nel momento in cui entra in una stanza, avverte di non essere più catalizzatrice del desiderio, ma solo un’anonima signora di mezza età rallentata dai primi acciacchi.
Questa amara epifania sorprende Caputo, che reagisce cercando di redimersi dal profondo turbamento generato da questa nuova condizione, mettendo nero su bianco i sentimenti che aveva provato in quel preciso istante: il gelo interiore, la sensazione che una parte di lei fosse stata amputata (Caputo, 2009). Poi prosegue con un’analisi approfondita, interrogandosi su cosa significhi invecchiare per una donna nell’età contemporanea. Schiera il suo corpo politico al centro, evidenziando le contraddizioni di una società profondamente gerontocratica, che investe di credibilità solo chi rientra nella soglia degli anta, ma che, al contempo, è votata alla ricerca dell’eterna giovinezza per mantenere intatti l’influenza e il potere, attraverso il ricorso a creme anti age, sieri sempre più performanti, e a interventi di chirurgia estetica.
La pubblicazione del libro che avviene nel 2009, in piena era Berlusconiana, vede Caputo scagliarsi con fervore sul largo impiego nella televisione italiana della figura della velina negli show di prima serata. La scrittrice traccia un ritratto della giovane donna compiacente, sempre sorridente e quasi sempre muta, che si muove a ritmo della musica pop e ammicca costantemente alle telecamere e allo spettatore.
All’interno del saggio, nel quale vengono scandagliati episodi della società di quegli anni, sono incluse anche alcune vicende appartenenti alla scrittrice e confidenze rivolte alla stessa dalle donne a lei vicine. L’autrice fa riferimento all’organizzazione di una cena a cui si aggiungeranno un uomo e una donna, entrambi single di mezza età: se nel caso dell’uomo i commenti saranno pieni di curiosità sul suo aspetto fisico e sulla carriera, nel caso della donna seguiranno giudizi negativi e stereotipi, battutine caustiche che la vedranno come in «disperata ricerca di qualcuno» (Caputo, 2009).
Ammettendo a sé stessa una sorta di dipendenza dallo sguardo maschile, l’autrice si chiede: «è possibile che sia ancora il loro sguardo a stabilire chi e cosa siamo?» (Ivi, p. 90).
Quando finalmente non ci si deve più preoccupare di avere una risposta pronta per inveire contro l’uomo che fa catcalling, o agli sguardi indiscreti, nel momento in cui l’aspetto fisico di una donna cessa di essere scrutato per giudicarne la sua conformità agli standard di bellezza, è possibile che ci si senta improvvisamente smarriti quando una delle costanti che aveva da sempre accompagnato gran parte della vita, viene meno?
È lo sguardo altrui, l’essere riconosciute, che legittima la presenza di una donna all’interno di uno spazio?
Nella prospettiva culturale dominante, la validità e l’esistenza di una donna sembrano intrinsecamente legate alla sua capacità di suscitare desiderio negli altri.
Tale riduzione della sua esistenza la confina a un ruolo di mero oggetto, un medium sul quale proiettare il proprio desiderio. Quando questo viene meno, la donna sembra scomparire, entrando in una sorta di zona grigia.
In questo limbo la donna si trova costretta a scegliere tra quelle che Rigotti definisce ‘’amorevole nonnina’’ o ‘’irriducibile donna’’, l’una che accetta di invecchiare, l’altra che rifiuta di farlo e che per questo viene derisa (Rigotti, 2018).
Caputo, infine, paragona il raggiungimento dei Cinquant’anni a una nuova adolescenza, nella quale si rivive l’esperienza di un nuovo corpo che si stenta a riconoscere. Questa visione dischiude un orizzonte finalmente più pacificato, in cui la donna riacquista consapevolezza e non sente più la necessità di dimostrare nulla giungendo, dunque, alla riconciliazione con la propria persona.
Il testimone di questi tumulti interiori è stato poi raccolto da una donna che ha fatto dello sguardo la sua pratica artistica: Cindy Sherman.
Nella sua serie di autoritratti intitolata Aging Gracefully del 2016, esposta nella celebre galleria Metro Pictures di New York, Sherman si presenta di fronte all’obiettivo vestendo i panni delle dive del cinema dell’epoca d’oro di Hollywood, ormai invecchiate.
Le 16 fotografie a grandezza naturale, stampate su una lamina di metallo, sono brutalmente illuminate dai riflettori montati sul soffitto della galleria, che mettono in rilievo ogni minimo dettaglio volutamente non ritoccato sotto la spessa base di make-up, comprese le rughe sul viso e sul décolleté, le sottili sopracciglia, celebri negli anni Venti che lasciano intravedere quelle vere dell’artista, la pelle discromica e assottigliata delle mani che mette in risalto le vene azzurrine.
Come in tutti i suoi lavori, le fotografie di Sherman sono ‘’untitled’’, cioè senza titolo,
tocca dunque allo spettatore assegnare il ritratto a una diva, lavorando con la propria memoria per attribuire la posa di Sherman a un certo stilema iconografico che costituiva l’immaginario all’interno del quale si muovevano Greta Garbo, Gloria Swanson o Bette Davis.
L’artista che è ed è sempre stata modella, direttrice artistica, e truccatrice di sé stessa, ha dichiarato di aver preso ispirazione dai film dell’Espressionismo tedesco, guardando al modo in cui venivano truccate le attrici per risaltare sullo schermo bianco e nero (Eckardt, 2016).
Le foto, scattate davanti a un fondo verde e poi editate, sembrano relegare le dive in luoghi non meglio definiti, blurrati [1], pesantemente manipolati, restituendone i ritratti decadenti e grotteschi, dive il cui fascino della gioventù ormai svanita le fa sembrare quasi posticce.
In oltre quarant’anni di carriera, Cindy Sherman ha costantemente respinto qualsiasi tipo di legame autobiografico con la sua opera, limitandosi ad accennare del suo rapporto conflittuale col padre. I suoi soggetti, hanno sempre emanato distacco, non permettono alcuna forma di immedesimazione. Con il loro sguardo incurante, non cercano empatia, non ne sono interessati.
Secondo Sherman, il compito di creare una storia con i suoi personaggi tocca allo spettatore, che al tempo stesso non deve lasciarsi ingannare creando una narrazione troppo complessa: ogni pelle che abita è una tabula rasa (Saltz, 2015).
Tuttavia, in occasione della mostra che celebrava il suo ritorno con nuove opere nel 2016, – ben quattro anni dopo dall’ultima serie – l’artista ha fatto trasparire in alcune interviste il suo turbamento riguardo l’età che avanza, sostenendo che la sfida, non consiste più nell’aggiungere rughe per sembrare più vecchia, bensì nel come utilizzare quelle comparse, con la consapevolezza che la gamma di personaggi da interpretare diviene sempre più limitata (Adams, 2016).
Questo svelamento ha portato alla luce una confidenza in cui l’artista si è mostrata per la prima volta vulnerabile, evidenziando la difficoltà nel fare pace con la nuova condizione, e di nuovo, come descritto da Iaia Caputo, l’esperienza di un corpo che sta cambiando in qualcosa di sconosciuto.
In un’intervista rilasciata per il The Guardian, Sherman ha poi aggiunto: «Penso che il mio lavoro sia stato spesso incentrato sul modo in cui le donne vengono ritratte nei media. Non si vedono molti ritratti di donne anziane nella moda e nel cinema. […] Se lo volessi, potrei anche avere un aspetto da centenaria, ma sembrare più giovane di cinquant’anni è ormai una forzatura» (Adams, 2016).
Betsy Berne, scrittrice e amica dell’artista, in una monografia a lei dedicata in occasione della mostra del 2016, ripartendo da quella espressione inflessibile che caratterizza gli autoritratti di Sherman, invita a una lettura diversa del corpus di fotografie: quello che potrebbe sembrare uno sguardo lontano, irremovibile, concentrato su chissà cosa, forse racchiude al suo interno una vita intera: «quello che è stato, che non è stato, che avrebbe potuto essere e l’accettazione di quello che c’è» (Berne, 2016).
Note
[1] Nel gergo della fotografia digitale, sfuocato.
Bibliografia
Adams T., Cindy Sherman: Why am I in these photos?, Intervista in «The Guardian», 2016. [accessible online]
Berne B., Cindy Sherman, Hartmann Books, 2016.
Caputo I., Le Donne Non Invecchiano Mai, Feltrinelli, Milano 2009.
Eckardt S., Cindy Sherman’s Latest Guise: Etreme Vulnerability, in «W Magazine», 2016. [accessible online]
Rigotti F., De Senectute, Einaudi, Torino, 2018.
Saltz J., Cindy Sherman, in «Flash Art», 2015. [accessible online]
Lucia Sabino (Melfi,1996) è una scrittrice e ricercatrice indipendente con sede a Milano. La sua ricerca si concentra sugli artisti visivi che adottano pratiche di hacking per sovvertire gli apparati di potere che dominano l’identità, la sessualità e l’autodeterminazione degli individui. Ha svolto una residenza presso la Biennale di Venezia per il progetto ‘’Mappa Geopolitica degli Artisti che hanno partecipato alle biennali negli ultimi 20 anni, dal 1999 al 2020’’ ed è stata borsista per i corsi di curatela ‘’Gender Trouble in Contemporary Art Curating’’ tenuto da Marina Fokidis presso l’Internationale Sommerakademie für Bildende Kunst, a Salisburgo, Austria; e ‘’For a Multitude of Futures’’ della fondazione Art Encounters, tenuto dalla curatrice Xiaoyu Weng tra Cluj-Napoca e Timisoara, Romania.