I bianchi credevano che, qualunque fosse la loro educazione, sotto ogni pelle scura si nascondesse una giungla. Acque vorticose non navigabili, babbuini che si dondolavano gridando, serpenti addormentati, gengive rosse pronte a succhiare il loro sangue dolce di bianchi. In un certo senso, pensò, avevano ragione. Più la gente di colore si sforzava di convincerli di quanto fossero gentili, intelligenti e affettuosi, umani, più si usavano a pretesto per persuadere i bianchi di qualcosa che i negri credevano fosse fuori discussione, e più la giungla dentro si faceva fitta e intricata. Ma non era la giungla che i negri avevano portato con sé in quel posto dall’altro posto (vivibile). Era la giungla che i bianchi avevano piantato loro dentro. E cresceva. E si allargava, si allargava prima, durante e dopo la vita, fino a coinvolgere i bianchi stessi che l’avevano creata. Li rendeva crudeli, stupidi, più di quanto non volessero esserlo, tanto erano spaventati da quella giungla di loro creazione. I babbuini urlanti vivevano sotto la loro pelle bianca, le gengive rosse erano le loro.1
Fortunato, uno degli attori è stato letteralmente sommerso da una coltre di coperte colorate di tutti i tipi, il suo corpo riesce a restare in piedi solo qualche secondo, poi crolla a terra schiacciato dal peso. E’ reclinato su un fianco come una barca insabbiata o un grosso cetaceo spiaggiato, la Miranda shakespeariana gli urla: “Tartaruga, pezzo di fango, maledetto, miscredente, mostro marino… figlio di troia, bestia! Cosa fai, non rispondi, fai finta di essere morto? Parli la mia lingua o no. Eh? Le capisci le mie parole??? Sono io che ti ho insegnato a parlare…” poi si allontana e riprende: “Io che ho dato alle tue intenzioni parole che te le fecero conoscere. (…) Girata verso l’altro attore, Glen, dice ancora: “È un SELVAGGIO, signore, e non mi piace guardarlo!” e Glen: “Non possiamo, Stando così le cose, farne a meno: è lui che accende il fuoco, porta dentro la legna e ci rende degli utili servigi” gli dà un calcio e aggiunge: “Dai vieni fuori, e baciami il piede! Sei nato per questo, no?”. Un’immagine che in un folgorante presente mette insieme La tempesta di Shakespeare, Une tempête di Aimé Césaire e le immagini degli sbarchi e dei migranti morti a Lampedusa: è una delle scene più forti del nuovo spettacolo dei Motus Nella Tempesta. La prima frase che mi viene subito alla mente è la definizione di storia di Walter Benjamin: “Articolare storicamente il passato non significa “conoscerlo proprio come è stato davvero”. Vuole dire impossessarsi di un ricordo così come balena in un attimo di pericolo”.2 Come si può connettere quanto accade fuori dal teatro, su una spiaggia di Lampedusa, e il racconto della Tempesta di Shakespeare? Esistono ancora un dentro e un fuori possibili tra scena e “reale”, ammesso che il teatro non sia reale? Il “reale” trova una sua rappresentazione nella scena? Nell’incontro alla fine dello spettacolo con i Motus, nella tappa al teatro degli Atti a Rimini, Daniela Niccolò e Enrico Casagrande tornano spesso sul fatto che la realtà non viene rappresentata nello spettacolo, ma irrompe sulla scena in tutta la sua urgenza e finisce per cambiarlo. Io ho visto una prima versione a luglio a Fies Festival a Drò3 e poi sono tornata a vederlo a Rimini, qualcosa mi diceva che questo lavoro vive di una sua progettualità interna, che ci costringerebbe ad essere spettatori nomadi che lo seguono a ogni nuova tappa della rappresentazione. Nella Tempesta compone una tale necessità, impersona nel suo corpo una tale urgenza di prendere aria nella scena e di buttarla fuori in strada, o viceversa, che mi sembra polverizzi la questione del dentro e del fuori.
Calibano della Tempesta di Shakespeare è il mostro, sottomesso e depredato proprio perché “diverso”, usato e deriso, dominato e oltraggiato da Prospero che lo schiavizza perché ne vuole usurpare la terra, ma che al contempo non può fare a meno di lui. Calibano di Aimé Césaire, scrittore della Martinica, teorico della negritude, che (ri)scrive une tempête, è lo schiavo che riguadagna la sua libertà, che si ribella, che ritrova la sua capacità di rivolta. Césaire è la rilettura postcoloniale di un classico della letteratura inglese. I Motus innestano nel cortocircuito tra queste due versioni l’irruenza delle nuove navi negriere che trasportano corpi attraverso il Mediterraneo all’inizio del nostro XXI secolo. Nel momento in cui Gonzalo, Alonso e il nostromo discutono nella nave in balia della tempesta, e il nostromo in maniera netta ordina ai signori di scendere in coperta e non disturbare le loro manovre perché stanno per colare a picco, alle parole degli attori in scena si sovrappone l’audio reale di qualcuno che chiede disperatamente aiuto alla Guardia Costiera di Lampedusa. Nessuna equazione, solo la chiara sensazione che ciò di cui si parla si cristallizza in un presente che monta e precipita proprio come le onde alte di una tempesta. Non si tratta di “attualizzare” la tempesta, ma di lasciare aperte le porte del teatro per permettere all’oggi di fare irruzione con la violenza che gli compete. “(…) quel che è stato si unisce fulmineamente con l’ora in una costellazione.”4 Mentre i Motus rileggono Césaire e la sua necessità di dire al mondo che i “sottomessi”, gli schiavi, i colonizzati, non saranno più silenziosi obbedienti corpi muti disegnati e esotizzati dalle culture colonizzatrici, quegli stessi corpi giacciono in fila, muti per sempre, su una delle spiagge del “nord” del Mediterraneo. Aver gridato nella tempesta, aver scritto sull’acqua che le geografie non possono più essere disegnate sulle mappe dei cartografi che dall’Europa guardano verso i diversi “sud”, non ha impedito alla tempesta di spezzare in due quelle barche in transito.
Aimé Césaire spiega perché il suo riadattamento dell’opera di Shakespeare si intitola “una” tempesta e non “la” Tempesta: “(…) parce que il y a beaucoup de tempêtes, n’est-ce pas? et la mienne n’est qu’une parmi d’autres”5. L’opera diviene un involucro in cui presentificare la possibili tempeste che, come spesso accade per le opere di Shakespeare, non sono oggetti finiti ma involucri che appaiono come diverse epifanie possibili in diversi presenti. Non a caso il titolo dei Motus è Nella Tempesta: un po’ per raccontare l’immersione nell’opera attraversata da Shakespeare a Césaire, un po’ per ribadire quella volontà di non prendere distanza dall’immanenza di quella tempesta attraverso una sua “messa in scena” ma, come dice la voce di Judit Malina evocata ad un certo punto dello spettacolo, prendendosi la responsabilità di scatenarla. Quell’articolo “un” di Césaire pone il racconto nel demanio della possibilità, la sua solo come “una” delle possibili tempeste, contrapposto a quel “la” che appartiene all’universalismo della cultura occidentale, che definisce una volta per tutte e per tutti. Lo spettacolo dei Motus torna ad essere anche “una” Tempesta, non solo in quanto una possibile lettura dell’opera rispetto ad altre, ma anche nella sua stessa struttura interna, cambiando di tappa in tappa durante la tournée. Non ci può essere “la” Tempesta dei Motus perché ogni contingenza, ogni urgenza dal “fuori” la toccherà “dentro” producendo “una” nuova possibile Tempesta dei Motus.
Nel dialogo tra Ariel, vista da Césaire come schiava mulatta, e Calibano schiavo nero, si insinua la loro relazione con Prospero, il padrone, più volte detto il “maestro”. L’una crede nella possibilità di risvegliare nello schiavista la coscienza della suo nefasto comportamento contro gli schiavi, l’altro dice che crede più nella possibilità che uno scoglio si riempia di fiori che nella presa di coscienza di Prospero. Césaire affronta un tema centrale: la relazione dominato/dominatore, il rapporto di conflitto violento e allo stesso tempo di dipendenza di cui parlerà a lungo lo psichiatra martinicano Franz Fanon in Peau noire, masques blancs: “(…) ce que nous voulons, c’est aider le Noir à se liberer de l’arsenal complexuel qui a germé au sein de la situation coloniale”6. Nello spettacolo dei Motus il dialogo tra Ariel, ancora convinta che essere sottomessa a Prospero le frutterà prima o poi la libertà, e Calibano che sa che la sua salvezza passa solo attraverso la rivolta contro il padrone colonizzatore, irrompe la domanda di Ilenia che racconta delle interviste fatte dagli attori dei Motus in giro per le città dove la performance è stata messa in scena: “Chi è il padrone?”. Di nuovo l’attualità entra a gamba tesa in teatro. E le risposte della gente comune, riverberate in teatro dagli attori, parlano di padroni sul lavoro ma anche di padroni dei grandi meccanismi dell’economia mondiale che ha creato e continua a creare disparità potenti e insanabili tra dominati e dominatori. Poi Glen dice a Ilenia: “Si, perché penso ci sia differenza fra il capitano di una nave e chi fa la regia delle tempeste!” e lei risponde: “In questo caso parliamo dei Nuovi padroni, che riscrivendo il passato controllano anche il presente e il futuro”. Come dire che chi ha la possibilità di (ri)scrivere la storia è padrone del passato, ma anche del presente e del futuro. Come dire che in un’Italia che ha cancellato, rimosso, mistificato il suo passato coloniale – e non solo fascista, ma nato già con la stessa Unità d’Italia – si scrive un presente fatto di respingimenti e di razzismi dichiarati o latenti, e si prefigura un futuro che non impara a rileggere i suoi immaginari. Prospero incessantemente racconta a Calibano un passato scritto da lui, in cui lo schiavo non può intervenire perché non sa dire, non sa scrivere, non sa come davvero di “fa la storia”. Ma quando Prospero chiede a Calibano cosa sarebbe stato lui, povero selvaggio innocente e bestiale senza il suo padrone, Calibano risponde “re della mia isola”. E ciò che conta non è che Calibano possa riconquistare quello scoglio nel mare in tempesta, ma che possa dire a Prospero che lo potrebbe fare e che lo farà, non è il gesto violento ma l’uso della parola. Poco oltre Calibano dice a Prospero che non risponderà più al nome di Calibano, che quel nome gli è stato imposto. Prospero gli chiede allora se vuole essere chiamato “cannibale”, per ribadire la sua natura ferina e ancora tenta di definirlo, di bloccarlo nella sua immagine, nella sua visione di colonizzatore dei popoli “selvaggi”. E di nuovo Calibano dice che preferisce essere chiamato “x” perché il suo nome è stato rubato. Definire, catalogare, rinominare è una delle strategie di dominio delle culture occidentali che costruiscono archivi, scrivono enciclopedie e chiudono in bacheche museali gli “altri”. Fanon insiste sull’uso feroce della lingua nei regimi di dominazione coloniale. Ricorda come in tutte le rappresentazioni degli uomini neri fatte dai bianchi, come ad esempio nel cinema, gli africani parlano una lingua che lui chiama petit-nègre dicendo che è lo stesso modo con cui un adulto si rivolge a un bambino7. Nei film doppiati in italiano i personaggi neri parlano all’infinito senza coniugare i verbi, scambiano sempre certe lettere e hanno una maniera di esprimersi che li fa apparire come sciocchi o infantili. Un solo assunto: il dominato vive in uno stato di perenne fanciullezza che da un lato lo rende il “buon selvaggio” e dall’altro denuncia la sua arretratezza dalla quale può uscire solo se l’uomo bianco, il “maestro” lo “educa”. Nello spettacolo dei Motus Calibano, con le parole di Césaire, dice a Prospero: “Mi hai mentito a tal punto, che hai finito per impormi un’immagine di me, che è falsa”. Il potere non è tanto nelle mani di chi possiede le cose ma più nelle mani di chi ha la possibilità di dirle e di nominarle. “Nous attachon une importance fondamentale au phénomène du language. (…) Etant que parler, c’est exister absolument pour l’autore.”8 La vera rivoluzione di Calibano è nel prendere finalmente parola e nel raccontarsi. Così Silvia, l’attrice principale della Tempesta dei Motus, esce dal teatro trascinandosi dietro un grosso albero, e il suo solo passare dà parola a chi la incontra. Il ramo verde che traversa le strade diventa con le sue bacche cibo per una donna Rom seduta a terra, entra a Palazzo Salam a Tor Vergata, attraversa gli scontri di piazza per la casa a Roma. Quell’oggetto ingombrante, incongruo per il corpo esile ma fortissimo di Silvia, suscita domande, prova a dare risposte. E di nuovo la costellazione si ricompone e la “gente” entra a teatro. Non sono “interviste”, non è la demagogia del “dare parola” allo spettatore, che nel suo stesso dire “dare” presuppone che la parola sia di qualcuno che la può “dare” a qualcun altro. Silvia trascina la propria radice enorme e questa immagine muta parla, grida in maniera così forte in tutti gli immaginari che attraversa, che tutti non possono far a meno di parlarle.
Nella versione portata in scena alla Centrale Fies di Drò lo spettacolo si chiudeva con l’invito agli spettatori a salire sul palco e a sistemarsi sulle coperte con delle piccole luci. Ci si ritrovava d’improvviso dentro un’iconografia vista con dolore più e più volte nei telegiornali: persone accampate, approdate per fortuna o sfortuna, sulle nostre coste. Nella versione di Rimini lo spettacolo si chiude con questa frase di Ilenia: “Oh, meraviglia! Quante Magnifiche creature! Bella, l’umanità! O Splendido nuovo mondo…” e poi Silvia che dice: Fanculo io ci credo…E mi domando: perché non cominciare a scatenare delle piccole tempeste, fuori da qui in città? Fare di ogni marciapiede un palco, di ogni parcheggio un giardino, di ogni panchina un battello…”. Nell’intenso incontro con i Motus alla fine dello spettacolo a Rimini, Enrico e Daniela, hanno spiegato il cambiamento di finale come la necessità di superare lo statuto di “immagine” di quella visione finale degli spettatori come attori/migranti sul palco. Restando fermo che quello che conta è sempre e solo la visione degli artisti, di chi scrive e fa lo spettacolo, sono in parte dissenziente dalla loro considerazione. Trovo che quel costringerci tutti a spostarci, seppure può apparire come un espediente retorico, mette però in campo, fisicamente un assunto proprio di quella cultura postcoloniale di cui è magnificamente pervaso lo spettacolo dei Motus: il prendere posizione, il posizionarsi. Il dato essenziale non è rinnegare il nostro passato coloniale, ma posizionarsi rispetto ad esso. Césaire riscrive la sua tempesta, la tempesta di un intellettuale nero, di Martinica, colonizzato. Ancora con Fanon: “C’est le colon qui a fait et qui continue faire le colonisé”.9 Salire sul palco e guardare dalla parte di chi guardavamo un attimo prima è una magnifica metafora di quella inversione del punto di vista che le decolonizzazione ha introdotto, costringendo chi si sentiva sempre e solo “osservatore” a sentirsi “osservato”. Vorrei proporre di rileggere il finale di Drò, pensando a un palcoscenico come uno spazio infra, nell’accezione che ne dà Hanna Arendt nella sua Vita Activa: “Questo secondo spazio, o infra, soggettivo non è tangibile, poiché non esistono oggetti tangibili in cui esso può cristallizzarsi. I processi dell’agire e del discorso, non possono lasciare dietro di sé risultati o prodotti finali. Ma in tutta la sua intangibilità questo spazio è non meno reale del mondo delle cose che abbiamo visibilmente in comune. Noi chiamiamo questa realtà “l’intreccio” delle relazioni umane, indicando con tale metafora appunto la sua natura scarsamente tangibile”.10
Credo che quel che resta di questa tempesta dei Motus trovi un’eco perfetta ancora nelle parole di Toni Morrison in Amatissima, che possano suonare come un appello da gridare insieme a quello di Silvia nel finale di Rimini: ” Toccami. Toccami dentro e chiamami col mio nome.”11
1 T.Morrison, Amatissima, Frassinelli, Milano, 1988, p.289.
2 W.Benjamin, Sul concetto di storia, Tesi VI, a cura di G.Bonola e M.ranchetti, Torino, Einaudi, 1997, p.27.
3 MEIN HERZ drodesera XXXIII / 26 luglio- 03 agosto 2013 / Centrale Fies, Dro, TN.
4 W.Benjamin, Sul concetto di storia, (1966), Einaudi, Torino, 1974, p. 116.
5 H.E.Bellemare, Aimé Césaire une tempête, Honoré Champio, Paris, 2013, p.45.
6 F. Fanon, Peau noire, masques blancs, Éditions du seuil, Paris, 1952, p. 24.
7 idem., p.24.
8 F.Fanon, op.cit., p.13.
9 F.Fanon, Les damnés de la terre, (1961), La Découverte, Paris 2002, p. 40.
10 H.Arendt, Vita activa, (1958), Bompiani, Milano, 2005, p.133.
11 T.Morrison, op.cit., p.136.