LIQUID BORDERS
PASSA-ACQUE: Rilascio di un documento di viaggio di Laura Estrada Prada
Testi di Lara Carbonara e Marco Salustri

Di passi di acqua
di Lara Carbonara

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Scoprivamo quel che succede ad ogni esiliato: avere una memoria che non serve più a nulla.
Albert Camus

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L’acqua è al primo posto nel mio immaginario. Oltre le distanze che gli occhi riuscivano a ricoprire a Guaya, quando ero
piccola, sapevo che c’era ancora acqua. Tutto incomincia in acqua. Acqua turchese, acquamarina, verde scuro, blu
oltremare, blu inchiostro, blu ceruleo, blu-nero.
Dionne Brand

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Passa-acque performance dell’arista Laura Estrada Prada presso il Museo Etnografico Luigi Pigorini, Roma, nell’ambito della mostra (S)oggetti migranti. 15 febbraio 2013.

Due cartelli. Due lunghe code di attesa. Si invitano i visitatori ad incanalarsi in una di quelle due file, una per i cittadini dell’Unione Europea, lunga, stretta, affollata. L’altro percorso, corto e lineare per ‘il resto del mondo’.  In silenzio, come nomi scritti lentamente su una lista d’attesa, la fila è per ottenere l’unico documento che possa essere rilasciato a tutti i cittadini del mondo, senza distinzioni. Il ‘Passa-Acque’, il documento di viaggio con il quale è possibile attraversare le acque del mondo. L’attesa dell’andata o la consolazione del ritorno. Quando non ci sono più ricordi a ferirti si avanza a tentoni verso posti che ci si immagina prima di arrivare. Alla fine della fila, una fototessera per imprimere ed associare un volto ad un nome. Una sorta di fotografia antropologica che sperimenta l’esistenza del proprio corpo classificandolo, interpreta la validità della propria identità archiviandola, produce la coscienza della propria mobilità in-carnata in immagine. Dopo poco è pronto il Passa-acque, il documento di viaggio liquido, che contiene in sé l’articolo della Dichiarazione dei Diritti Umani del 1948, da cui prende spunto l’intera installazione. Articolo 13 – Ogni individuo ha diritto alla libertà di movimento e di residenza entro i confini di ogni Stato. – Ogni individuo ha diritto di lasciare qualsiasi paese, incluso il proprio, e di ritornare nel proprio paese.

I confini geografici nella logica della polarizzazione delle identità sono le distinzioni derivanti dalla sistema occidentalistico coloniale: l’obbligo di appartenere ad una sponda o all’altra qui si sporca, si confonde, si rovescia. Gli appartenenti alla Comunità Europea diventano qui gli ‘altri’, coloro che sono costretti a percorrere le vie più scomode e lunghe. Il visitatore è prima spinto a rendersi vulnerabile, ad entrare empaticamente in contatto con il sentimento di sospensione legato alle soggettività in viaggio, dislocate su tracce geo-grafiche instabili; poi è spinto a trasformare quel rimorso nella preghiera della speranza. Una sorta di sovvertimento della rappresentazione  segnata  da quella che Bell Hooks chiama la “politicizzazione della memoria”1: una ri-contestualizzazione di forme, categorie ed interpretazioni di coordinate socio-visuali che riguardano l’appartenenza.

Il primo rovesciamento puramente formale è quello in cui la performance è tutta giocata sulla possibilità di invertire le file da un momento all’altro. Un altro rovesciamento simbolico è la tra-duzione del positivo in negativo. L’idea colonialista di visualizzare il mondo dal punto di vista dei ‘bianchi’ inghiotte invece nel ‘nero’ la possibilità del bianco di costituirsi come categoria ‘privilegiata’ . Questi sovvertimenti dunque significano la possibilità di sottrarsi alle definizioni, ai confini geo-politici, ai limiti che delimitano e contengono l’identità.  Questo muoversi in una nuova architettura della nominazione sembra l’estremo congedo ad una logica di assoggettamento. Muovendosi su sentieri scarnificati dalla stereotipia, l’artista riavvolge i postulati in una politica decostruttiva di re-inscrizione.

In questa performance le pratiche di attribuzione di senso identitario passano attraverso la materialità corporea dei soggetti coinvolti e diventano processi con cui affrontare l’elemento della paura, del dolore, del pericolo. Il coinvolgimento del corpo e la sua ‘messa a nudo’ designata dall’appartenenza all’essere ‘cittadini europei’ o del ‘resto del mondo’ conduce ad uno sdoganamento dei confini in vista dell’appropriazione di nuovi strumenti di navigazione. L’idea è quella di trovare un nuovo spazio di sovrapposizione comune che è costituito dall’acqua. L’acqua come matria mobile, immaginaria, che si traduce in una casa con le lingue al posto dei muri e la memoria al posto delle fondamenta.

Diventa allora chiaro l’interesse dell’artista per le ‘acque unite del mondo’, la replica alle acque del ‘non ritorno’ che marchiano i contorni di una invisibilità violenta e ostinata. Lo spazio che sulla terraferma diventa ricerca burocratica di lasciapassare, il mare ce lo restituisce intatto, fluido, solidamente piantato sui migliaia di corpi succhiati e masticati, aggrappati alla vita come pugili sentimentali, dondolanti come corpi vivi in una dimora finalmente fissa. Puri come una testimonianza, inesorabili come una invocazione, furibondi come una privazione. Crani e ossa rimangono lì, saldi, ostinati, inghiottendo le ombre della storia, cercando un posto nel perdono dei nuovi nomadi dell’acqua. Il passaporto di acqua è la cancellazione di una cancellazione, un tentativo di incidere la superficie dell’acqua, di mappare le tracce che mari e oceani nascondono e poi restituiscono, di “sperare di riuscire, nominando lo spazio, a nominarsi, procedendo così all’incorpor-azione del luogo attraverso la scritturazione agita dalla nominazione che assicura in qualche modo una mappa identitaria”2. Le fila sembrano rappresentare una sorta di frontiera, “luogo emblematico della mobilità che si coniuga tra soglie del disagio e soglie del piacere supposto, tra appartenenze decostruite e identità strutturate”3, un nuovo agire dell’erranza dunque, rinegoziato nell’acqua, lì dove avviene la ricucitura degli spazi interrotti.

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1 B. Hooks, Elogio del margine, 1998, pg, 65.
2 P. Zaccaria, Mappe senza frontiere, 1999 pg. 9.
3 T. Macrì, Postculture, pp 185-186.

Confini, diritti, riti di passaggio
di Marco Salustri

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Lo Stato sta alle sue mappe come il cittadino al suo passaporto. Niente mappe = niente esistenza; questo è il duro
verdetto che la modernità consegna agli Stati neonati e ai viaggiatori. Appropriandosi della focalizzazione spaziale dei
corografi, e della sua aspirazione a rappresentare l’anima dei luoghi, la fotografia sul passaporto è giunta a caratterizzare l’universo ufficiale dello Stato, identificando ogni volto come un luogo unico, separato da qualsiasi contesto. Il luogo come
luogo del territorio lascia a una faccia solitaria appiccicata a una paginetta filigranata da esaminare alla luce ultravioletta.
Micheal Taussig, Cocaina. Per un’antropologia della polvere bianca

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(when you see your reflection in water, do you recognize the water in you?)
Roni Horn, Another water. River Thames, for Example

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La consapevolezza di trovarsi all’interno di uno spazio monumentale coglie il visitatore ben prima di entrare nel museo. Il quartiere attorno, la struttura urbanistica e l’architettura degli edifici, fatta di linee ampie e formali, costituiscono uno stacco netto rispetto al resto della città. Quello dell’E.U.R. è uno spazio non ordinario, nato in epoca fascista per ospitare l’esposizione universale di Roma del 1942, concepito con uno stile solenne e allo stesso tempo razionale che ben rappresenta quel sapere enciclopedico e quell’istanza di dominio che l’esposizione avrebbe portato a compimento.

In questo spazio ideologicamente saturo, su quella che un tempo si chiamava piazza Imperiale, ancora oggi si affaccia e ha sede il Museo Nazionale Preistorico Etnografico “Luigi Pigorini”. E il museo, del suo fondatore, conserva molto più che il nome, mantiene infatti una duplice partizione espositiva, nella sezione preistorica e in quella etnografica, figlia di una vecchia classificazione disciplinare di stampo evoluzionistico, fatta propria da Pigorini, che alla fine dell’800, sosteneva: «La ragione del parallelo fra le due classi sta in ciò, che nella infinita varietà di usi e costumi di popoli meno civili di noi, trovasi oggi ancora l’immagine del nostro passato più lontano»1. Lo studio e la classificazione dell’altro, lontano nel tempo e lontano nello spazio, trovavano e ancora oggi trovano una casa comune all’interno di una stessa istituzione.

Laura Estrada Prada porta la sua opera PASSA-ACQUE in questo spazio denso di significati, ponendosi al centro delle questioni legate alla comprensione e alla definizione dell’altro, sovvertendo il meccanismo espositivo e l’aura dell’istituzione museale. Se il tema del confine è parte del lavoro proposto dall’artista lo spazio che fisicamente l’opera occupa è quello di un limite, il confine tra l’esterno e l’interno. La performance è stata allestita nell’ampio e vuoto vestibolo d’ingresso, in una zona d’attesa e di passaggio verso la scalinata monumentale, prima dell’ascesa alle sale espositive.

L’installazione si compone di pochi e semplici oggetti, una serie di transenne mobili, un tavolo d’ufficio, alcune sedie, che strutturano un ambiente a sé stante, qualcosa che, nella sua essenzialità, possiamo tutti riconoscere. Lo spazio con cui ci confrontiamo è il check-in di un aeroporto, un commissariato di polizia, forse un ufficio postale, luoghi istituzionali dove, in varia misura, si avverte e manifesta l’agire della burocrazia; questi spazi, sempre molto periferici, danno forma allo Stato centrale. La scena che si svolge nella performance, come nella vita, è la cerimonia dell’attraversamento, nel passaggio della frontiera, nell’attesa di un riconoscimento, di un cambiamento di status, sempre sottoposti alla minaccia di un rigetto e dell’espulsione. Sospesi sul limite aspettiamo di poter passare dall’altra parte. Il documento è oggetto e strumento risolutore di questa crisi, per ottenerlo occorre sottoporsi alla prassi burocratica del rilascio.

Le transenne mobili definiscono il percorso, più in là alcune fila di sedie come sala d’attesa, prima di essere chiamati per la foto, la compilazione e la firma. I delimitatori obbligano il transito e disciplinano i nostri corpi mentre ci avviciniamo, cominciamo a muoverci in maniera ordinata e coordinata con gli altri, nei tempi che ci vengono imposti aspettiamo il nostro turno. Ma il percorso non è uguale per tutti, come capita in aeroporto, al passaggio della frontiera, la provenienza e la nazionalità del viaggiatore attivano verifiche differenti; così i controlli previsti per i cittadini non europei sono diversi, più lunghe le code e le attese. Quella transenna stesa, che ancora una volta traccia una soglia, obbliga a stare o di qua o di là, e poi la forma dei corpi in fila che genera una fondamentale distinzione tra un “noi” e un “loro”.

Ma nel lavoro dell’artista questa differenza di trattamento è tutta a nostro svantaggio, le transenne disegnano un percorso tortuoso per i cittadini UE assicurando a tutti gli altri un sentiero lineare e senza ostacoli e, soprattutto, minori tempi d’attesa.

Una volta compiute le pratiche del rilascio il passaggio sarà garantito a tutti, senza alcuna distinzione, a tutti verrà consegnato un PASSA-ACQUE, non un documento di identità ma di viaggio, che permette di attraversare le acque del mondo, riconosce e certifica la possibilità di movimento e quella condizione elementarmente umana di mobilità. Il documento che ci viene consegnato, adeguatamente firmato e timbrato, riporta le generalità del possessore: nome e cognome, data di nascita e di rilascio, senza alcun cenno a dati che potrebbero avere una connotazione geografica o culturale; in calce vengono riportati alcuni articoli della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, unico riferimento normativo.

Il potere di nominare e definire viene esercitato dallo Stato anche attraverso il rilascio e il controllo del documento, attribuendo un’appartenenza che, scritta, prende forma e consistenza. Più che alla complessa questione delle identità il passaporto è legato a quelle prassi amministrative che si giocano sul confine, tra l’ingresso o l’espulsione nel territorio di una nazione, e nel grado d’accoglienza nella comunità (in base agli accordi tra gli Stati), che regolano cose estremamente pratiche come la possibilità di accedere o meno a quei diritti che una determinata cittadinanza garantisce. Ogni volta che ci confrontiamo con il confine di uno Stato, quando occorre superare una frontiera, assistiamo o prendiamo parte a quello che sembra un rituale del passaggio, dove, attraverso la messa in scena di pratiche formali e ripetute, viene celebrata l’appartenenza dell’individuo allo Stato.

L’opera porta dunque a riflettere su un tema, quello delle politiche della cittadinanza, mai scontato per un paese che si è sempre approcciato all’immigrazione come a un’emergenza e che ancora timidamente discute se sia opportuno adeguare la propria legislazione allo ius soli, dove termini quali clandestino, irregolare ed extracomunitario sono spesso nel dibattito pubblico, come nel linguaggio comune, sinonimi di una stessa opaca condizione di marginalità.

In PASSA-ACQUE vengono riprodotte e manomesse le prassi minute dell’attraversamento e il rituale burocratico del passaggio di confine, vengono dunque ridisegnati ruoli sociali legati all’appartenenza nazionale e a quel sentimento di estraneità che si associa alla mancanza di un riconoscimento, di un documento valido. È l’acqua l’elemento a cui l’artista fa riferimento per alterare questo processo, acqua che spezza e distorce quel vincolo che si instaura tra lo Stato, la terra e i soggetti ad essa associati e che il passaporto asetticamente ribadisce.

Lepanto e Trafalgar, come il controllo delle rotte del commercio contro la moderna pirateria, ci ricordano che là dove arrivano gli uomini arrivano gli Stati e le loro leggi, ma, per loro natura, le acque mal sopportano i confini. Così l’elemento acqueo è assunto come principio metastorico che porta a rielaborare legami e sentimenti nazionalistici e spinge a immaginare nuove forme di cittadinanza, nel progetto artistico di Estrada Prada scompaiono le organizzazioni statuali in favore di un’entità globale libera da confini, le Acque Unite del Mondo.

Il progetto proposto dall’artista ci porta dunque a ripensare non solo l’organizzazione moderna della vita associata, nel concetto di Stato, ma anche, inevitabilmente, alcuni dei suoi prodotti più raffinati come i diritti e la Dichiarazione Universale del 1948 che ne è massimo riferimento. Come ricorda Pietro Clemente: «L’universale non è un problema concettuale ma pratico, e riguarda la possibilità che le molteplici pratiche delle molteplici vite possano riconoscersi esplicitamente in orizzonti comuni»2; un ripensamento dell’organizzazione statuale, di cui l’O.N.U. è espressione, non può che  spingerci alla difficile ricerca di questi orizzonti comuni. Ciò è possibile solo se si è disposti a superare i confini disegnati sulle mappe come quei principi normativi che disegnano la vita che entro quelle mappe dovrebbe prendere forma.

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1 Prima relazione di Luigi Pigorini a S.E il Ministro della Pubblica Istruzione, Bollettino Ufficiale del Ministero P.I. 1881, p. 488 segg.
2 Clemente P., La muffa la sentono i forestieri. Qualche nota perplessa sui “diritti umani” degli immigrati, in Santiemma A. (a cura di), Diritti Umani. Riflessioni e prospettive antropologiche, Roma, Euroma, 1998, p. 65.

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Lara Carbonara è dottoranda in Teoria del Linguaggio e Scienze dei Segni (Università degli Studi di Bari Aldo Moro). Si occupa di studi culturali, visuali e postcoloniali focalizzando la sua ricerca  in ambito letterario-artistico. è  diirettrice di una rivista on-liine, ArtSOB Magazine che indaga i campi dell’arte contemporanea;  è una curatrice free lance ed ha diverse collaborazioni.

Marco Salustri è laureato in Discipline Etno-Antropologiche alla Sapienza Università di Roma. Nell’ambito dell’antropologia dell’educazione ha svolto ricerche in alcuni istituti scolastici di Roma, collabora con il Museo Laboratorio della Mente dove si occupa dei Servizi Educativi, fa parte del collettivo Anthropolis che dal 2006 lavora sui temi dell’antropologia urbana e delle società complesse.