L’Europa, ostinatamente cieca alla tragedia contemporanea delle migrazioni per mare, sperimenta in questi anni una vera euforia curatoriale legata a questo tema, purché coniugato al passato. La maggior parte dei musei nati negli ultimi anni rilegge le storie migratorie (locali, nazionali o transnazionali a seconda del focus prescelto) a partire da un luogo-chiave: una stazione marittima, un centro di accoglienza e di quarantena, una dogana. Vi sono narrate più spesso le storie di chi è partito verso il nuovo mondo: da Anversa, Genova, Cobh, Fafe, Gdynia, Bremerhaven, Amburgo, Cherbourg. Più raramente quelle di chi è arrivato, nel XX secolo, in Europa, come nel caso di 19 Princelet Street a Londra, un edificio abitato per molti decenni da immigrati trasformato in luogo di memoria, proprio come il Lower East Side Tenement Museum di New York.1
Quando riescono a evitare la lusinga della narrazione en travesti, i musei delle migrazioni possono diventare spazi riflessivi e luoghi multivocali che stimolano una riflessione sulla contemporaneità: viene infatti da chiedersi quale sia il senso di questo boom museografico in un’Europa che stenta a farsi carico della propria responsabilità verso i profughi, che fa fatica a uniformare le prassi di integrazione e accoglienza, che compie passi avanti e indietro in tema di rispetto dei diritti umani fondamentali.
Come, dunque, rappresentare il tema delle migrazioni di popoli strappandole al déjà-vu della valigia di cartone, coinvolgendo il pubblico in un’interrogazione sul proprio punto di vista, sui temi della cittadinanza, del pregiudizio, della frontiera fisica e percepita, spingendo il racconto alle soglie dell’oggi? Come i musei possono raccontare questo heritage avendo il coraggio di inserirsi in un dibattito più che mai attuale? L’ultimo nato, il Red Star Line Museum di Anversa, inaugurato nel settembre 2013, ha scelto la strada di un doppio registro: da una parte il racconto storico, che non si vuole locale ma veramente transazionale, e dall’altra un’indagine sociale in presa diretta fra gli abitanti della città. Secondo il direttore Luc Verheyen, infatti, nella seconda città più multietnica al mondo dopo Amsterdam non era possibile parlare di migrazioni senza inserirle a pieno titolo entro un racconto corale, dalle maglie larghe.2 Il furgone Ford Transit trasformato in studio di registrazione che ha raccolto le storie dei cittadini di Anversa nei mesi precedenti l’inaugurazione ha permesso di raccogliere un archivio di storie in progress, chiamate a interagire con il museo costruito.
Quella che risuona in questi racconti, come in quelli di altri musei, è tuttavia la voce di chi è arrivato: di chi in qualche modo ce l’ha fatta. Ma chi raccoglie le voci di chi non è partito, di chi è dovuto tornare indietro, di chi non ce l’ha fatta?
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Quello che il mare ricorda
A Zarzis, nella Tunisia meridionale, il Museo della Memoria del Mare – l’unico a mia conoscenza che tratti il tema delle migrazioni in Maghreb – racconta la storia da altri punti di vista, stravolgendo molti luoghi comuni e certezze delle prassi museografiche europee. È il punto di vista della sponda Sud del Mediterraneo, quella riva che raccoglie uomini e donne da molti Paesi africani prima che intraprendano il viaggio verso l’Europa; un punto di vista fieramente contemporaneo, perché raccoglie giorno per giorno quello che il mare trasporta, in una sorta di bollettino antiretorico e oggettivo.
Mohsen Lihidheb, un impiegato delle Poste da poco in pensione che anni fa ha dato ascolto alla sua passione per il mare e per la saggezza che ne proviene, è insieme curatore, eco-artista – così lui stesso si definisce –, scrittore, educatore, oltre che studioso di paleontologia, collezionista, poeta, blogger e molto altro ancora.
Il primo motore della sua azione artistica e testimoniale è stato, anni fa, il richiamo quasi fisico del mare: percorrendo una lunga striscia di litorale, a Nord e Sud di Zarzis, ha raccolto durante le sue passeggiate solitarie rami, corde, sassi, bottiglie di plastica (che gli sono valse il Guinness dei primati), oggetti di qualunque tipo purché interessanti dal punto di vista formale o per l’eco che suscitavano in lui. Questo suo camminare è divenuto, nel tempo, una sorta di pellegrinaggio: un rituale spirituale (nel senso più vasto della parola) in omaggio agli emigrati, alle storie evocate dai loro vestiti e oggetti personali, e soprattutto ai corpi ritrovati sulle spiagge.
Le correnti del mare portano infatti verso questa porzione di costa detriti che arrivano da Nord e da Sud, dalla Sicilia e da Malta, dai pescherecci come dalle navi da crociera: cascami di un mondo contraddittorio, dove estrema miseria e noia si incontrano e si sfiorano, fluttuando sul pelo dell’acqua. Il mare è una tela su cui si disegnano flussi di merci e persone, e in cui le contraddizioni sembrano ricomporsi. Mohsen lo legge come un alleato, un conservatore: infatti il museo è dedicato alla “memoria del mare”, a quello che il mare trattiene di tutto ciò che la storia inghiotte.
Si disegna qui una mappa inedita del Mediterraneo, in cui la forza attrattiva dell’Africa, della terra madre, sembra prevalere sulla possibilità di fuga: qui tornano oggetti, corpi di persone che testimoniano il fallimento di questa colossale corsa l’Europa, quella maledetta chimera fatta di una promessa di ricchezza e benessere che diventa una trappola mortale.
Il mare è vettore di dialoghi nelle due direzioni, eco di voci pronunciate dalla riva verso la sponda antistante; sono dialoghi fatti di parole, oggetti, pensieri, cibo, manufatti. Qualche volta c’è una reazione, altre volte la risposta è immateriale, o dilazionata nel tempo, e se sembra assente quello che conta per Mohsen è il gesto, l’intenzione: quella che chiama “la saggezza dell’azione”.3 Dentro le bottiglie ci sono, a volte, dei messaggi: il più delle volte parlano di solitudine, angoscia e disperazione. Mohsen li conserva tutti, cerca il mittente, e se lo trova lo invita a casa propria, lo festeggia come un amico ritrovato. Lui stesso affida al mare “messaggi in bottiglia”: sono piccoli dolci, legumi, acqua potabile pensati per dare un po’ di sollievo ai migranti durante il loro viaggio, insieme a qualche frase di speranza e di incoraggiamento. Per un certo periodo, quando i venti erano favorevoli, ha anche liberato in mare delle zattere da lui fabbricate.
Il messaggio della bottiglia © Alessandro Brasile (www.alessandrobrasile.com)
Vista del Museo della Memoria del Mare della casa di Mohsen © Alessandro Brasile (www.alessandrobrasile.com)
Il tema della migrazione – di oggetti, persone, fenomeni – attraversa il museo ed è uno dei fulcri principali del lavoro di Mohsen: a partire da alcuni incontri concreti, il più importante fra tutti quello con il cadavere di un migrante chiamato Mamadou, è nata una poetica curatoriale che immerge il tema degli harraga – i migranti “clandestini” – entro un orizzonte filosofico vasto, articolato, imperniato sulla forza dignificante degli oggetti, non importa quanto poveri, banali o anonimi. La vicenda degli emigrati ha trovato posto nel museo in modo naturale, pur non essendo da principio un oggetto specifico di attenzione: la “memoria del mare” è divenuta, proprio negli anni in cui il museo ha preso forma, sempre più memoria dei viaggi sui gommoni o sui pescherecci, spesso di naufragi.
Mohsen ha tenuto traccia di tutto nel suo museo, portandovi scarpe, vestiti, documenti, e soprattutto occupandosi di far seppellire i cadaveri trovati per caso sul litorale, cantandone poi il coraggio e la bellezza. Quando il numero dei morti è diventato troppo alto per poterli accogliere nel cimitero di Zarzis, Mohsen ha fatto di tutto per conoscerne il destino, fisso a ricevere minacce di morte. E allora ha iniziato a raccogliere le membra isolate, parti di corpi mutilati dalla permanenza in mare, e a seppellirli privatamente, in segreto, sulla collina da cui si ha la vista più bella sul mare, con una preghiera.
Diversi registi e fotografi hanno incontrato Mohsen e ne hanno testimoniato il lavoro: fra i primi Fitouri Belhiba, autore di Sacrées bouteilles (FILFIL films, 2004, 26’) e Kamikairy Fares, autore con Giulia Ardizzone de Il postino del Mediterraneo (9’). Fra i fotografi, ho scelto di concentrarmi qui sul lavoro di due autori che hanno lavorato separatamente, rispettivamente nel 2007 e nel 2009: Alessandro Brasile e Mattia Insolera.4
Gli scatti di Brasile, commissionati dal “Venerdì di Repubblica”, sono confluiti in una mostra allestita nel 2007 al Salina Doc Fest. Il museo che Brasile racconta è una foresta di segni, un luogo in cui naturale e umano si contendono la scena e si strappano spazio l’uno all’altro. Un luogo sporco, un cantiere, un laboratorio: qui l’accumulazione e la ridondanza degli oggetti sembrano la premessa della possibilità di accostarli, montarli e smontarli, metterli in risonanza più e più volte. Non sono trattati come “pezzi unici” ma come materiali di lavoro, funzionali alla narrazione. Mohsen vi compare come l’operaio al lavoro, l’artigiano che resiste e reagisce al disfacimento della natura e della storia attraverso l’azione e l’instancabile fiducia nel senso del compito che si è dato.
L’indagine di Mattia Insolera si inscrive nella serie The Path of the Righteous Man, dedicata al viaggio nel Canale di Sicilia,5 parte del più vasto progetto Transmediterranea. Nel museo visto da Insolera la componente interpretativa è forte, il gradiente emotivo alto, pur dentro un lessico antiretorico. Una tensione anima gli scatti, un senso del sacro, una sospensione silenziosa. Mohsen è l’elemento ordinatore, è colui che organizza il caos: piccolo, a fuoco contro il flou degli oggetti che lo circonda, è un modulor, contemporaneo homo ad circulum et ad quadratum. Il suo lavoro, il suo luogo di vita è messo in dialogo con la sponda lampedusana di fronte. Raccogliere, organizzare, documentare, seppellire, sono le azioni gemelle che vengono compiute parallelamente in questi due luoghi. Le distanze si accorciano in un comune lavoro di resistenza, e Insolera mostra l’affinità quasi magnetica che tiene unite le due rive: Mohsen parla a distanza, attraverso i fatti, con Vincenzo Lombardo, l’addetto del cimitero di Lampedusa, con cui condivide la stessa compassione, lo stesso senso di paternità e di responsabilità verso i morti.
Il podio della natura © Alessandro Brasile (www.alessandrobrasile.com)
Scarpe restituite dal mare © Alessandro Brasile (www.alessandrobrasile.com)
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Installazioni, performance, scrittura poetica
L’azione creativa di Mohsen si esprime in una pluralità di modi: il suo è un “open air museum”, una casa-museo (gli oggetti e gli assemblages si trovano nel giardino della sua abitazione), un insieme di opere d’arte ambientale in perenne trasformazione, un atto di denuncia politica rispetto ai temi dello sfruttamento delle risorse naturali e delle migrazioni, uno spazio educativo per bambini, un laboratorio creativo (che Mohsen condivide con un gruppo di ragazzi del posto, ribattezzati i “ninja del mare”), una fonte di ispirazione poetica, uno spazio di performance.
Qui vorrei concentrarmi in particolare su tre linguaggi: l’installazione, la performance e la scrittura poetica.
Non solo per la sua posizione, ma anche per la scelta narrativa ed etica che lo sostiene, quella che il museo produce è cronaca e storia al tempo stesso: il Museo della Memoria del Mare ospita una collezione plastica che si modifica nel tempo attraverso l’accumulo, la giustapposizione, la sostituzione di pezzi, la riattribuzione di significati. Nel tempo, mentre gli eventi passano sotto gli occhi del curatore e la storia fa il suo corso, il museo vi si adatta, si lascia plasmare, si presta a raccontare nuove storie. Smontati e rimontati sotto una diversa specie, gli oggetti della collezione parlano nuove lingue, commentano i fatti del giorno, a seconda dei casi denunciano o descrivono, inveiscono o compatiscono.
Il tema dell’assemblaggio, del montaggio di pezzi, della creazione di installazioni ambientali – sia nel giardino del museo che sulla spiaggia – è centrale per la poetica di Mohsen. Gli oggetti “salvati” dal mare vengono composti e organizzati fino a comporre grandi sculture effimere. Mohsen vi lavora sia da solo (soprattutto nel museo) che con i “ninja del mare”, che definisce “un gruppo ecologico solidale e militante, interessati alla salvaguardia della natura, degli animali e dell’ambiente in generale”.6
Ci sono i cumuli di scarpe e di vestiti trovati sul litorale, pezzi di giocattoli inquietanti nella loro nudità e nel loro essere fuori posto, il “fischietto dell’arbitro assente” che ha perso il momento giusto per fermare l’assurda partita contro la morte, teschi di animali marini giustapposti a oggetti appartenuti agli harraga. C’è un fantoccio che rappresenta Mamadou, simulacro povero, fatto di stracci, ma gigantesco nella dignità che ne emana: nume del museo, sta a sua guardia come una divinità.
Senza titolo © Alessandro Brasile (www.alessandrobrasile.com)
Mamadou al tramonto rivolto al mare © Alessandro Brasile. (www.alessandrobrasile.com)
Con i ninja, partendo dagli oggetti trovati insieme, Mohsen crea strutture che commentano la tragedia degli harraga ed esprimono la compassione verso le vittime: è il caso, per esempio, del memoriale eretto sul Sebkha Touila, il fondo di un lago salato lungo tre chilometri vicino a Zarzis. Una boa rossa da cui parte una lunga fune, cui sono attaccate delle bottiglie di plastica vuote, ondeggia al vento, assecondandolo. Una parte solida e fissa, che sembra una tartaruga, e una coda mobile e vitale come un gamete:
Queste due “creature”, una posata e lenta come il tempo spazioso il cui movimento supera la comprensione umana, l’altra nervosa e spinta dal suo desiderio di vivere e di realizzarsi con l’altro se stesso, simbolizzavano la memoria dei naufragati morti-viventi, assenti-presenti, eroi-bambini, nel tutto e nel nulla, nel deserto e nel mare, nell’infelicità ridondante a Sud e a Nord… una fusione confusione che il movimento del gamete su questo immenso lago salato animerà per sempre, per le anime, gli spiriti e la memoria di queste vittime, e le integrerà nel ciclo della vita attraverso l’arte e la compassione dei ragazzi Ninja.7
Fuori dalle mura del museo, nel paesaggio, Mohsen erige dei monumenti, dei memoriali, sapendoli fin dal principio deperibili e destinati a scomparire. Il mare sputa tutto quello che non gli appartiene; Mohsen lo raccoglie e gli dà forma, lasciando che poi questa forma sia mangiata dagli elementi, che il caos abbia di nuovo il sopravvento.
Oggetti testimoniali appartenuti agli harraga fotografati in casa di Mohsen Lihidheb. © Mattia Insolera (www.mattiainsolera.net)
Un’installazione realizzata da Mohsen con abiti appartenuti agli harraga. © Mattia Insolera (www.mattiainsolera.net)
Anche se Mohsen Lihidheb non ne parla in termini di performance, e se la dimensione del teatro è lontana dalla sua sensibilità e dal senso del suo lavoro, le azioni testimoniali che anima hanno talvolta una componente teatrale. Concepiti in assenza di pubblico, improvvisati, sono atti sostituitivi, compensatori, che vanno a riempire il vuoto lasciato dalla morte, a elaborare un lutto per conto di chi non lo può fare in assenza di una tomba. Così è stato, per esempio, con il “matrimonio della sirena”, che Mohsen descrive così:
Un giorno mi sono imbattuto in un bolero rosso, ricamato, come quello di un torero o di un domatore di tigri, da poco depositato dalle onde sulle spiagge di Elbibane e verosimilmente appartenuto a una ragazza del gruppo degli ʺharragaʺ, gli emigranti clandestini. Allora ho provato un dolore acuto al pensiero di questa vittima ancora bambina, innocente, nel fiore della vita. Ho preso la giacca con molto rispetto per depositarla su un lungo tronco d’albero che avevo già messo sul tetto della mia macchina. Come per segnalare un carico straordinario, ho guidato molto lentamente, senza movimenti bruschi, e quando ho attraversato la città di Zarzis per raggiungere il mio villaggio, Souihel, ho suonato il clacson lungo tutto il percorso come in un vero corteo nuziale. La gente mi guardava stupita, anche se è ormai abituata ai miei colpi di testa. Davanti al mio museo, la rumorosa processione ha fatto una pausa in segno di grande rispetto per questa nuova fata, che entrava in uno spazio di pace e di sogno.
Nel mezzo di questo luogo d’arte ho eretto un memoriale per la bella sirena del mare, composto dal suo bolero rosso fiammante giustapposto ad alcuni assemblages e installazioni. Il bolero non è mai stato messo in contatto con altri indumenti, quelli dei naufraghi adulti, poiché enorme è la loro responsabilità nell’aver influenzato i minori fino a far loro rischiare la vita in questo modo. Ecco allora che, in uno slancio di solidarietà con tutte le vittime e in particolare i ragazzi, fra cui questa sirena del mare, ho fatto con passione questo rumoroso corteo nuziale, questa cerimonia di accoglienza in uno spazio liberato dall’arte e dall’ecologia, e ho creato un memoriale di rispetto. Così questa bambina, la cui vita è stata spezzata dalla stupidità degli uomini, senza scuola, senza gioia, senza aver provato la felicità di vivere, può galleggiare in pace sulle onde del mare, e illuminare i nostri cuori con la luce di ogni aurora.
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Il bolero della sirena. © Mohsen Lihidheb
Una parte importante del lavoro di Mohsen, infine, è affidata alla scrittura. Il blog, strumento diretto e “democratico” per eccellenza, è il primo contenitore delle sue riflessioni; quasi un diario di viaggio delle sue peregrinazioni. Mohsen ne cura diversi, fedele a quell’eclettismo, quasi alla Pessoa, che moltiplica la sua identità in una gamma di rifrazioni.8Boughmiga è l’alter-ego di Mohsen, è il paleontologo (dilettante, ma preparatissimo) che scruta la terra, proprio come fa con il mare, alla ricerca di tracce, detriti, segni. La storia antica e quella contemporanea si congiungono in questa attività da rabdomante, che non si limita a denotare ma seleziona, organizza, gerarchizza. L’obiettivo non è trovare ma capire: è leggere i segni della natura per comprendere il ruolo dell’uomo dentro di essa.
Nel 2013 Mohsen Lihidheb ha pubblicato presso l’editore tedesco Ben Hamida International GmbH il volumetto Mamadou et le silence de la mer. Témoignages et poèmes. Qui l’autore racconta, in poesia e brevi prose, il senso di tutto quanto il suo lavoro, e la connessione fra le azioni di cercare, collezionare, organizzare, assemblare. Qui rilegge il tema del mare come spazio di possibilità e di sfida, grande collettore liquido dei segni di una tragedia umana quotidiana. La parola “testimonianza”, presente anche nel titolo del volume, è centrale: il suo è un lavoro di testimonianza civile e di denuncia, un’azione artistica e politica a tutti gli effetti. La scrittura è brusca e “sporca”, proprio come il museo: la penna di Mohsen, diretta, senza giri di parole, ma immaginifica e fedele e a se stessa, sa essere ora ironica ora grave, ed è sempre di una magnetica spontaneità.
Il viaggio attraverso il Mediterraneo è il filo rosso che tiene insieme queste poesie e brevi prose, come un cruccio che non si riesce a scacciare. A Vincenzo Lombardo, per molti anni becchino del cimitero di Lampedusa, Mohsen, da fratello, ha dedicato la poesia Fra Zarzis e Lampedusa: 9
tu seppellisci i corpi dei miei fratelli
ritrovati a galleggiare sulle onde,
povere vittime Harraga.
Io lo so, lo so che cosa senti
avendolo fatto spesso anche io
con sentimenti a metà
fra rabbia e compassione.
È difficile, è molto difficile, amico mio
essere testimoni di questa infamia
con un senso di impotenzadavanti a questa violenza cinica.
Anche io, sulla costa meridionale,
ho accompagnato umilmente
Mamadou, Ali et Oualid,
con preghiere gridate al cielo
perché il loro calvario fosse udito
dal Dio immenso dell’universo.
Tu non hai seppellito solo i corpi
ma anche l’anima di tutta l’umanità
che stenta ancora a risvegliarsi
e a contenere le calamità.
Tu eri solo davanti a ciascun naufragato.
Lui era solo quando tu l’hai sepolto.
Ciascuno era solo sulle onde del mare.
Ero solo a metterli sotto terra,
erano soli bagnati dal mio sudore.
Solo un uccello volava sopra quella scena
di due uomini che si seppelliscono senza odio.
Sì, amico mio Vincenzo Lombardo di Lampedusa,
io, Mohsen, di Zarzis, soprannominato Boughmiga
siamo di sicuro gli unici amici degli Harraga
che abbiamo trattato bene da vivi, bene da morti,
che abbiamo rispettato come fratelli
tu nel cimitero di Lampedusa,
io sulla mia collinetta di Ras Lemsa.
Grazie a te, mio dirimpettaio dall’altra parte del mare.
Almeno adesso so che rimane ancora
una speranza nel fondo della coscienza umana
per risolvere il dramma dell’emigrazione clandestina
e dare un lavoro ai poveri disoccupati
perché i loro corpi non vaghino più nel mare. .
Mohsen in preghiera nel museo. © Mattia Insolera (www.mattiainsolera.net)
Vincenzo Lombardo nel cimitero di Lampedusa. © Mattia Insolera (www.mattiainsolera.net)
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Un’effimera cartografia
Il Mediterraneo, visto dal museo di Zarzis, ha proporzioni spiazzanti. Lo descriverebbe bene una cartografia che tenesse in conto le rotte delle bottiglie, con i loro messaggi senza destinatario, così fuori dal tempo eppure ancora pieni di senso. Gabriele Del Grande parla delle rotte “non scritte” dei pescherecci siciliani, una cartografia orale che evita i relitti delle barche per non avere intralci, né fisici né burocratici: le migrazioni richiedono nuove cartografie e nuove forme di rappresentazione. Mohsen Lihidheb, attraverso tutti gli strumenti della sua creatività, monta e smonta oggetti, ritrovamenti, parole, dando senso al suo stare sulla riva. Ma il senso non è trovato una volta per tutte, e allora si ricomincia da capo, montando e smontando, accostando, nominando, esponendo. Non per un pubblico, ma quasi per se stesso, in un gesto intimo, che non vuole riconoscimenti né approvazione.
C’è voluto un secolo per iniziare a raccontare in forma museale la storia dell’emigrazione dall’Italia; Mohsen racconta in tempo reale quello che succede sulla costa tunisina, a pochi chilometri dalla Libia. Agli allestimenti-colossal di certi musei europei contrappone una voce singolare, poetica, senza pretese. La sua testimonianza è preziosa perché tiene traccia di una storia in movimento veloce, che nessuno ha tempo di fissare: restano i brevi video dei migranti dai barconi, qualche telefonata, qualche fotografia. Per chi ce la fa, dall’altra parte del Mediterraneo inizia una nuova vita; chi non ce la fa ha qui il suo memoriale, uno spazio di ricerca e di compassione, forse un “sito di coscienza” per una consapevolezza tutta da costruire.
Mohsen nel giardino di casa, divenuto Museo della Memoria del Mare. © Mattia Insolera (www.mattiainsolera.net)
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.1 Fra i molti contributi sui musei delle migrazioni, cfr. Baur, Joachim. 2009. Die Musealisierung der Migration. Einwanderungsmuseen und die Inszenierung dermultikulturellen Nation. Bielefeld: Transcript; Cimoli, Anna Chiara. 2013. Complexity Represented. The Role, Challenges, Paradoxes of Migration Museums, in Red Star Line Antwerp 1873-1934. Antwerp: Davidsfonds Uitgeverij, 164-170, e Id., 2013. Migration Museums, in Basso Peressut, Luca, Francesca Lanz, e Gennaro Postiglione (a cura di), European Museums in the 21st Century: setting the framework, vol. 2. Milano: Politecnico di Milano, 9-107. Cfr. anche Whitehead, Christopher, Susannah Eckersley, e Rhiannon Mason (a cura di). 2012. Placing Migration in European Museums: Theoretical, Contextual and Methodological Foundations. Milano: Politecnico di Milano DPA, e Basso Peressut, Luca, e Clelia Pozzi (a cura di). 2012. Museums in an Age of Migrations. Milan: Politecnico di Milano, DPA.
2 Luc Verheyen ha presentato il museo il 30 ottobre 2013 in occasione della conferenza “Vite in movimento. Storie di persone, affari e idee tra Anversa e Genova” presso il Galata-Museo del Mare e delle Migrazioni di Genova.
3 Mamadou et le silence de la mer, Ben Hamida International GmbH: Adsliswil 2013, s.p. (didascalia alla foto che descrive l’installazione sul lago salato descritta più avanti).
4 I rispettivi siti internet sono www.alessandrobrasile.com e www.mattiainsolera.net. Gli scatti di questi due artisti, molto differenti fra loro per poetica, tono e focus, sono confluiti in una mostra, “La memoria del Mare. Oggetti migranti nel Mediterraneo”, curata da me e presentata a partire dal 2012 al Museo Nazionale Preistorico Etnografico L. Pigorini di Roma, al Galata-Museo del Mare e delle Migrazioni di Genova e alla GAMeC di Bergamo (nel giugno 2014 in programma al Centre de Recherche sur les Migrations Humaines di Dudelange, in Lussemburgo). La mostra è prodotta dal Politecnico di Milano nell’ambito del progetto MeLa*-European Museums in an age of migrations, finanziato dal Seventh Framework Programme (SSH-2010-5.2.2, Grant Agreement n. 266757) ed è stata selezionata nell’ambito della call for ideas “Idee migranti” dal Museo Pigorini di Roma. Gabriele Del Grande, Alessandro Brasile e Stefano Pasta hanno partecipato ai seminari di presentazione organizzati in occasione delle varie tappe della mostra. In occasione dell’edizione alla GAMeC di Bergamo, realizzata dall’Università degli Studi di Bergamo nell’ambito del progetto europeo EUborderscapes, è stato anche organizzato il workshop Memorie migranti, che ha coinvolto cittadini di diverse nazionalità nello scambio di narrazioni a partire da oggetti testimoniali. Gabriele Del Grande ha parlato del museo nel suo libro Mamadou va a morire, Infinito Edizioni: Castel Gandolfo 2007, 110-111, anche sul blog Fortress Europe: http://fortresseurope.blogspot.it/2005/12/zarzis-il-museo-della-memoria-del-mare.html.
5 Il lavoro è stato realizzato in collaborazione con Medici Senza Frontiere e pubblicato su E!, la rivista di Emergency
6 Mamadou et le silence de la mer, 46.
7 Ivi, 47. Questa e tutte le altre traduzioni tratte da questo testo sono mie.
8 Notizie su Mohsen si trovano anche su http://art.artistes-sf.org/mohsen e http://zarzissea.skyblog.com. È autore dei blog http://zarziszitazarzis.blogspot.com; http://bastaharraga-boughmiga.blogspot.it; http://zarzisasppz.blogspot.it; http://azizi-bouazizi.skyrock.com (in arabo); http://boughmiga.skyblog.com.
9 Mamadou et le silence de la mer, 77-78.
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Anna Chiara Cimoli è una storica dell’arte e museologa formatasi all’Università Statale di Milano e all’Ecole du Louvre di Parigi. Ha conseguito un dottorato al Politecnico di Torino. Si occupa di storia dei musei e degli allestimenti di mostre temporaneee; su questi temi ha pubblicato, fra l’altro, Musei effimeri. Allestimenti di mostre in Italia 1949-1963 (il Saggiatore 2007) e, con Fulvio Irace, La divina proporzione. Triennale 1951 (Electa 2007). Collabora al progetto MeLa*-European Museums in an age of migrations, nell’ambito del gruppo di ricerca del Politecnico di Milano, studiando in particolare i musei delle migrazioni, con un focus specifico sulle loro pratiche inclusive e sulle loro forme di interazione con il pubblico.