§Anche le statue muoiono
Il giorno che sparirono tutti
di Christian Piana

Introduzione
Nel 2003 a Pristina, nel Kosovo, ho conosciuto un ragazzino albanese di circa 13 anni, che, con la madre e le due sorelle più piccole, stava cercando di arrivare in Germania via terra, attraverso la ex Jugoslavia. Mi trovavo nella fatiscente stazione dell’autobus della città, in parte bruciata e in parte segnata dalle esplosioni, insieme a un gruppo di persone sconosciute, aspettando l’autobus che mi avrebbe riportato a Sarajevo. Quando il ragazzino si avvicina e mi chiede qualcosa in lingua albanese. Subito gli ho risposto: “mi dispiace non capisco”, ma lui: “ah sei italiano!”, e parlando perfettamente la mia lingua mi ha spiegato di aver vissuto in Italia e di esser tornato a forza in Albania da pochi anni. Mi ha indicato sua madre e le sue sorelle, sedute in un angolo, e mi ha detto che doveva portarle in Germania, perché là, aveva sentito, avrebbero trovato lavoro e gli avrebbero dato asilo. Poi ha iniziato a chiedermi informazioni sul viaggio, se i documenti che aveva erano quelli giusti e se con i 200 euro, che rappresentavano il totale dei suoi averi, sarebbe riuscito a farcela. Io non sapevo cosa rispondergli, non sapevo nulla, in realtà anch’io ero perso: avevo deciso di visitare il Kosovo durante i due mesi della mia permanenza nella Bosnia-Erzegovina. Ero stato a Mitrovica una settimana e in quel momento mi trovavo a Pristina nel tentativo, molto più avventuroso di quello che immaginavo, di tornare a Sarajevo, attraverso un autobus che non si sapeva se realmente sarebbe arrivato.
Quando era chiaro che non avrei potuto aiutarlo, ha iniziato a parlare in modo gentile e sorridendo dell’Italia. Mi ha chiesto da dove venivo, se era bello il luogo in cui ero nato e cosa pensavo del governo. Dopodiché ha ripreso le sue ricerche di informazioni parlando con altre persone. Il ragazzino era il capo famiglia, aveva la responsabilitá di un uomo grande e i suoi movimenti mostravano un senso di protezione e una maturitá sorprendente; era chiaro che la madre e le sorelle dipendevano da lui. Non avevo mai visto nulla di simile.  Quando l’autobus finalmente arrivó il ragazzino e la sua famiglia, come molte altre persone non sono potute entrare, da quello che ho capito non avevano i documenti per attraversare una regione (il Montenegro se ricordo bene). Prima di partire però é venuto a salutarmi e io, che non sapevo cosa fare, gli ho dato l’addio augurandogli buona fortuna. 

Questo incontro sorprendente è stata l’ispirazione per questo racconto, scritto a Sarajevo tra il settembre e il dicembre 2003, periodo in cui, per interesse personale, in maniera completamente indipendente e autofinanziata, ho voluto realizzare un reportage fotografico sulla guerra; o meglio su come un paese che ha vissuto un brutale conflitto si ricompone.
Durante il giorno registravo il lavoro svolto dall’associazione umanitaria che mi ospitava, mentre i fine settimana, i giorni di festa e le notti le passavo da solo, facendo lunghissime camminate per la città o lasciando passare il tempo nell’enorme edificio vuoto, sede dell’associazione, leggendo, sognando a occhi aperti, viaggiando con la mente e cercando di immaginare come un ragazzino avrebbe potuto vivere l’inizio di quel conflitto. Cosa avrebbe desiderato? Avrebbe forse desiderato che tutti scomparissero? Iniziai a dar forma alla fantasia di un giovanissimo abitante nei primi mesi guerra, rimasto l’ultimo essere umano sul pianeta. Iniziai a dargli una storia, un’avventura e a scriverla durante le ore vuote nell’associazione. Iniziai a immaginare che il ragazzino incontrato in Kosovo ne potesse essere il protagonista. Ho mischiato nel racconto inventato molte cose che ascoltavo e vedevo, ma anche molti ricordi ed elementi che in passato hanno fatto parte della mia vita.
Il tutto è risultato in questo testo, che ho voluto illustrare con polaroid fatte in parte durante le lunghe passeggiate a Sarajevo e in parte tra Roma e Milano nei mesi successivi al mio ritorno.

Luglio 2013
Christian Piana

1.
Quando si incominciò a parlare di guerra pensavo di sapere che cosa fosse; pensavo a fucili, cannoni e carri armati; ma una volta che la guerra iniziò, carri armati non se ne vedevano, in compenso sparì il pullman che ogni mattina aspettava in piazza per portare le persone al mercato nei paesi vicini. Non si vedeva più quasi nessuno per strada e nessuno dei miei amici giocava più nel campetto di pallone. Io non capivo e mio padre diceva che era colpa della guerra, così gli domandai che cosa fosse questa guerra: lui mi rispose che per noi, povera gente di campagna, la guerra è una cosa silenziosa che arriva silenziosa.
Papà un po’ aveva ragione, sembrava che tutti avessero smesso di parlare. Non si sentiva vociare dalle case vicine e anche il bar, le panchine della piazza e tutti i posti di ritrovo si erano silenziosamente svuotati. In paese avevamo tanti amici di famiglia che spesso venivano da noi o noi andavamo da loro, alla sera, per parlare un po’ e per giocare a carte; ma da quando c’era la guerra non veniva più nessuno e papà, ogni tanto, se si nominavano i vecchi amici di famiglia, diceva che con quelli era meglio non parlare più.
La mamma aveva cominciato a vergognarsi, si vergognava per qualsiasi cosa: aveva smesso di uscire di casa, non usciva nemmeno per le esigenze. Una volta, di notte, ero sveglio nel mio letto e sentii che mamma e papà si erano messi a discutere nella loro camera; papà si lamentava del fatto che la mamma non badasse bene alla casa e lei diceva che non voleva più uscire a comprare perché si vergognava, diceva che noi ormai eravamo diversi. Io non ho mai capito, e continuo a non capire ancora adesso, perché noi, da un giorno all’altro, eravamo diventati diversi; in realtà non era cambiato niente, ma fatto sta che la mamma non andava neanche più a comprare la carne il sabato per la domenica, ma con le verdure del nostro piccolo orto faceva sempre il minestrone con gran dispiacere mio e di mio fratello.

Il giorno che iniziò la guerra io avevo tredici anni, mentre mio fratello Marko era un po’ più grande. Era nato con qualche problema, il dottore disse che il problema c’era stato durante il parto; che nel cervello di Marko per un po’ era arrivato poco ossigeno, così Marko era più grande di me, ma in realtà era più piccolo perché si comportava come un bambino.
Io cercavo di imparare i lavori, andavo sempre ad aiutare mio padre in campagna, mentre Marko rimaneva a casa con la mamma; molte volte rimaneva fisso a guardare il muro anche per tutto il giorno, ma molte volte parlava senza fermarsi, dicendo parole confuse e inventandosi storie incredibili, senza senso, per poi mettersi a piangere a dirotto.
A me piaceva lo stesso ascoltare Marko perché certi giorni le sue storie erano di una fantasia così incredibile che mi facevano morire dal ridere e ridevo senza riuscire a smettere, trascinando nella mia risata Marko e certe volte la mamma che, ridendo, metteva una mano nei capelli di mio fratello e diceva: “Marko è un po’ sulla terra ed un po’ sulla Luna”. Ma con la guerra nostra madre imparò a vergognarsi anche di Marko e delle sue storie; al posto di ridere piangeva, e al posto di dire che Marko era sulla Luna diceva che Marko era pazzo e che aveva bisogno di andare in un posto adatto a lui.
Dopo poco la guerra smise di essere una cosa silenziosa anche per la gente di campagna; per ventiquattro ore al giorno si sentivano rimbombare le cannonate, i mortai e i colpi di mitra; le esplosioni su Sarajevo erano tanti bagliori bianchi che rischiaravano il cielo in lontananza e apparivano, a noi che stavamo ad una cinquantina di chilometri, come i lampi di un temporale che sta per arrivare. D’ora in avanti anche chi voleva fare finta di niente non poteva, il frastuono che faceva la guerra non lasciava tranquillo nessuno. I nostri genitori avevano deciso che Marko non poteva rimanere con noi e l’avrebbero mandato in un ospedale dove c’erano altre persone come lui; io non volevo e mi arrabbiai tantissimo, incominciai ad urlare che Marko non era pazzo, che doveva rimanere con noi, che in quel posto Marko sarebbe stato male e che qui io l’avrei potuto proteggere, avrei anche potuto lavorare per mantenerlo, se c’era bisogno. Ma l’unica risposta che mi diedero fu che ero ancora troppo piccolo e non potevo capire.
Mentre la mamma metteva ordinatamente nella valigia le poche cose che servivano in quell’ospedale e nostro padre si sistemava bene la cravatta del suo vestito migliore, guardandosi mille volte allo specchio per trovare il suo profilo più bello; mio fratello, anche lui vestito bene, stava immobile nel cortile con la faccia rivolta al sole, per godersi la forte luce del mattino che gli piaceva tanto. Poi quando la valigia e nostro padre furono pronti ci sedemmo al tavolo e fissammo senza parlare l’orologio; verso le dieci nostra madre, piangendo, mi disse: “vai ad abbracciare tuo fratello”; io lo feci, freddamente e Marko sembrò non accorgersene, concentrato com’era sul sole, ma mentre era già sulla strada, camminando per mano con papà, Marko si girò, mi guardò e mi sorrise, poi si rigirò e scoppiò in una fortissima risata finché non salirono in una macchina e se ne andarono; mi accorsi che molti dei nostri vicini stavano guardando la scena da dietro le loro finestre cercando di non farsi vedere, spiando. La tristezza e la rabbia mi salirono sino agli occhi in un pianto che non riuscivo a controllare, odiai come non mai il sapore salato delle lacrime sulla bocca e mi misi a correre più forte che potevo per farmi levare dall’aria quelle lacrime dalla bocca. Corsi forse per un’ora, corsi il più lontano possibile, nel bosco, anche se i miei genitori me lo avevano vietato perché era troppo pericoloso; corsi tra gli alberi finché le gambe mi ressero, finché caddi esausto sull’erba. Era tanto che non andavo nel bosco, di solito ci andavo in momenti come questi, quando ero troppo arrabbiato per sopportare qualsiasi persona; nel bosco c’erano solo alberi e uccellini che facevano la loro vita e canticchiavano regalandomi la pace. Ma la guerra aveva cambiato anche questo, perché quel giorno anche lì, dove avevo sempre creduto di essere lontano da tutti e tutto, il boato dei bombardamenti copriva qualsiasi altro rumore portandosi via la vecchia pace.

Quel giorno mi resi conto che qualcosa era finito e qualcosa di nuovo stava iniziando; ripensai a tutte le cose che sino a qualche tempo prima erano normali e che in quel momento apparivano vecchie e lontane, ripensai a tutte le persone che avevano conosciuto, a quanto erano belli i miei genitori prima che tutto cambiasse, e ripensai a Marko, a tutte le cose che faceva, ai suoi vestiti, al suo odore, alle cose belle di lui e alla cosa più bella di tutte: i suoi disegni.
Marko amava disegnare, disegnava tantissimo, per nostra madre era quasi un sollievo perché Marko disegnava per ore intere; bastava appoggiare sul tavolo qualche foglio di carta e una matita perché Marko smettesse di piangere e di dire parole a vanvera e cominciasse a disegnare. Così nostra madre poteva badare alla casa, poteva controllare che i polli non uscissero dal cortile, poteva lavare i nostri vestiti senza dover in continuazione controllare che Marko non finisse nel fiume o andasse a perdersi per le strade. Nostro padre diceva che Marko disegnava cose stupide e che sarebbe stato meglio insegnargli a guardare le galline e a urlare se qualcuna si allontanava troppo. Marko disegnava case marroni, alberi secchi, cieli con due o tre soli, disegnava persone piccole e alberi o uccelli giganti. Una volta, verso Pasqua, ci venne a trovare nostro zio Amir che faceva il soldato e disse a mio fratello di fargli un bel disegno sulla Pasqua, ma Marko disegnò due enormi colombe con un becco lunghissimo e due persone piccole in basso a destra con le mani in alto e la bocca aperta che sembrava urlassero. Nostro zio guardò il disegno e sembrò essere un po’ triste; disse a Marko di tenersi il disegno e gli domandò perché in alto a sinistra, di fianco al suo nome, c’erano due date: mio fratello gli rispose che una era la data di oggi, e una era la data di scadenza. Marko metteva sempre la data di scadenza nei suoi disegni. La cosa che preferiva disegnare erano i fiori; a me aveva regalato un disegno di un fiore viola con tantissimi petali e foglie, anche lì c’era la data di scadenza, sembrava che il fiore dovesse appassire quel giorno e che Marko sapesse che tutte le cose hanno il loro tempo e prima o poi finiscono. A ripensarci sembrava che Marko sapesse tutto e ce lo dicesse con i disegni.

Nostro zio quando vide la data di scadenza pensò che fosse un malaugurio e che forse sarebbe morto quel giorno; ma non morì quel giorno, morì qualche mese dopo, d’estate; gli fecero un agguato nel bosco e gli spararono. Chissà se quel bosco era uguale a quello dove io ero andato a correre, e chissà se prima di finire in quell’agguato aveva avuto il tempo di sdraiarsi un po’ sull’erba e di godersi il canto degli uccellini come avrei voluto fare io.
Nostro zio Amir era il più bravo di tutti i nostri zii, era sempre contento; non era un soldato come gli altri che sembravano sempre seri e arrabbiati. Nostro zio era bello, la mamma diceva che aveva un sacco di ammiratrici e che avrebbe potuto fare il cantante.
Ci veniva a trovare spesso e ogni volta portava qualche regalo a me e a Marko; io quando sentivo fischiettare per la strada partivo come un razzo correndogli incontro: sapevo che era lo zio, era l’unico allegro che fischiettava. Anche la mamma sapeva che poteva essere solo lui e ogni volta che sentiva fischiettare, anche se era in un’altra stanza e non vedeva, mi urlava: “guai a te se ti sporchi i vestiti di fango!”.
Ogni volta gli saltavo in braccio e gli chiedevo se avesse smesso di fare il soldato e avesse cominciato a fare il cantante. Lui mi rispondeva che se avesse fatto il cantante di questi tempi avrebbe guadagnato poco e non ci avrebbe potuto portare i regali.
Io pensavo che lo zio Amir facesse il soldato solo per noi, solo per portarci i regali, perché sapevo che ci voleva un gran bene. Lo zio Amir era stato l’unico a volere che Marko restasse in famiglia e non andasse in quell’ospedale, sapeva che Marko non era malato, diceva sempre ai miei genitori che non era pazzo, che non doveva stare lontano ma doveva rimanere in famiglia. Diceva sempre che in Italia l’avrebbero curato meglio, che se fossimo stati in Italia tutti staremmo meglio. Lo zio Amir era stato da giovane in Italia con una gita organizzata e da quando era tornato, nonostante fossero passati parecchi anni, continuava a parlare dell’Italia come un posto magico, un paese dei sogni. Ogni tanto, anche in mezzo ai discorsi, si incantava, rimaneva fisso a guardare per aria con uno strano sorriso, poi sospirando diceva con aria sognante: “ah se fossimo in Italia…” e io curioso: “se fossimo in Italia cosa?”, “niente”.
Quando penso allo zio forse capisco cosa voleva dire e gli do ragione.
Se fossimo stati in Italia saremmo rimasti tutti insieme; forse nostra madre sarebbe tornata a ridere, come faceva una volta e avrebbe smesso di vergognarsi per qualsiasi cosa; forse nostro padre avrebbe avuto ancora degli amici con cui giocare a carte alla sera, forse Marko sarebbe ancora con noi a disegnare cose strane, forse avrebbe smesso anche di mettere le date di scadenza sui suoi disegni. Per la prima volta mi sentii veramente stanco; non ero solo stanco per la corsa, ero stanco per tutti quei cambiamenti, ero stanco di vedere cambiare le persone, ero stanco per tutte le cose che le persone facevano. Gli uomini sapevano solo fare un gran casino. Solo gli uomini potevano fare una cosa così rumorosa come la guerra. Io volevo vivere senza uomini, volevo che sparissero tutti gli uomini dalla terra!

2.

Subito dopo aver pensato questo, come per magia, terminarono gli enormi boati che arrivavano da Sarajevo e piano piano gli uccellini tanto desiderati tornarono a canticchiare, così che riuscii lentamente a mettere da parte tutti i ricordi e ad assopirmi guardando i rami degli alberi che si muovevano educatamente con il vento. Gli alberi mi stavano raccontando qualcosa che non riuscivo a capire ma che suonava come una favola di quelle che si raccontano prima di andare a dormire. Rimasi così, affondato nell’erba ad ascoltarli, finchè la luce del cielo non si fece rossastra e capii che era arrivata la sera.
Con la paura, anzi con la sicurezza che i miei genitori fossero molto arrabbiati per la mia scomparsa, corsi per tornare a casa immaginando la mia punizione, le sgridate e il dolore dello schiaffo che probabilmente avrei ricevuto. Non mi sorprese che nell’attraversare il paese non incontrai nessuno, tanto ero abituato a vederlo deserto, ma rimasi sbalordito nel momento in cui misi i piedi e la testa bassa dentro casa; i miei genitori non c’erano.
Pensai che papà poteva non essere ancora tornato da quell’ospedale, sapevo che era lontano e magari, troppo stanco per tornare, aveva deciso di fermarsi a dormire là; non capivo però dove potesse essere andata la mamma, visto che non voleva mai uscire di casa. La loro assenza non mi preoccupò che per un secondo, perchè il secondo dopo mi venne in mente che forse non si erano accorti della mia lunga assenza e perciò non si sarebbero arrabbiati e non mi avrebbero punito.
Li aspettai seduto in una sedia della cucina, poi quando si fece buio e il mio stomaco cominciò a far rumore di grande fame, mangiai da solo un po’ di minestrone del giorno prima, mi andai a sdraiare nel letto e vinto dalla stanchezza che quella strana giornata mi aveva messo addosso, mi addormentai come un sasso.

La mattina dopo mi svegliai senza che la mamma venisse a tirare le tende chiamandomi con la sua voce stanca, senza che Marko urlasse o che papà mi ordinasse di andarlo ad aiutare in qualche lavoro che non riusciva a fare da solo. Come la precedente, quella mattina era splendida di sole ma con qualcosa in più, anzi con qualcosa in meno che la rendeva più bella: i boati dei cannoni continuavano a non sentirsi. Corsi in cucina ma era vuota, allora corsi nel cortile ma vi trovai solo le quattro galline che razzolavano, come al solito, stupidamente senza rendersi conto della paura che incominciava ad invadermi perché nessuno era tornato. Avevo paura che fosse successo qualche cosa; ero terrorizzato al pensiero che i miei, durante la mia assenza, si fossero preoccupati a tal punto da venirmi a cercare e magari nella ricerca avessero avuto un incidente.
Uscii di casa e andai a cercarli nelle strade desolate del paese, ma niente; allora vinsi la soggezione che la guerra mi insegnò ad avere dei nostri vicini di casa e andai a bussare alla loro porta nella speranza che spiando avessero visto o sentito mamma e papà, ma dei nostri vicini non mi venne ad aprire nessuno; andai da altri e altri ancora finché non bussai praticamente a tutte le porte del paese senza risultato; il paese era vuoto, tutte le cose erano state lasciate nel posto del loro ultimo utilizzo, come se tutti fossero partiti in fretta senza prepararsi, senza nemmeno ritirare i panni lasciati ad asciugare. Non potevano essere venuti tutti a cercare me, dovevano essere partiti per qualcosa di molto più importante.
Tornai a casa ad aspettare, cercando di nascondere a me stesso il tremendo presentimento che mi batteva nella testa, il presentimento che fossero veramente scomparsi tutti gli uomini del mondo come io avevo desiderato in quel momento di grande disperazione.
Tornai ad aspettare finchè il minestrone non finì, finchè tutto il poco cibo dei poveri abitanti del paese finì e non c’erano più case nelle quali io potevo entrare, come se fossi il padrone, per mangiare tutto quello che era commestibile. Non potevo più restare nel paese, dovevo cercare cibo da qualche altra parte, meglio in città dove sicuramente c’erano dei frigoriferi che avrebbero conservato i cibi dalla muffa e da tutto il lavoro che il Tempo fa su essi.

Quel pomeriggio, quando espressi il desiderio che sparissero gli uomini, credo che anche il Tempo tirò un lungo sospiro di sollievo, perché tra tutte le creature che hanno sempre vissuto il suo quieto scorrere, adattandosi a lui e modificando le proprie abitudini in base all’effetto che provocava sui giorni e sugli anni, solo gli uomini avevano dichiarato guerra al Tempo cercando di scandirlo e classificarlo con orologi, calendari, diete, tinte per i capelli e cremine per le rughe, ma avevano dimostrato di esserne sempre usciti perdenti, avendo sempre fretta di arrivare ad un appuntamento stabilito ad un’ora, morendo di noia aspettandone un’altra, rattristandosi al vedersi vecchi e completamente coperti dai suoi segni, maledicendolo per tutte le cose che si portava via.
Nessun uomo da quel pomeriggio poté più sforzarsi per andare contro il Tempo e lui riuscì finalmente a scorrere libero, a suo libero piacimento, perché io nonostante sia uomo non mi sono mai sognato di fargli guerra. Da quel pomeriggio dormivo quando ero stanco, mangiavo quando avevo fame e smisi, soprattutto, di contare i giorni facendo così del Tempo un prezioso alleato, che mi cancellò per sempre l’ansia, la noia e la fretta, che mi fece ridere quando mi accorsi che le mie scarpe erano diventate piccole, i miei pantaloni corti e la mia maglia stretta e che spesso mi aiutava, come con Super, il mio grande compagno di avventura, che grazie al Tempo imparava ad avere sempre più fiducia in me e a volermi sempre più bene.
Incontrai Super per caso, quando arrivai a Sarajevo, quando le giornate ormai si erano allungate e il caldo permetteva di restare in maglietta anche di sera senza il sole. Non so descrivere i sentimenti che mi divorarono nel momento in cui misi i piedi in quella città, non so se era paura, stupore o rabbia, ma qualsiasi cosa fosse mi fece subito capire che la guerra era stata qualcosa di più del silenzio dei vicini e del minestrone anche alla domenica.
Quasi tutti i palazzi erano o completamente bruciati o distrutti con enormi voragini o ricoperti da fori di proiettili, dietro ogni angolo ne vedevo di nuovi che sembrava mi stessero aspettando per mostrarmi le loro ferite; in molti entrai anche dentro, negli appartamenti. In quelli che sembravano non colpiti, con ancora le finestre intatte c’era un forte odore di chiuso, di sudore, di panni sporchi, di uomini nascosti per giorni, di paura; mentre in quelli completamente devastati l’odore era quello di oggetti perduti, di ricordi morti, di fotografie bruciate, di nostalgia.

Camminai per ore trasognato tra quei palazzi scavalcando le loro macerie cadute come bava, e pensando a mio padre, a quando mi aveva raccontato quanto ci aveva messo per costruire la nostra piccola casa, sottolineando nel suo racconto il sudore e l’orgoglio che gli faceva venire aggiungere ogni singolo mattone. Gli uomini che avevano distrutto questa città probabilmente erano persone malate che non avevano mai avuto un motivo per costruirsi una casa e perciò conoscevano solo l’enorme orgoglio di distruggere e non quello piccolo e semplice di costruire come mio padre.

Camminai sempre più felice di aver fatto sparire tutti gli uomini dalla terra, finché da una piccola via che si incrociava con quella che stavo percorrendo, arrivò un rumore che non poteva essere causato dal vento ma da qualcuno che stava grattando contro qualcosa. Mi arrestai per lo stupore, poi da quella via uscì rotolando un pallone tutto malconcio e mezzo sgonfio con subito dietro un cane marrone, talmente magro da vedergli tutte le costole, che sorpreso più di me, arrestò la sua scoordinata corsa e rimase immobile a guardarmi. Il pallone rotolò fino ad arrivare ai miei piedi e io, non volendo interrompere il gioco del cane, gli diedi un calcio con tutta la mia forza; questo volò alto e lontano in direzione di un piccolo spazio verde, vicino, che aveva tutta l’aria di un parchetto 75 ma che sembrava trasformato in fretta in un cimitero. Il cane trovando il pallone più interessante di me lo seguì con la corsa scoordinata di prima ma come toccò terra, in quel cimitero improvvisato, il pallone fece saltare in aria qualcosa di nascosto, probabilmente una mina. L’esplosione alzò un bel po’ di terra, distrusse tre tombe vicine, finì di frantumare i vetri di una palazzina e proiettò in aria il cane che atterrò con una zampa posteriore recisa di netto.
Dopo essermi ripreso dallo spavento corsi verso il cane che guaiva disperatamente ma come lo toccai per tranquillizzarlo mi diede un forte morso di paura e poi svenne; lo caricai di peso e corsi in direzione dell’ospedale ricordandomi di averlo visto precedentemente. Una volta arrivato, con il cuore che sembrava volermi uscire dalla gola, lo misi in un lavandino e gli lavai la zampa monca e due tagli sulla schiena che gli avevo scoperto durante la corsa, poi andai in cerca di garze e disinfettante che non furono difficili da trovare, visto che ogni stanza sembrava attrezzata solo per quello che stavo facendo io. Tornai dal cane miracolosamente ancora vivo, gli versai in abbondanza lo stesso liquido rosso che mettevano a me quando tornavo a casa con le ginocchia sbucciate, e lo fasciai senza risparmio di garza.
Passai tutta la notte a sorvegliare che il suo leggero respiro non terminasse, ma verso il mattino, con mia grande sorpresa, quel cane che ormai avevo dato per morto, aprì gli occhi, cercò senza riuscirci di piegarsi per leccare le ferite e ricadde addormentato; io ero stupefatto del suo risveglio e decisi di chiamare quel cane Super in onore della sua incredibile resistenza. Ma comunque dovetti passare ancora un bel po’ di notti in ospedale prima di essere sicuro che Super avesse passato il peggio: aveva una zampa che continuava a sanguinare e un’infezione che sembrava aumentare ogni giorno. Dopodiché quando fui sicuro che non sarebbe morto ci trasferimmo in un edificio ancora in buono stato e con tutti i vetri intatti, un albergo; dentro era molto bello, in ogni stanza c’erano macchine fotografiche, telecamere, computer portatili e telefoni con grosse antenne, tutto appoggiato lì, come dimenticato; ma soprattutto c’erano letti puliti e acqua calda nel bagno; nelle cucine c’era più cibo di quanto ne avessi visto in tutta la mia vita, così finalmente riuscii a mangiare carne e a farla mangiare anche a Super che grazie a questa sembrava migliorare più rapidamente.
Nei lunghi giorni in cui Super viveva la sua convalescenza io avevo preso una delle tante jeep militari rimaste per la strada e ogni tanto uscivo dall’albergo e andavo a fare pratica nella guida; dopo averla ammaccata per bene sul davanti e rigata sulla parte destra si poteva dire che avessi imparato a guidare, sostituii la jeep ammaccata con una uguale ma nuova e la rifornii bene di benzina; mi stavo preparando ad un viaggio. Intanto Super riacquistava lentamente le forze, passava sempre più tempo sveglio e aveva sempre più appetito; le garze che gli mettevo ogni giorno, si insanguinavano meno e il suo naso ridiventò umido, segno che l’infezione stava terminando e con essa la febbre. Una mattina  quando mi svegliai, la prima cosa che vidi fu Super in piedi sulle sue tre zampe che cercava di improvvisare qualche passo, si accorse che lo stavo guardando con un largo sorriso e percependo la mia felicità scodinzolò timido per qualche istante, poi cadde sulla moquette esausto ma chiaramente soddisfatto lasciandosi per la prima volta accarezzare sul muso.
Io e Super, anche se non c’erano esplosioni e spari, vivevamo in guerra perché avevamo imparato che la guerra non è una cosa che gli uomini fanno ma una cosa che gli uomini portano, depongono come se fosse un seme che germoglia e che quando tutti i soldati se ne vanno e la gente parla di pace, rimane nei segni e nella memoria delle cose, silenziosa ma sempre presente. In quel momento non c’era più nessuno che ci poteva fare del male o addirittura uccidere, la guerra era finita, ma io capii che in realtà la guerra ci sarebbe sempre stata nelle ferite di Super, nei suoi occhi languidi, nella sua paura per i rumori forti e nella sua fatica a ricevere le carezze.
La sola cosa che potevamo e avevamo voglia di fare era vivere un sogno e io conoscevo un solo posto per poterlo fare: l’Italia dello zio Amir.

3.

Andammo in Italia senza fretta, senza correre e ci gustammo lentamente tutte le cose del viaggio, anche il Mare. Nonostante io e Super non avessimo mai visto il Mare non avevamo nessuna ansia così fu lui a sorprendere noi e non noi a trovare lui; ci sorprese impreparati e ci fece piangere commossi. Se lo avessimo cercato, se avessimo saputo che era alla fine di quella strada piena di sabbia ci saremmo preparati, ce lo saremmo immaginati, avremmo iniziato a pregustarlo; ma invece ci sorprese come un pugno nello stomaco, il più bel pugno nello stomaco che si possa ricevere.
Rimanemmo in quella spiaggia per molti giorni prima di varcare definitivamente il confine italiano. Super che ormai riusciva a camminare sulle sue tre zampe giocava con il mare, rincorreva le onde ed annusava l’acqua; voleva annusare anche quello che c’era sotto ma tutte le volte gli entrava solo della grande acqua nel naso. Io passavo il tempo a bagnarmi, a rincorrerlo e a pensare guardando quell’immenso nulla fatto di acqua.
Io e Super ripartimmo quando eravamo sazi di tranquillità, stavamo andando in un paese straniero, eravamo un po’ agitati, dovevamo fare scorta di quella tranquillità.
In Italia la prima cosa che vedemmo furono grandi ed enormi strade, tutte pulite e asfaltate, anche quelle apparentemente più stupide; e poi prati e campi, chilometri e chilometri di campi coltivati, interrotti ogni tanto da qualche paesino piccolo ma ben tenuto o da qualche capannone o fabbrica che ancora fumava. Ovunque c’erano cartelli che indicavano i nomi dei paesini o le vie, ovviamente, in Italiano, una lingua che non conoscevamo ma che non avevamo bisogno di imparare.

Nei nostri chilometri procedemmo lentamente, non per scelta ma perché tutte le strade erano piene di macchine accatastate nei fossi, ferme in mezzo alla strada o aggrovigliate in enormi tamponamenti senza feriti; tutte le macchine in corsa erano state abbandonate all’improvviso senza controllo e noi le dovevamo schivare con cura senza sbatterci contro e andare a far parte di quel cimitero di lamiere e vetri rotti.
Finalmente, dopo tutta quella pianura arrivammo in un’immensa città.
L’ultima città in cui eravamo stati era la città da cui eravamo partiti: Sarajevo; anche in questa come a Sarajevo ad aspettarci c’erano enormi palazzi ma questi erano puliti, nuovi, brillanti, molti erano di vetro o di ferro, nessuno era bruciato, nessuno parlava di distruzione, non soffrivano di certo ma non erano per niente felici. Dopo la scomparsa degli uomini, sicuramente, non si sentivano liberati, ma inutili, grosse cose inutili piene di cose inutili che assistevano inermi al passaggio dell’ultimo uomo nel mondo con una specie di sguardo malinconico.

Nel centro della città dovemmo abbandonare la jeep e proseguire a piedi perché il groviglio di macchine impazzite senza padrone era così enorme che non avrei avuto il tempo in tutta la vita per spostarle tutte.
Tirava un vento delicato ma abbastanza forte da produrre un rumore di vuoto quando passava vicino ai palazzi. Il vento portava foglie e molte cartacce, a volte portava fogli di giornali scritti con la stessa lingua incomprensibile dei cartelli ma con molte immagini di uomini importanti vestiti bene e a volte immagini di soldati, di uomini che sparavano, foto di una città distrutta con un titolo piccolo in cui riconoscevo solo la parola Sarajevo.
Non ero mai stato in un parco divertimenti, non sapevo come fosse, nel mio paese veniva una volta all’anno una giostra dove tutti i ragazzi si accalcavano per divertirsi, e bastava la musichetta ripetitiva tipo carillon della giostra per fare impazzire di risate i bambini e anche i grandi, che cercavano di nasconderlo, ma dopo il lavoro passavano ore intere davanti alla giostra, attratti dalle luci.
Penso che il centro di quella città si avvicinasse molto all’idea che mi ero fatto di un vero parco dei divertimenti: era tutto bellissimo, in tutte le vie c’erano grosse vetrine illuminate con oggetti che non avevo mai visto, che non sapevo nemmeno a cosa servissero e che potevano essere oggetti magici. Anche le case erano bellissime e strapiene di cose; io e Super entravamo ovunque con una curiosità insaziabile e toccavamo tutto, provavamo a fare funzionare ogni cosa, correvamo di vetrina in vetrina per far domande ad ogni oggetto inanimato e immobile che non ci forniva risposte e che noi trasformavamo in giocattolo con la logica dettata dalla fantasia. C’erano bar, ristoranti e pasticcerie piene di cose buone che aspettavano solo le nostre inesperte bocche e così passammo la giornata saltando tra oggetti morbidi, giocattoli e buoni dolci, finché davanti ad un grande negozio mi arrestai: era completamente ricoperto da immagini di bei uomini e belle donne felici che ridevano, vestiti bene, spensierati, probabilmente erano questi gli abitanti di questa città prima che sparissero, probabilmente qui erano tutti felici, forse non si meritavano di sparire; poi mi si affiancò Super con il fiatone, mi annusò una mano e io lo guardai, i suoi occhi erano una domanda: “perché non continuiamo a giocare?”, guardai la zampa mancante di Super e le sue cicatrici dietro alla schiena così che le immagini degli uomini felici si trasformarono e non mi sembrarono più sorrisi quelli che avevano ma dei ghigni, delle beffe. Perché anche i miei genitori non potevano avere quei vestiti? perché solo adesso che non c’è nessuno io ho potuto mangiare per la prima volta quei buonissimi dolci?
Avrei voluto che per un attimo fossero ricomparsi tutti e fossero venuti da me giusto il tempo di fargli vedere Super e domandargli se sapevano perché lo zio Amir era morto nel bosco. Era logico che sapevano, avevo visto i giornali con le foto della guerra e probabilmente loro sarebbero ritornati con lo stesso sorriso di beffa, e sarebbero stati troppi perché riuscissero ad ascoltare un ragazzino e a vedere un cane mutilato. D’improvviso provai l’impulso di raccogliere un sasso e scagliarlo contro la vetrina, ma mentre lo cercavo con rabbia per terra notai che Super si era andato a nascondere dietro ad un pilastro poco distante e mi guardava con aria spaventata, mi fermai, lo guardai di nuovo negli occhi, guardai la sua zampa mancante e le ferite ma questa volta provai solo un fiotto di dolcezza e mi calmai, anzi mi scusai con Super.

Verso sera eravamo stravolti, era stata una giornata veramente piena, mi sentivo pieno come non mai di ogni cosa, anche di responsabilità che non mi riguardavano; ci mettemmo a riposare seduti sui gradini di un bell’edificio e rimanemmo silenziosi ad ascoltare lo stesso rumore del vento di quando arrivammo. Quando si fece buio entrammo nell’edificio per dormire. L’interno era enorme, direi maestoso, c’erano centinaia di poltroncine, anche sopra a più piani, tutte rivolte verso un grande palco illuminato, dove era ricostruito un angolo di un paese in campagna ma strano perché per metà sembrava l’interno di una casa e l’altra metà una via che si perdeva in un paesaggio dipinto su un telo gigantesco. Non c’erano muri ma un letto e un tavolo in quello che sembrava l’interno della casa e un carretto di fieno con un forcone in quella specie di campagna al chiuso. Sapevo che non poteva che essere un teatro ma rimandai la curiosità di esplorare quello strano luogo all’indomani. Mi misi sul letto, chiamai Super che arrivò con aria buffamente sbalordita e insieme crollammo in un pesantissimo sonno.
Al mio risveglio Super stava facendo la pipì sul fieno del carretto e io che da dentro la casa senza pareti lo potevo vedere non mi sentii di sgridarlo perché in fondo la pipì l’aveva fatta fuori; poi scese dal palco e si mise ad annusare tutte le poltroncine che evidentemente odoravano ancora di uomo, mentre io mi inoltrai per gli spazi dietro al palco all’oscuro di tutte le poltroncine e, meraviglia, entrai in una stanza dove tutta la gente di tutta la storia sembrava fosse entrata, si fosse spogliata e fosse scappata via nuda, lasciando i propri indumenti. Appesi ovunque non c’erano solo vestiti di contadini e signorotti di una campagna di qualche tempo fa, ma c’erano anche armature da cavaliere, vestiti da re, regine e principi, costumi da astronauta, da ballerine, da gnomi e fate, c’erano spade, corone, pistole finte, scudi, lance e i più svariati oggetti usati dalla notte dei tempi sino al futuro.
Mi spogliai di tutta fretta dei vestiti malconci e ormai piccoli che indossavo dalla partenza ed indossai delle calzamaglie azzurre da bel principe, un tutù da ballerina, un corpetto da cavaliere e un casco da astronauta; in mano presi una spada e un elmetto da vichingo con le corna da legare in testa a Super che però, quando mi vide tutto entusiasta correre verso di lui conciato così, fece un salto dalla paura e mi ringhiò contro; mi dovetti togliere il casco per farmi riconoscere, allora Super si tranquillizzò e venne da me, io lo inseguii fingendo di essere un qualche eroe che lottava con un qualche nemico e Super stette al gioco. A volte io inseguivo lui e a volte lui inseguiva me e anche se non volle mai saperne del suo elmetto da quel momento iniziò un nuovo mondo che durò per molto tempo, un mondo che non aveva pensieri se non quello del giocare e di essere tutto quello che nella fantasia avremmo sempre voluto essere, un mondo dove anche Super scoprì un’infanzia di bambino che non aveva mai conosciuto, che non aveva nè limiti nè spazi.
Facemmo di quel teatro la nostra base e addobbammo la casa senza pareti e la via di campagna con quadri, vestiti, armi finte e tanti di quegli oggetti che vedevamo nelle vetrine, che non sapevamo cos’erano ma che lo stesso ci piacevano tanto. Giravamo tutta la città per vivere le nostre storie, ogni giorno eravamo re, principi, operai, pompieri, guerrieri o esploratori spaziali mandati in missione e dispersi in una galassia sconosciuta; tutto era il palcoscenico delle nostre incredibili avventure.
Poi una sera mentre Super trascinava con i denti una scopa rotta e io ero vestito da capitano di una nave, tutte le luci si spensero all’improvviso. Sparì come in un sogno quell’enorme parco dei divertimenti, l’elettricità ci abbandonò, così, senza preavviso e noi capimmo al volo che avremmo dovuto abbandonare quella galassia lontana e fare ritorno ad un universo più reale che è la sopravvivenza.
Ritornammo al teatro con non poche difficoltà a causa del buio e avemmo problemi anche la mattina seguente perché nel teatro non c’erano finestre e il buio perseverava; raccolsi un po’ di vestiti e di corazze e spade a cui mi ero affezionato e uscimmo dal teatro un po’ tristi. Attorno a noi comparve una città che non riconoscevamo, ci accorgemmo per la prima volta che mentre noi giocavamo, vivendo in quel mondo lontano di fantasia, la natura si stava riconciliando con la città o meglio si stava riprendendo, e nemmeno discretamente, i suoi spazi. Le aiuole avevano evaso il loro spazio definito dagli uomini, molte finestre erano aperte e ne uscivano piante che pendevano fino quasi a terra o che si inerpicavano per i cornicioni e l’asfalto era rigonfio di nuove radici e nuovi alberelli. Quel verde che sino ad ora per noi era una giungla fantastica, piena di tigri e leoni, ora era solo il segno di un inesorabile e potentissimo cambiamento a cui noi potevamo assistere non come protagonisti, ma solo come piccoli spettatori. Ogni frigorifero e congelatore aveva smesso di regalarci sicurezza perché presto ogni cibo sarebbe andato a male e marcito, adesso avremmo dovuto veramente sopravvivere.

4.

Nel tempo la città si confuse con la campagna che evidentemente sino a quel momento si era tenuta in disparte e che ora lanciava le sue braccia sino al centro facendo sfondare l’antico confine ai prati, ai cinghiali, ai fagiani e a tutti quegli animali a cui fino ad allora era stata preclusa l’entrata in un territorio che centinaia di anni prima apparteneva loro. Le strade avevano perso la loro prepotenza e si sforzavano inutilmente di assomigliare a qualche tipo di serpente per non essere ingoiate, ma la loro materia, il loro cemento non poteva muoversi, non poteva adattarsi e presto cedettero sotto la forza delle radici, la forza delle cose animate.
Presto presi parte ad una nuova classe sociale che abolì per sempre le regole della buona educazione, del buon giorno e buona sera, delle mani pulite prima di mangiare, del prego mi dica pure… sentiamo le sue ragioni… quanto costa questo?… non è tuo, non lo puoi prendere… non ce lo possiamo permettere… questo non è degno di un uomo!
Diventai parte di quello che la mia maestra chiamava il ciclo naturale delle cose e capii veramente, vivendo in prima persona le regole e la mia posizione nella catena alimentare: il più forte mangia il più debole per sopravvivere.
Ero un animale non dotato di artigli, ma ahimè, di un fucile e di un fedelissimo cane che si dovette per forza riadattare lentamente agli spari ma che per fortuna imparò a stanare gli animali e a non fuggire più impaurito dopo lo scoppio del fucile.

Uscimmo senza accorgercene dalla città, la abbandonammo senza rimpianti anche se aveva significato tanto per noi. I giorni erano dedicati alla ricerca di altri animali che spesso incontravamo in branchi, in famiglie; ci imbattevamo sovente anche in cani che si avvicinavano curiosi a Super e che molte volte lo coinvolgevano in qualche strano gioco di annusate e arruffamenti, io ero l’unico animale senza branco che non poteva annusare nessun simile, ma non avvertii mai la solitudine, piuttosto un senso di irrealtà, di distacco da quello che avevo sempre creduto normale, sicuro, fisso: uno strano senso di follia. Spesso, da solo ridevo, correvo o mi sdraiavo per terra senza chiedermi perché, senza motivo, parlavo con le cose, con gli alberi, con le mie mani, piangevo, chiedevo perdono ai sassi anche senza aver recato loro nessun torto, mi stavo comportando come mio fratello Marko, forse ero pazzo, ma chi poteva dirlo? Super non si è mai scandalizzato, non si è mai dimostrato a disagio né tantomeno si è mai vergognato. Ora che in tutto il mondo non c’erano uomini, nessun normale poteva farmi vedere che cos’era la normalità, e la follia aveva perso il suo senso, i pazzi erano quelli che distruggevano le cose e ci avevano insegnato la paura e la vergogna, i pazzi erano i miei vicini che si nascondevano dietro alle finestre, che avevano dimenticato di conoscerci. Poveri pazzi! Avevano dimenticato il gioco, avevano dimenticato quanto è bello andare in giro con un cane, avevano dimenticato quanto è bello amare una statua!
I contadini del mio paese dicevano di amare la loro terra perché ci erano nati, conoscevano il loro odore e sapevano quando era il tempo della semina e del raccolto, i miei genitori dicevano che erano cresciuti vicini di casa, che si erano sposati giovani e col tempo avevano imparato ad amarsi, se no non sarebbero rimasti insieme tutto quel tempo e non avrebbero avuto due figli: la mia maestra diceva che un uomo e una donna se si piacciono, se sono puri e se i genitori sono d’accordo, allora si possono amare, sposare e passare il resto della vita insieme senza frivolezze. Qui qualcosa mi sfuggiva, a parte il significato di purezza e frivolezze, queste spiegazioni non riguardavano quello che mi immaginavo dell’amore, c’era qualcos’altro.

I miei nonni giocavano sempre a carte dalle tre alle cinque del pomeriggio, in silenzio senza dirsi una parola, ma ogni tanto si guardavano e sorridevano, poi alle cinque mia nonna, senza che mio nonno glielo chiedesse, gli versava un bicchiere di vino perché sapeva che ne aveva voglia: in quel momento vedevo tutto l’amore del mondo, in quei gesti.

Mio nonno non aveva mai studiato e probabilmente nemmeno mai letto un libro ma un giorno mi disse che la prima volta che aveva visto mia nonna voleva diventare un albero per mettere radici nei suoi polmoni; io ero piccolo ma sapevo che quello era il famoso amore e l’unica spiegazione che se ne potesse dare.
Io trovai il mio dopo molto tempo, dopo che erano passati forse anni in quell’Italia senza uomini e donne; sentivo la barba sul mio viso e al mio grande compagno a tre zampe comparve qualche pelo bianco quando ci trovammo, dopo aver passato montagne e fiumi, in un’altra enorme città, dove però i segni del tempo erano più evidenti a causa di molte rovine di una qualche civiltà antica, e dove la natura aveva quasi vinto la sua battaglia a suon di rami e foglie.
Per ripararci dalla pioggia entrammo nel più vicino edificio: ci parve una grande e bella villa vicino ad un parco, anzi, una grande e bella villa ingoiata, coperta e nascosta da un parco; ma entrati ci accorgemmo che in realtà era un grande e bel museo.
Dentro regnava il più antico silenzio e l’atmosfera tangibile era quella di un secolare abbandono: ogni quadro di uomo sembrava animarsi di sguardi imploranti di attenzione e i busti scolpiti di forti uomini sembrava mostrassero ora la loro naturale stanchezza; poteva essere spaventoso, ma non ne fui spaventato perché qualcosa di più grande, qualcosa di luminoso mi stava chiamando da un’altra sala, una sala un po’ più nascosta.
In quella sala mi caddero il cuore, lo stomaco e le braccia per terra perché incontrai la donna più bella del mondo: una statua! E non fui più sicuro di niente; non fui più sicuro di essere uomo, di essere forte e di essere solo, e poi non fui sicuro di essere davanti ad una statua, non fui sicuro che quello che stavo vedendo era fatto di pietra e non di candida pelle, fui certo che quella splendida donna si sarebbe girata verso di me da un momento all’altro, mi avrebbe guardato stupita e si sarebbe nascosta il viso tra le mani perché stava piangendo.
Era in piedi, protesa in avanti, come in un passo: era coperta solo per metà da un velo, si teneva una mano sul petto, sui seni nudi, per sorreggersi il cuore, guardava avanti con gli occhi tristi e su una sua aveva una lacrima, perché?

Mi avvicinai timido, molto lentamente, quando fui a pochi centimetri guardai tutta la sua bellezza e la sua dolcezza, guardai tutta la sua umanità, non poteva essere solo una statua!
La sua lacrima perseverava e un piccolo insetto le stava camminando sopra la testa, con un gesto coraggioso glielo levai e allora pensai che forse i suoi occhi erano tristi per la solitudine, per l’abbandono, per tutta la polvere che c’era sopra il suo corpo e perché ora nessuno poteva badare a lei.
Finita la pioggia aprii le finestre, tagliai i rami che oscuravano i raggi del sole e la ripulii dalla polvere. Costruii il mio letto ai suoi piedi per non esserle mai lontano, perché lei stesse sicura.

Di giorno continuavamo a cacciare per poter mangiare, ma in un altro modo, un po’ distratto; come riuscivamo a prendere una preda non c’era più la curiosità di esplorare, di continuare a camminare, di vedere, di cercare di capire, c’era solo la voglia di tornare dalla mia statua che mi aspettava, che aveva bisogno di me. C’era ogni volta la voglia di correre da lei per vedere che ancora era lì.
Sempre più spesso la abbracciavo e le toccavo il viso, passavo un dito in ogni punto del suo corpo per impararlo a memoria, per riconoscerlo anche ad occhi chiusi, e certe volte i suoi occhi parevano non mossi dalla tristezza ma dal piacere, da una forte libidine; così la baciavo, le accarezzavo i seni e tutti gli alberi e il verde fuori dal museo, che ora è la nostra casa, non sembravano crescere semplicemente, ma sembravano crescere per protendersi verso di noi, sembravano tendere le dita per cercare di raggiungerci senza riuscirci.
Ora per spostarmi scavalco rami, radici, sassi; devo saltare, arrampicarmi per vedere, tutte le foglie mi toccano la faccia; astuti animali, anche microscopici, mi attraversano la strada, coraggiosi e un po’ maleducati. Ho imparato a fare poco rumore quando cammino per non disturbare, per non essere stupido. Ogni tanto, in questo interminabile bosco, spuntano pezzi di palazzo, muro, cemento, ferro di lampioni, saltano fuori come urli a supplicare di non essere dimenticati ma il verde li copre senza pietà; così io mi fermo a guardare affascinato perché vedo un pezzo di storia che sta per scomparire mangiata dal tempo, dopo di me probabilmente non ci sarà più nessuno che ricorderà ma non importa, così è tutto perfetto, così c’è equilibrio. Ogni giorno Io e Super torneremo a casa dopo la caccia, lì ci sarà sempre il mio amore che mi aspetterà senza essersi mossa di un centimetro, aspetterà solo me e io le parlerò nelle orecchie e le dirò ogni giorno che sono felice, le parlerò dei miei ricordi come di un segreto che nessun altro può ascoltare, le parlerò di cose simpatiche, ridicole; ma non le parlerò della guerra, le parlerò solo dei sogni, le racconterò che io volevo un sogno, che lo ho trovato e ora lo sto vivendo. Le racconterò dello zio Amir che sapeva che qui avrei trovato un sogno.

Nota
Traduzione italiana del testo O dia que todos desapareceram di Christian Piana pubblicato da Lamparina Luminosa, São Bernardo do Campo, 2013

Christian Piana nasce a Stazzano (AL) nel 1978. È fotografo, editore di libri, educatore sociale e preparatore atletico.
Diplomato in fotografia all’Istituto Europeo di Design ha dedicato molti anni alla realizzazione di reportage fotografici in collaborazione con varie organizzazioni non governative in Perù, Bolivia, Venezuela, Brasile, Bosnia Herzegovina, Kosovo e Mozambico.
Ha vissuto 12 anni nelle periferie di São Paulo del Brasile dove coordinava attività educative culturali impostate sulla pedagogia di Paulo Freire abbinata all’uso degli strumenti multimediali. Nel 2010 ha fondato e coordinato fino al 2018 la casa editrice Lamparina Luminosa.