L’acqua ricorda sempre.
– M. J. Alexander
.
Questa scrittura desidera scavare nella memoria liquida e performativa del Mediterraneo, in un mare che, come un archivio, conserva e distrugge, trattiene e lascia emergere, i gesti danzanti delle soggettività che lo attraversano. In transito tra i confini labili della danza, della performance e della video-arte contemporanea, questa immaginaria coreo-grafia sulla pagina s’immerge in uno spazio critico poroso, che assorbe e lascia affiorare i movimenti e le storie corporee – ‘ondeggianti’, ‘scoperte’ e ‘s-velate’ – della creatività femminile. Consulto, quindi, un ‘matri-archivio’: un deposito altrettanto immaginario, ma tangibile, che ospita le tracce performative, personali e collettive, e che documenta la comprensione complessa, ‘altra’ e disseminata, di ciò che emerge dal Mediterraneo – dal suo passato, dal suo presente e dal suo futuro. Nel matri-archivio del Mediterraneo, le donne si fanno ‘arconti’: esse “comandano” la scrittura del proprio sé; infrangono gli ordini patriarcali, culturali e sociali; danzano e contro-danzano; emergono sulla scena del contemporaneo per “cominciare” un percorso, politico e personale, verso un nuovo sapere coreografico.1
Se, come scrive Iain Chambers, parlare del Mediterraneo, della sua liquidità critica e creativa, implica l’apertura di “un varco su un altro modo di dire […], in cui la movenza del corpo, la performance di una poetica, […] eccedono la logica finita di […] una mappa, un archivio, una legge”, la logica dello “spaesamento”, proposta dello studioso, viene qui accolta per descrivere le forme della poetica della ‘danza’ che eccede dagli archivi dove solitamente essa si conserva, emerge in altre ricerche coreografiche, e richiede, perciò, altri sguardi critici, e liquidi, per essere interpretata.2 Il flusso della scrittura approda, pertanto, ai confini dell’Algeria per consultare i movimenti ‘ondeggianti’ della danzatrice Nacera Belaza; si avvicina ai bordi dalla Turchia per ricercare i segni ‘nascosti’ e ‘scoperti’ dalla coreografa Geyvan McMillen, e infine, sfiora le frontiere della Siria per toccare la corporeità ‘s-velata’ della video-maker Nisrine Boukhari. L’Algeria, la Turchia e la Siria sono gli spazi dove le artiste, nella differenza, radicano i propri linguaggi danzanti per disseminarne il ricordo oltre le barriere nazionali e performative; sono i luoghi che assorbono i ‘sensi’ di un’appartenenza identitaria continuamente ri-definita; sono, inoltre, le tappe di una geografia che il mio stesso corpo scrivente percorre, consultando le opere delle artiste in un ordine cronologico a ritroso, per scavare, e per lasciare infine emergere, i gesti dell’agentività femminile che danza sul palcoscenico del Mediterraneo – con un moto posizionato e nondimeno fluttuante.
.
I gesti ‘ondaggianti’ di Nacera Belaza
Don’t justify the movement, there are so many reasons to move.
– Nacera Belaza
In un primo atto di consultazione, affiora nel matri-archivio del Mediterraneo la memoria corporea di Nacera Belaza. Danzatrice e coreografa nata a Médéa, in Algeria, e cresciuta in Francia, dove studia letteratura francese prima di dedicarsi definitivamente alla danza. Nel 1989, fonda la Compagnie Nacera Belaza, un gruppo di lavoro che incorpora le differenze performative del Mediterraneo: i suoi performers, difatti, arrivano dal Libano, dalla Tunisia, dall’Egitto e dalla Palestina, per esibirsi dentro e oltre i contorni dell’Europa. Belaza approccia la danza da autodidatta, senza seguire scuole e tecniche codificate rifiuta qualsiasi pratica accademica che comandi il suo corpo dall’ ‘esterno’; per cui la danzatrice parte da sé stessa, dalla sua storia: “I never took contemporary dance because I knew I didn’t want to learn anything from outside. I had no choice. I had to find my own path. I had to find another way to live in my body, to make it move […], and what is the best starting point if not yourself?”3 Belaza rintraccia e scava nello spazio interno, sensibile e sacro, della sua fisicità, per trasformarsi ed emergere nello spazio esterno: “When you go inside yourself, you create the space. You create the consciousness of the space. It’s not the space as it is. You transform the space with this consciousness.”4 Nelle sue investigazioni, la coreografa algerina concepisce uno spazio in cui il tempo non ha ruolo definito, ma infinito nella sua finitezza, per richiamare, a sé e da sé, un zona di condivisione: “for a space, in which time no more plays a role, a space, in which we touch upon the infinite and finally are able to share something.”5
Consultando Le Cri, una coreografia del 2008, Belaza, in scena con la sorella Dalila, affonda il proprio movimento in uno spazio atemporale e in penombra.6 Le due performer, di poco distanziate l’una dall’altra, iniziano e continuano la propria incisione grafica con lenti movimenti rotatori delle braccia, ondeggiano e fluttuano restando radicate nello stesso punto di approdo scenico. La lentezza dei movimenti circolari si reitera per gran parte della performance; solo dopo circa venti minuti dall’inizio dell’evento, quando la musica incalza e la luce aumenta, si avvertono le variazioni del moto ondeggiante. Ed è allora che le donne ‘emergono’: raggiunto uno stato di trance coreografico, esse dichiarano una contro-danza di ribellione, lanciano ‘urla’ con il proprio corpo danzante, tagliano con frenesia, e graffiano con irregolarità, lo spazio di azione, solcano l’aria sprigionando un’energia primaria, dall’interno verso l’esterno.
Le cri, Nacera Belaza – 2008. Photo © Laurent Philippe
I loro gesti ‘urlanti’ si muovono sulle onde sonore di voci e culture dissonanti, disperse nell’aria a volumi alternati e a tempi differiti: si transita dalla sacralità del canto arabo di Larbi Bestam alla voce calda di Maria Callas, dal timbro blues di Nina Simone a quello soul di Amy Winehouse. La qualità minimalista della danza ipnotizza l’audience che, seppur fermo, attraversa un paesaggio fatto di tracce sensoriali. Nacera Belaza apre alla scena il proprio ‘corpo-archivio’, algerino, postcoloniale e transnazionale, per condividere la pulsione da cui parte il suo ‘grido’ di affermazione identitaria e danzante:
When I started to dance, it was like when you start talking or singing or walking; you realize it’s a way to express yourself […]But I was in a context that didn’t allow me to practice dance for many reasons, so I had to find a way. For example, in Le Cri…we are stuck in the same place onstage[…]digging inside of us, trying to find a very deep energy to throw out. This is how I did it in my life. I couldn’t go out, I couldn’t travel, I couldn’t explore, so I said, okay, I will dig inside of myself. It’s another way to find freedom.11
Le urla dei ripetuti movimenti tecnici – lenti o frenetici, sussurrati o esposti a gran voce – risuonano nella ricerca poetica di una libertà corporale, di un equilibrio danzante tra le ‘contraddizioni’ che s’intersecano nel suo sé: “I realized that the human is really a balance between many contradictions […] And I had to deal with those [contradictions] because I am woman, Arabic, Muslim, and at the same time I want to dance.”12 Le Cri documenta il moto agitato – di agency – di una soggettività femminile che emerge dal Mediterraneo per cominciare un nuovo rituale di appartenenza coreografica e identitaria, oscillante e nomadica. La cinetica delle scie, generata dai corpi senza fissa dimora di Nacira e Dalila, sembra propagarsi oltre la scena confluendo nel movimento delle soggettività nomadi descritte da Rosi Braidotti – un corpus teorico distante ma similmente ‘connesso’ – che scrive: “Il nomade è un’entità trasgressiva, la cui natura transitoria è il vero motivo per il quale può fare delle connessioni. E quindi il nomadismo non è la fluidità priva di confini, bensì la precisa consapevolezza della non fissità dei confini. È l’intenso desiderio di continuare a sconfinare, a trasgredire”.13
Le cri, Nacera Belaza – 2008. Photo © Agathe Poupeney
Onesto e consapevole della non fissità dei suoi contorni identitari, algerini e francesi, in Le Cri, il corpo di Belaza danza con gesti che trasgrediscono la visione disciplinata dello spettatore: “The movements on stage are not made to make the spectator feel good, nor to please the spectator […] It is just a way to be truly honest and sincere with oneself.”14 Belaza eccede la comprensione, e la stessa percezione visiva, quando le immagini ‘ondeggianti’ travalicano i termini effimeri dell’evento live per migrare nella liquidità del video. A chiusura della performance, infatti, le danzatrici si eclissano alla presenza reale per riapparire, come entità spettrali, su uno schermo. La danza che rivive, e sopravvive sul/nel video, si ripete: i due corpi del Mediterraneo ri-emergono con gli stessi movimenti rotatori; ora fluttuano su un altro spazio di archiviazione per continuare a collezionare scie di memorie, e a sconfinare dal sé, all’Altra da sé, del Mediterraneo.
.
I gesti ‘scoperti’ di Geyvan McMillen .
My choreographic idea is to do something that’s never been done with all this information we have had in our lives.
– Geyvan McMillan
.
Il viaggio nelle memorie ‘altre’ del matri-archivio del Mediterraneo prosegue per approdare temporaneamente sulle sponde della Turchia, e più precisamente nella sua città più liquida: Istanbul. Qui, si consulta l’opera di ri-elaborazione coreografica condotta da Geyvan McMillen, l’artista oggi conosciuta come la pioniera della danza moderna in Turchia. Dopo aver appreso le pratiche folkloristiche al Turkish Conservatory, McMillen studia le leggi del balletto occidentale importate da Dame Ninette de Valois.15 La danzatrice turca, in aggiunta, continua a collezionare saperi e linguaggi altri, quando il suo corpo-archivio, attraversando i confini dell’Europa e dell’America del Nord, si schiude alle tecniche moderne (Graham) e postmoderne (Cunningham). Le ‘informazioni’ coreutiche assorbite, dentro e fuori il paese d’origine, si preservano nell’impegno accademico di McMillen presso il Corpo di Ballo dell’Opera di Stato, e si trasmettono nella direzione del Dipartimento di Danza Moderna dell’Università Yıldız Technical di Istanbul, o nel suo contributo creativo all’Istanbul Dance Theatre (IDT+), che fonda nel 2002.16 La donna si fa dunque ‘arconte’ di un patrimonio coreografico rinnovato sulle influenze, e sulle differenze, delle pratiche occidentali; la sua stessa identità turca si conferma e si arricchisce, e in tale senso McMillen afferma.
[…] I am Turkish and I work within that culture and body. I am not nationalistic. But I do say: I cannot be a Westerner. We eat differently, we talk differently, we communicate differently, we have different rhythms in our bodies and we have different music. Everything is very different from the West. But also I have to follow what we have today in this culture, not go back to the old culture.17
Nel desiderio di ‘scoprire’ i turbamenti e i silenzi della Turchia moderna, non priva di contraddizioni, McMillen conduce un’investigazione riflessiva sulle ferite impresse nella memoria corporale femminile. La sua opera del 2006, Mahrem, ovvero “le nascoste”, si consegna al matri-archivio del Mediterraneo come un’evocativa testimonianza di resistenza che le donne turche rilasciano contro il velo della modernizzazione culturale e sociale, con cui l’intero paese si mostra, e talvolta si maschera, oltre i sui confini.18 Mahrem è una cronaca di abusi, una storia più che personale collettiva, ed è costruita sulle azioni violente che le donne, in qualsiasi società patriarcale, subiscono, ma non possono raccontare – non possono emergere. McMillen rompe il segreto di ciò che è osceno, fuori dalla scena, e usa la danza per narrare quadri di sottomissione sessuale, gesti di soprusi e di brutalità che mortificano i corpi femminili dentro, e al di là, le mura domestiche nazionali. Nelle parole della critica Rossella Battisti, McMillen rivela “l’altra metà del cielo oscurata e mortificata da un fondamentalismo di ritorno che vuole le donne soffocate, succubi e schiave. L’irresistibile predominanza di un maschile violento e prevaricatore, pauroso e aggressivo del manifestarsi femminile.”19
Mahrem (The Hidden), Geyvan McMillen, 2006. Photo © Fatih Cevahiroglu
Con una danza dura e ‘scoperta’, nella tecnica e nel soggetto, McMillen sembra sollevare l’antico quesito: chi è la donna? Quel corpo madre-riproduttrice di cui controllare i desideri e i movimenti, o è un soggetto autonomo, che può scegliere chi essere, per quanto le sia concesso, sia pure in quell’occidente ‘liberato’ dove si nascondono analoghe storie di aggressività? Sono domande che riecheggiavano, dapprima, nelle riflessioni della franco-algerina Hélèn Cixous che, scrivendo del/sul corpo femminile, chiedeva “cosa vuole la donna?”; e a questo faceva seguire un altro quesito, “come prova piacere?”: “What is it – feminine jouissance – where does it happen, how does it inscribe itself – on the level of her body or of her unconsciuos? And then, how does it write itself?”20 Nella liquidità dei tempi e degli spazi che le separano, ma negli intenti che le uniscono, McMillen risponde a Cixous con una scrittura che vuole scoprire, e incarnare, la jouissance dei corpi femminili. Dopo le scene di possessione corporale – in cui le donne sono scosse, violate e infine nascoste, per mano di due uomini, in un lungo velo scuro – nelle ultime frasi di Mahrem, i corpi femminili iniziano lentamente a liberarsi e a ‘scoprirsi’.
Mahrem (The Hidden), Geyvan McMillen, 2006. Photo © Azmi Dölen
Le danzatrici, emergono dal velo che ne tratteneva l’espressione e ne incastrava la visione, schiudono il silenzio corporeo portando gradualmente alla luce la loro figura sinuosa, bella e sovversiva. Nella tecnica della danza contemporanea esse occupano lo spazio, curano le ferite – ancora vive nella tensione dei gesti –, e finalmente si scoprono lasciando intravedere la propria nudità. Entrambe contro-danzano per sè stesse, in un’essenzialità che mostra sesso e gender come materiale poetico, emblematico ed esplicito. Prima di abbandonare la scena, serrano le labbra con l’indice, e con il ‘gesto del silenzio’ sembrano dire ai testimoni impassibili di questo evento: “questo è il nostro corpo, questa è la nostra resistenza!” Nella silenziosa poeticità del linguaggio danzante, allora, le donne voltano le spalle agli spettatori e si dirigono verso un ‘mare’ di uomini. Sul fondo, difatti, sono proiettate le sagome sfocate di corpi maschili che, come onde, si dislocano sul telo bianco in diverse misure e identità.
Mahrem (The Hidden), Geyvan McMillen, 2006. Photo © Fatih Cevahiroglu
Nel tragitto verso la moltitudine di corpi maschili schierati sullo schermo, le donne ‘emergono’ con un’andatura fluida e decisa. Il loro passo imperativo traduce il monito lanciato più tardi sulla pagina da Elif Shafak, scrittrice turca che oggi narra i ‘gesti’ della condizione femminile nella società patriarcale, locale e universale, e che qui sembra suggerire alle danzatrici: “Do not go with the flow. Be the flow.”21 Nel non-detto della danza, McMillen scopre ciò che resta incastrato tra le barriere di una cultura che, nella sua stessa liquidità trasformativa e moderna, reitera la durezza inenarrabile degli atti compiuti sul corpo femminile; un corpo che porta i segni di una vergogna, a noi molto vicina, che non si può omettere, archiviare e nascondere, ovunque accada, dentro e fuori il Mediterraneo.
.
I gesti s-velati di Nisrine Boukari
Is it important to define again this veil who covers all the meanings?
– Nisrine Boukhari
Danzando sulle memorie occultate di questo matri-archivio immaginario, un ultimo documento emerge dal deposito espressivo della video arte contemporanea. Varcando le impenetrabili frontiere delle Siria – dove anche l’accesso web è tutt’oggi sotto sorveglianza – si consulta The Veil, un’opera del 2006 della video-artista Nisrine Boukhari.22 Il nome di questa donna conserva le tracce delle sue origini in Uzbekistan, paese che la famiglia lasciò negli anni cruciali della rivoluzione russa per migrare in Siria. Boukhari nasce e cresce a Damasco, oggi vive e lavora tra la sua città natale e Vienna, ed è co-fondatrice di “AllArtNow”, uno spazio culturale e politicamente impegnato, attivo nel centro antico della capitale siriana e devoto allo sviluppo dell’arte contemporanea nel paese.23 Nella sperimentazione artistica, Boukhari fa coabitare diversi linguaggi e media, i suoi lavori testimoniano la ricerca creativa nei colori monocromatici e nelle abilità sensoriali e interattive che risultano tra immagine, luce e suono. Boukhari non è né coreografa né danzatrice, eppure, in The Veil, l’artista scrive sulla freddezza dello schermo il calore di un corpo che danza, che freme e preme su un velo rosso. La materialità distesa del velo monocromo ricorda la liquidità del Mediterraneo che bagna la sua identità siriana, mentre l’entità che emerge dentro, e dietro, la trama sembra muoversi e fluttuare come una medusa: il simbolo di una corporeità femminile, altra e ribelle.24 Boukhari coreografa gesti effimeri che s’inscrivono e si dissolvono al ritmo di un suono frattale e frammentato. Si distinguono i tocchi delle mani che pesano, premono, spingono, scivolano, stringono, e distendono la superficie su cui si muovono. Il colore, solitamente privo di gravità, qui assume spessore e pesantezza grazie all’intensità palpabile del rosso vivo, al punto da suscitare una percezione tattile all’occhio di chi ‘tocca’ l’immagine-velo dell’artista siriana. La teorica di cinema Laura Marks, nell’analisi condotta sulle opere video del Medio Oriente, ricorre alla formula haptic visuality per definire la reazione sensibile, analoga alla percezione del tatto, che l’occhio può esperire.25 In una visione ancor più estesa e corporea, la filosofa e psicoanalista belga Luce Irigaray, nel saggio Elogio al toccare, contempla il tatto come l’esperienza che ‘svela’: “il faro che illumina[…]tutte le nostre relazioni esistenziali”.26 Irigaray, infatti, invita ad abbandonarsi alla conoscenza del sé attraverso il tatto, ma soprattutto a entrare in ‘con-tatto’ con l’altro da sé, per cogliere ciò che è invisibile – il non ancora corpo – ciò che sta per emergere da dentro. In tal senso, le parole di Boukhari chiariscono l’uso di una tecnologia tattile, in cui lo schermo si trasforma per velare i gesti astratti e lasciare solo immaginare l’intera parte che è oltre il velo, ed è invisibile: “The screen has been transformed here to this raging red veil pushed by some movements of hands who express the whole body through forms of performance, abstraction and inspiring symbol which raise the imagination of the audience about what beyond the veil.”27
The Veil, Nisrine Boukhari – 2006. Video still © Nisrine Boukhari
Toccando la pelle di queste immagini, il nostro occhio ‘tocca’ il velo rosso senza toccarlo o afferrarlo, ma solo accarezzarlo: non possiamo svelare l’identità e la soggettività celata, forse incastrata, oltre il velo, ma possiamo seguirne la pulsante e-scrizione, possiamo approssimarci al senso della danza che la muove, possiamo sfiorarne la significazione restando sul ‘bordo’ dell’in-visibile. Nell’esperire The Veil, restiamo, come direbbe il filosofo francese Jean Luc Nancy, “sull’orlo di un senso sempre sul punto di nascere, sempre in fuga, a fior di pelle, a fior d’immagine”.28 Ed è così che, nell’in-visibilità corporea di questa coreografia di gesti, anche la differenza sessuale sembra sottrarsi: i calchi, i tocchi, gli abbozzi e i profili indefiniti di questi cenni danzanti, ci invitano a trovare un altro accesso, a consultare un altro archivio. Nell’intersezione concettuale e percettiva del ‘non sapere’ e del ‘non-vedere’, si rivela il senso della danza stessa e della sua impenetrabilità.29 L’opera perfor(m)ante di Boukhari fa emergere un corpo pensante-danzante-non danzante che anziché mostrarsi nella sua corporeità esterna – come voleva e vuole la tradizione classica, in oriente ed occidente, ma come vuole anche la tradizione moderna e contemporanea, pur insegnando nuove pratiche ed estetiche – esso/essa preferisce donarsi nella sua incompiutezza, nel suo dis-orientamento, come un “baco da seta” nel suo stato di maturazione, come una nuova identità che è sul punto di apparire per svelarsi o ri-velarsi, nelle sue potenziali forme a-venire.30 Ed è esattamente nell’attesa, in questo intervallo temporale non ancora visibile, che l’artista siriana permette allo spettatore di The Veil di s-velare a suo modo le virtualità incalcolabili che maturano dentro e fuori il corpus singolare-plurale di questo velo, nella ‘promessa’ di altre corporeità non ancora emerse nella memoria della danza – oltre il femminile e oltre ogni linguaggio. Le memorie danzanti, qui brevemente consultate, benché fluttuanti nella materialità poetica e nella temporalità effimera del linguaggio in cui si mostrano, attivano con forza la perfomatività della storia più recente, e non meno dolorosa, del Mediterraneo. Nei gesti agitati di Belaza ci sono le ‘onde’ rivoluzionarie della primavera araba; nei gesti crudi di McMillen si testimoniano le ‘scoperte’ di un femminile ‘globale’ che condivide e sfida ogni tipo di abuso corporale; mentre, nei gesti toccanti di Boukhari si ‘svelano’ le lotte, le attese e le speranze, emergenti da una nuova identità siriana e libera. Nei gesti, infine, del mio corpo scrivente c’è la tragica memoria dei migranti rimasti incastrati nell’infame liquidità del Mediterraneo, o respinti verso i duri confini sovrani dell’Europa. Se, nelle parole di Jacques Derrida, l’archivio “è una questione di avvenire, […], di una promessa e di una responsabilità per il domani”;31 forse il matri-archivio qui immaginato, porta con sé la responsabilità e l’urgente promessa di offrire ai corpi emergenti dal Mediterraneo accoglienza – nello spazio politico, e nello sguardo storico, della memoria italiana dell’oggi e del futuro.
.
Link video – Mahrem, Geyvan McMillen http://vimeo.com/7514483
Link video – Le Cri, Nacera Belaza http://www.sadlerswells.com/screen/video/985355643001#
.
.
1 J. Derrida, Mal d’archivio. Un’impressione freudiana, Filema, Napoli, 2005. Il filosofo franco-algerino rileva, nell’etimologia del termine ‘archivio’, l’intersecazione di due principi: il “cominciamento[…], là dove le cose cominciano”, e il “comando[…], là dove si esercita l’autorità e l’ordine sociale”, cfr. p. 12. Tali ordini sono qui tradotti in una prospettiva performativa e femminile, dove sono le donne, quindi, a gestire e tramandare il sapere di una determinata pratica coreutica.
2 I. Chambers, Le molte voci del Mediterraneo, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2007, p. 11.
3 Cfr. N. Belaza in A. Osterweis blog: http://pica.org/2013/09/10/inside-spaces-spaces-inside/
4 Ibidem.
5 Cfr N. Belaza http://www.moussokouma.de/en/companies/nacera.html.
6 Le Cri, coreografia di N. Belaza; interpreti: Dalila Belaza, Nacera Belaza; luci: Éric Soyer; regia: Christophe Renaud; video N. Belaza, Compagnie Nacera Belaza – premiere 2008. VIDEO: http://www.sadlerswells.com/screen/video/985355643001#.
7 Cfr. N. Belaza in A. Osterweis blog: http://pica.org/2013/09/10/inside-spaces-spaces-inside/
8 Ibidem.
9 Cfr N. Belaza http://www.moussokouma.de/en/companies/nacera.html.
10 Le Cri, coreografia di N. Belaza; interpreti: Dalila Belaza, Nacera Belaza; luci: Éric Soyer; regia: Christophe Renaud; video N. Belaza, Compagnie Nacera Belaza – premiere 2008. VIDEO: http://www.sadlerswells.com/screen/video/985355643001#.
11 N. Belaza http://pica.org/2013/09/10/inside-spaces-spaces-inside/
12 Ibidem.
13 R. Braidotti, Soggetto nomade: femminismo e crisi della modernità, Roma, Donzelli, 1994, p. 5.
14 N. Belaza cfr. http://pica.org/2013/09/10/inside-spaces-spaces-inside/.
15 Dame Ninette de Valois (1898-2001) è la storica fondatrice del Royal Ballet di Londra, la custode e promotrice del balletto classico inglese; vedi in tal senso il suo ruolo ‘imperialistico’ nella diffusione del balletto in Turchia negli anni trenta e quaranta del Novecento, in S. Bauer, “Modern Dance Developments in Turkey, 1990-2005”, World Dance Alliance Global Assembly 2006 – Proceedings http://www.worlddancealliance.net/Publilcations.html.
16 Cfr. IDT+ http://www.istanbuldanstiyatrosu.com/index1.php?dl=2&mn=1.
17 G. McMillen, “If you eat only spinach, it makes you become spinach, interview with Geyvan McMillen” vedi: internationaler tanzaustausch ruhr 6/13.12.2002 – 13.12.2002, http://old.pact-zollverein.de/medien/_english/_pdf/workingfields/danceexchange/PACT_danceexchange2002_docu.pdf.
18 Mahrem (The Hidden), coreografia e video installazione: Geyvan McMillen (Istanbul Dance Theatre); produzione RPM Radar CDP Europe, Hayaka Fabrics, Yildiz Technical University; scenografia e costumi: Dilara Akay; disegno luci: Yildiray Karacayir; Musica: Mercan Dede – 2006. VIDEO: http://vimeo.com/7514483
19 R. Battisti, catalogo Biennale di Venezia, Festival di Danza Contemporanea, Underskin, dir. artistica Ismael Ivo, 2006.
20 H. Cixous, “Sorties: Out and Put: attacks/ways, out/forays”, in H. Cixous, C. Clément, The Newly Born Woman, Manchester University Press, Manchester, 1986, p. 207.
21 E. Shafak, The Forty Rules of Love: A Novel of Rumi, Penguin Book, London, 2009.
22 The Veil, video e montaggio: Nisrine Boukhari – 2006. Sito web dell’artista: http://nisrineboukhari.com.
23 Vedi “All Art Now”, http://www.allartnow.com.
24 In H. Cixous “Il Riso della Medusa” (Critiche femministe e teorie letterarie, Bologna, CLUEB, 1997), la pensatrice franco-algerina rilegge il saggio di Freud sulla “Testa di Medusa”, trasforma la figura mitologica in una donna sorridente e sovversiva in grado di destabilizzare la cultura patriarcale, per affermare il del proprio corpo scrivente nell’écriture feminine.
25 L. Marks, The Skin of the Film: Intercultural Cinema, Embodiment, and the Senses, Duke University Press, Durham, NC, and London, 2000; L. Marks, Touch: Sensuous Theory and Multisensory Media, University of Minnesota Press, Minneapolis, 2002.
26 L. Irigaray, Elogio del toccare, Il Melangolo, Genova, 2013, p. 34-37.
27 N. Boukhari, vedi http://nisrineboukhari.com/video-art.php.
28 J. L. Nancy, F. Ferrari, La pelle delle immagini, Bollati, Torino, 2003, p. 8-9.
29 H. Cixous, J. Derrida, Veli, Alinea, Firenze 2004.
30 J. Derrida, “Un baco da seta. Punti di vista trapunti su un altro velo”, in Veli, cit.
31 J. Derrida, Mal d’archivio, cit., p. 48.
.
.
Annalisa Piccirillo è Dottore di ricerca in “Studi Culturali e Postcoloniali del Mondo Anglofono” (Università degli Studi di Napoli “L’Orientale”) e ha elaborato una tesi dal titolo “Coreografie disseminate: ‘corpi-archivio’ della danza femminile”. Nell’a.a 2012-2013 è stata Assegnista di ricerca presso il Dip. di Scienze Umane e Sociali (UNIOR) e ha condotto un progetto dal titolo “Nuove pratiche di memoria: ‘matri-archivi’ del Mediterraneo”. Nel 2011 è stata Visiting researcher presso il Dip. di “Theatre and Performance Studies” della University of Warwick (UK). Il suo lavoro di ricerca sviluppa l’intersezione tra studi culturali e analisi coreografica, prediligendo la critica di genere. Ha partecipato a convegni nazionali e internazionali, e ha pubblicato saggi su riviste accademiche. È cultrice della materia nel settore: L-LIN/10 in “Letteratura Inglese” (UNIOR).