1. Il territorio trasfigurato
Una delle prime constatazioni riguardo al territorio nel (con)testo della Costituzione è che esso è come trasfigurato dal paradigma costituzionale. Lo spazio-territoriale della Repubblica, infatti, non si presenta più come luogo di confinamento di un popolo, mero spazio di vigenza di un ordinamento, oggetto di possesso di una comunità politica o luogo di fondazione e di identità di una nazione (Capone, 2019; Cassese, 2003; Di Lucia, 2007; Di Martino, 2010; Ferrarese, 2006; Rigo e Zagato, 2012; Vitucci, 2014). Nel testo costituzionale non si trova un solo comma in cui riverbera questa riduttiva visione spaziale, che ha accompagnato l’idea di Stato moderno dalla pace di Vestfalia, nel 1648, fino al tragico epilogo della seconda guerra mondiale nel 1945. Esso è piuttosto rappresentato come il luogo entro cui e attraverso cui è reso possibile esercitare le libertà democratiche, potendo avere garantiti – sul territorio nazionale – i diritti civili e sociali.
Dall’art. 10 che prevede il «diritto d’asilo nel territorio della Repubblica» per lo straniero «al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana», al diritto garantito dall’art.16 di poter «circolare e soggiornare liberamente in qualsiasi parte del territorio nazionale» e allo stesso modo potervi entrare e uscire, fino agli articoli 117 e 120 che garantiscono «su tutto il territorio nazionale», rispettivamente, «livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali» e «l’esercizio del diritto al lavoro» – in tutti questi casi il territorio si presenta come spazio di libertà, come luogo entro cui e attraverso cui esercitare i diritti di libertà.
Ma la norma costituzionale in cui si assiste ad una vera e propria metamorfosi del territorio, inteso come sistema complesso e dinamico di elementi materiali e culturali (Capone, 2015), è l’art. 9 in cui per la prima volta nel panorama costituzionale europeo del secondo dopoguerra compare la nozione di paesaggio.
La metamorfosi del territorio compiuta dal paradigma dello Stato costituzionale con l’articolo 9 è tra le rappresentazioni più vive e concrete della relazione operosa fra specie umana e natura all’interno della comunità biotica terrestre. Questo spazio di tipo nuovo è insieme presupposto, condizione e risultato del processo stesso di costituzionalizzazione della persona umana.
Come ricorda il costituzionalista tedesco Peter Häberle – riprendendo il verso Goethiano “solo la legge può darci la libertà” – «le libertà fondamentali dell’uomo cadrebbero letteralmente nel vuoto, se non vi fosse un terreno “sicuro”, culturalmente formato, dal quale l’uomo può muoversi verso il mondo che lo circonda» (Häberle, 2005:26).
Il territorio così inteso non può più essere considerato come semplice elemento dello Stato; esso in quanto «base della identità culturale e della individualità storica dello Stato stesso» (Ibidem) e fattispecie di più diritti fondamentali, dal diritto alla salute al diritto all’asilo, è innanzitutto il «fondamento della costituzione», un «valore della costituzione» (Ibidem), per cui tutta la Costituzione diviene il contesto entro cui opera il territorio. È questa proiezione dei diritti fondamentali sul concetto di territorio che fa di questo un valore fondamentale dello Stato costituzionale, un elemento indispensabile della costituzione come cultura. E il territorio si fa cultura e fondamento ogni qual volta lo Stato Costituzionale si riappropria del suo stesso territorio funzionalizzandolo allo sviluppo della persona umana e al godimento dei diritti fondamentali e soprattutto riconoscendolo quale segno vivente della co-implicazione fra opera della natura e opera umana.
Lo Stato costituzionale fa il suo spazio, si fa spazio, esso è costantemente in opera, ma allo stesso tempo esso è fatto dal suo proprio spazio. Pertanto, «questo costituire il territorio dello Stato è al tempo stesso una parte di costituzione vissuta» (Häberle, 2005:28); solo in tal senso si può intendere in maniera non statica l’espressione territorio dello Stato. In una prospettiva costituzionale il proprio territorio è conservato come fondamento della vita perché è attraverso di esso che lo Stato costituzionale può realizzare i propri compiti, che è bene qui ricordarlo, si compendiano nel consentire – attraverso il soddisfacimento dei diritti fondamentali – il pieno sviluppo della persona umana intesa come soggetto-in-relazione. Il paesaggio ci consente, dunque, di ri-pensare il “territorio dello Stato” come uno spazio in continuo divenire e pertanto da intendersi come uno spazio-aperto, uno spazio inclusivo, composto e dinamico.
A fronte di queste considerazioni conclusive prende rilievo il fatto che la tutela del paesaggio trovi posto nella Costituzione italiana fra i principi fondamentali. È questa sua speciale collocazione che fa del paesaggio la cifra di un altro modo di intendere lo spazio nella prospettiva costituzionale.
La costituzionalizzazione del territorio dello Stato, allora, non rappresenta, come vorrebbero in tanti, una mera proclamazione, essa è piuttosto «una conseguenza interna del modello dello Stato costituzionale nel suo attuale stadio di sviluppo» (Häberle, 2005:31).
2. La nozione di paesaggio nella legislazione precostituzionale
Questa concezione del paesaggio si scontra, però, con un’altra, limitata e limitante, che persiste nel senso comune e nella cultura in generale nonostante gli studi proposti e le numerose ricerche effettuate. Un’ipotesi potrebbe essere che la difficoltà ad intendere la nozione di paesaggio come forma spaziale concreta sia data dall’interpretazione oculocentrica e voyeuristica che spesso erroneamente si è data di essa, che ridurrebbe il paesaggio alla veduta panoramica o alla riserva naturale o comunque al dato eccezionale. E questo, nonostante il fatto che sin dalle prime leggi sulla tutela del paesaggio e del patrimonio storico artistico – dalla legge Rosadi-Rava (L. 364/1909), che stabilisce e fissa le norme per l’Inalienabilità delle antichità e delle belle arti, a quella sulla Tutela delle bellezze naturali e degli immobili di particolare interesse storico redatta da Benedetto Croce (L. 778/1922), fino alle due leggi Bottai del 1939 sulla Tutela delle cose d’interesse artistico o storico (L. 1089/1939) e sulla Protezione delle bellezze naturali (L. n. 1497/1939) – per paesaggio si voleva intendere una sintesi viva fra elementi naturali, operosità umana, patrimonio storico-artistico e sensibilità estetica.
2.1 La veduta
A riprova di ciò vi è la considerazione che la stessa nozione di veduta – presente nella cosiddetta legge Croce sulla Tutela delle bellezze naturali e degli immobili di particolare interesse storico (L. 778 del 1922) e che fuori contesto può indurre a fraintendimenti – fu utilizzata con arguzia per «assimilare il paesaggio a un quadro (cioè a una categoria di beni già tutelata dalla legge)», e per «riconnettersi alla “servitù di veduta” (aspectus, prospectus) già presente nel diritto romano, e con qualche precedente nella legislazione del Regno meridionale» (Settis, 2013:60). Essa si inscrive in una generale strategia politica e culturale che permise in quegli anni, non solo in Italia, di passare dalla tutela dei monumenti artistici a quella dei monumenti naturali, rendendo in tal modo insensato «ammirare e proteggere i quadri di paesaggio» non sapendo poi rivolgere «eguali cure ai luoghi reali che essi rappresentano» (Settis, 2010:146).
Antecedenti legislativi di questa tendenza si trovano ad esempio in Francia nella famosa legge Beauquier approvata il 24 aprile del 1906 finalizzata alla protezione «des monuments et des sites naturels d’interêt artistique» e in Prussia dove il governo istituì per la prima volta in Europa una Staatliche Stelle für Naturdenkmalpflege – Agenzia di Stato per la tutela dei monumenti naturali.
2.2 I monumenti naturali
Nei casi legislativi appena citati viene in evidenza un altro termine che fu usato con arguzia dagli studiosi e dai legislatori dell’epoca ed è quello di monumento (monument in francese e denkmal in tedesco) che teneva insieme arte, storia e natura connettendo in tal modo i valori di permanenza e di memoria (Settis, 2010:143). Questa nozione confluì successivamente nell’articolo 150 della Costituzione di Weimar del 1919 che parlava espressamente di Denkmäler der Kunst, der Geschichte und der Natur e che fu fonte d’ispirazione per i costituenti italiani nell’elaborazione dell’articolo 9 della Costituzione (Leone, 2013:157-158; Settis, 2017:13-14), che però optarono per il termine paesaggio, più aderente alla tradizione culturale italiana.
L’espressione monumenti della natura, proprio come la nozione di paesaggio, rimanda alla funzione mediatrice della visione, che allude nello stesso tempo sia ad un sapere estetico e letterario sia alla scienza della natura. A tal proposito Alexander von Humboldt – geografo e uomo di cultura che ha profondamente influenzato il panorama culturale europeo dell’Ottocento e dei primi decenni del Novecento – scrive che «l’aspetto della natura esteriore, sì come in generale si presenta profondamente contemplandola, è quello dell’unità nella diversità»; per comprendere questa unità «gli sforzi dell’umana ragione» si dirigono verso il sapere scientifico nel tentativo «di svelare una parte de’ suoi segreti [della natura], e, colla forza del pensiero, di assoggettare, per così dire, al suo dominio intellettuale, i rudi materiali raccolti con l’osservazione» (Humboldt, 1850:11-12).
Come è stato fatto notare, è proprio grazie a questa doppia implicazione del vedere, messa in evidenza dal geografo prussiano, che «il concetto di paesaggio definitivamente si muta, per la prima volta, da concetto estetico in concetto scientifico» caricandosi «di un significato del tutto inedito (e letteralmente rivoluzionario) dal punto di vista della storia e della storia della conoscenza» (Farinelli, 1991:10-12; Farinelli, 2017). Esso per la gnoseologia humboldtiana rappresenta una modalità conoscitiva per la quale l’impressione della Natura (Nahtureindruck) «rappresenta il grado iniziale del processo della conoscenza scientifica» (Farinelli, 1991:10-12; Farinelli, 2017).
2.3 Il duplice carattere della nozione di paesaggio
Questo duplice carattere del termine paesaggio segnerà tutta l’azione legislativa preunitaria, a partire dalla prima proposta di legge esplicitamente volta a tutelare il paesaggio, significativamente intitolata Per la difesa del paesaggio. Questa fu presentata dal Rosadi – già estensore della citata legge sull’Inalienabilità delle antichità e delle belle arti (L. 364/1909) – il 14 maggio 1910 e discussa il 5 luglio del 1911.
Questi, nella relazione introduttiva alla proposta di legge sostenne in modo ostinato che «non sono monumenti soltanto le mura e gli archi e le colonne e i simulacri ma anche i paesaggi e le foreste e le acque e tutti quei luoghi che sono rivestiti di una singolare bellezza naturale oppure illustrati da memorie sacre o da esempi insigni di letteratura» (Rosadi, 1911). E con dovizia di particolari spiegò come ormai fosse presente nella realtà della vita moderna, e non soltanto «nell’atteggiamento stentato degli esteti» (Rosadi, 1911), la questione della bellezza naturale, la quale andava posta anche nel nostro Paese così ricco di monumenti naturali e storico-culturali. Egli retoricamente si domandava come fosse possibile che il Parlamento rimanesse insensibile e inerte, quasi non si accorgesse che si agitava dappertutto una «questione del paesaggio» (Rosadi, 1911).
Le resistenze all’interno della Camera e del Senato furono molto forti. Come ricorda lo stesso Rosadi, già durante i lavori della Commissione reale che preparò la legge n. 364 del 20 giugno 1909 per l’Inalienabilità delle antichità e delle belle arti, fu viva la polemica contro la nozione di bellezze naturali che dalla ratio del testo legislativo veniva compresa «tra le cose immobili e mobili che abbiano interesse storico, archeologico, artistico», in quanto «verità sottintesa» (Rosadi, 1911).
Questa ostilità risaliva all’acceso dibattito che si era alimentato intorno all’episodio della vendita di un taglio eccessivo degli alberi della pineta di Ravenna, la quale – concentrando in sé elementi storici, artistici, letterari, vedutistici e naturalistici, rappresentò il «primo vero topos del protezionismo italiano» (Rosadi, 1911). Proprio per dare un’adeguata tutela legislativa alle bellezze naturali e al paesaggio in occasione dell’approvazione della legge sulla pineta di Ravenna nel 1905 l’on. Attilio Brunialti a nome della Camera invitava il Governo «a presentare un progetto di legge per la conservazione delle bellezze naturali che si connettono alla letteratura, all’arte, alla storia d’Italia».
Con la legge del 1909 Rosadi intendeva sciogliere questo voto «ponendo sotto l’egida della nuova legge non soltanto le cose che abbiano un interesse archeologico o artistico, ma ancora quelle che abbiano solo un interesse storico, quali sono appunto quei monumenti naturali, che non meritano meno degli altri di essere custoditi e difesi» (Rosadi, 1906).
Il ministro Rava, nel presentare alla Camera e poi al Senato il testo del disegno di legge volle però esplicitare il riferimento alla tutela delle bellezze naturali, che nel testo redatto da Rosadi – evidentemente per prudenza – erano date per sottintese. Egli propose che nell’articolato si aggiungesse un passaggio: «tra le cose immobili sono compresi i giardini, le foreste, i paesaggi, le acque e tutti quei luoghi ed oggetti naturali che abbiano l’interesse sovraccennato». La proposta incontrò la ferma opposizione di una buona parte dei senatori, preoccupati che attraverso una legge siffatta si arrivasse a limitare di fatto il diritto di proprietà.
La vicenda si risolse con l’approvazione di un ordine del giorno con cui il Senato e la Camera invitavano solennemente il Governo «a presentare un disegno di legge per la tutela e la conservazione delle ville, dei giardini e delle altre proprietà fondiarie che si connettono alla storia e alla letteratura o che importano una ragione di pubblico interesse a causa della loro singolare bellezza naturale».
2.4 L’aspetto scientifico-naturalistico
Da queste premesse Rosadi prese l’iniziativa di presentare il 14 maggio 1910 una nuova proposta di legge specificatamente indirizzata alla difesa del paesaggio. Proposta che venne discussa solamente il 5 luglio 1911, senza mai essere mutata in legge.
Nonostante ciò il suo tentativo non cadde nel vuoto. Quando Benedetto Croce nel 1922 si fece promotore della legge n. 778 sulla Tutela delle bellezze naturali e degli immobili di particolare interesse storico, nella sua relazione introduttiva, si rifece espressamente alla proposta di legge Rosadi e successivamente l’impianto e la ratio stessa della legge da lui proposta fu trasposta e integrata nelle due leggi gemelle del 1939 – le cosiddette leggi Bottai – che così facendo «seppero in sé riassumere il meglio della tradizione di tutela elaborata dall’Italia liberale» (Settis, 2010:124) – merito anche della commissione istituita per redigere i disegni di legge che significativamente era presieduta da Santi Romano, una delle figure più importanti nel panorama giuridico dell’epoca. Il tentativo di Rosadi, dunque, è stato fecondo e ha segnato dal punto di vista giuridico la nozione di paesaggio.
Ma soprattutto qui è il caso di segnalare il fatto che intorno al suo disegno di legge si mobilitarono molte associazioni sorte per la protezione dell’ambiente e del paesaggio, e molti uomini di scienza si schierarono apertamente chiedendo a gran voce di integrare in senso scientifico la sua proposta. È il caso di Lino Vaccari e Renato Pampanini, esponenti di punta rispettivamente della Società zoologica italiana e della Società botanica italiana. I due scienziati – impegnati da anni nel sensibilizzare la coscienza collettiva intorno ai temi della protezione dell’ambiente – furono autori di due memorabili pamphlet che fecero per la prima volta in Italia il punto della situazione sul protezionismo italiano ed europeo. Ma, cosa ancora più importante, crearono un ponte fra le due anime del movimento, quella di impronta estetico-patriottica e quella scientifica. Nel maggio del 1911, su incarico della Società Botanica Italiana, Renato Pampanini tenne a Roma una dettagliata relazione sulla storia e le prospettive del movimento protezionista intitolata Per la protezione della flora italiana. Nello stesso anno Lino Vaccari fu incaricato di tenere una relazione analoga a quella di Pampanini intitolata Per la protezione della flora e della fauna. Le due relazioni vennero pubblicate a pochi mesi di distanza suscitando largo consenso nell’opinione pubblica.
Preziosa per la ricostruzione della ratio che animava il legislatore pre-costituzionale è la seconda edizione del testo di Pampanini apparsa nel 1912 con una prefazione di Rosadi, nella quale egli ebbe modo di chiarire il suo intento e spiegare anche la sua tattica per arrivare all’approvazione di una legge organica che tenesse insieme l’approccio estetico, quello storico e quello naturalistico.
«Se una moltitudine di uomini − scrive Rosadi −, agguerrita sotto le insegne del tornaconto, attenta ogni giorno di più alla bellezza e alla fecondità della natura, questo è un fatto artificioso che legittima l’artificio di una reazione difensiva […].
Ecco perché un modestissimo parlamentare d’Italia, tutt’altro che statolatra, ma anzi nemico della pedantesca e nefasta pretesa dello Stato di tutto insegnare e tutto disciplinare, quale sono io, si è fatto promotore di difese legislative della bellezza che è operata dall’arte e di quella che è creata dalla natura […].
È una seduzione grata e potente, quella che si prova alla lettura di queste pagine, a trarne subito profitto con l’aggiungere, in una stessa legge, alla difesa del paesaggio la difesa della flora. E senza dubbio l’argomento è connesso. Ma chi ricordi la leggenda degli Orazi e Curiazi e conosca le ostilità che insorgono nella giostra parlamentare verso una proposta di legge dal carattere restrittivo può dubitare se non convenga provocare il minor numero di nemici usando la maggior discrezione nelle mosse o per lo meno affrontarli pochi alla volta […].
Ma allora sarà questione di tempo. Quando sia sanzionata la difesa del paesaggio in nome dell’estetica e della storia sarà atto di coerenza e di giustizia irrecusabile sanzionare anche la difesa della flora in nome della varietà e della bellezza della natura. È questione di tattica e di tempo. Ferito il primo dei tre Curiazi, che attentava all’incolumità e alla nazionalità dell’arte nostra, ferito il secondo che tuttora attenta alla bellezza del nostro paesaggio, è giusto e imprescindibile che si ferisca anche il terzo, che attenta alla nostra flora smagliante e feconda. Ma forse i tre nemici vanno affrontati uno alla volta, come seppe l’Orazio vittorioso». (Rosadi, 1912:VI-IX).
Anche in seguito, come accenneremo, fu questione di tattica e di tempo se alcuni termini restarono sottintesi nei disegni di legge; tale era l’ostilità della maggioranza politica che bisognava procedere con estrema cautela. Questa cautela è stata male interpretata, e perduta la memoria del contesto politico, storico e culturale che accompagnò quei tentativi, si è proceduto a calcificare i testi legislativi pre-costituzionali fino a svuotarli di senso, riducendo, opportunisticamente, il paesaggio a esclusiva questione di estetica.
2.5 L’aspetto storico-estetico-letterario
A questo punto si comprendono forse meglio le motivazioni che indussero Benedetto Croce nel suo disegno di legge ad utilizzare la nozione di veduta per tutelare il paesaggio vivente a partire da quello rappresentato dagli artisti e dai letterati; anche in questo caso si trattò di una questione di tattica e di opportunità politica. Egli nella relazione introduttiva al disegno di legge da lui proposto, dopo essersi richiamato ai lavori parlamentari di Rosadi, chiedeva come mai nella civiltà moderna si fosse sentito «il bisogno di difendere, per il bene di tutti, il quadro, la musica, il libro» e si sia «tardato tanto a impedire che siano distrutte o, manomesse le bellezze della natura» (Croce, 1920).
L’uomo, ricordava il filosofo napoletano, è «il prodotto, oltre che delle condizioni sociali del momento storico, in cui egli è nato, del mondo stesso che lo circonda, della natura lieta o triste in cui vive, del clima, del cielo, dell’atmosfera in cui si muove e respira» (Croce, 1920). E, in una delle sue fulminanti frasi, parafrasando il letterato John Ruskin, fa presente che il suolo identificato con il territorio nazionale altro non è che «la rappresentazione materiale e visibile della patria, coi suoi caratteri fisici particolari, con le sue montagne, le sue foreste, le sue pianure, i suoi fiumi, le sue rive, con gli aspetti molteplici e vari del suo suolo, quali si sono formati e son pervenuti a noi attraverso la lenta successione dei secoli» (Croce, 1920).
Queste idee, del resto, ricordava Croce, erano da tempo presenti nella cultura e nel dibattito pubblico di gran parte dei paesi europei e rappresentavano il presupposto per ogni azione di difesa delle bellezze naturali. Non a caso in Germania questo movimento culturale fu detto di Heimatschutz, di difesa della patria. Difesa, cioè, di quel che costituisce «la fisionomia, la caratteristica, la singolarità, per cui una nazione si differenzia dall’altra, nell’aspetto delle sue città, nelle linee del suo suolo, nelle sue curiosità geologiche […] negli usi, nelle tradizioni, nei ricordi storici, letterari, leggendari […]» (Croce, 1920). In Inghilterra il movimento a favore della conservazione delle bellezze naturali risaliva addirittura al 1862, allorquando John Ruskin si fece instancabile difensore della quiete delle valli inglesi minacciate dal fuoco strepitante delle locomotive e dal carbone fossile delle officine. Il dissidio emergente fra le ragioni del bello e dell’interesse poetico, da una parte, e dall’altra il bisogno di far sviluppare l’ingegno umano nelle applicazioni tecniche e scientifiche, insieme alle contraddizioni del nascente capitalismo industriale, non poteva non determinarsi e prendere la forma concreta di un movimento culturale e politico. Dovunque sorsero potenti associazioni in difesa delle bellezze naturali per imporre, facendo pressione sull’opinione pubblica, la necessità di sanzioni positive contro «le ingiustificate e spesso inutili manomissioni del paesaggio nazionale» (Croce, 1920). È il caso del Touring club italiano, del Club Alpino Italiano, del Comitato Nazionale per la Difesa del Paesaggio e dei Monumenti Italici.
Il disegno di legge di Benedetto Croce, dunque, intendeva ereditare le istanze più avanzate di questo movimento di idee, di cui Rosadi, prima di lui, era stato interprete in Parlamento. Anche in questo caso l’opposizione del ceto proprietario fu ostinata almeno quanto ostinati furono i sostenitori della legge. Essa proponendosi di tutelare le bellezze naturali e panoramiche, imponeva l’obbligo ai proprietari, secondo l’articolo 2, di «presentare preventivamente alla Soprintendenza i progetti delle opere di qualsiasi genere che interessano gli immobili vincolati». Inoltre, per il fatto che «la bellezza naturale o del paesaggio può essere alterata o danneggiata anche da lavori e segnatamente da nuove costruzioni che si facciano fuori del perimetro degli immobili vincolati», nel disegno di legge era prevista una disposizione speciale per impedire che fosse negato il godimento delle bellezze naturali e panoramiche.
Con questa disposizione Croce si inseriva nel solco tracciato da antichi provvedimenti, trasfusi poi nei regolamenti edilizi vigenti ancora nei primi decenni del Novecento. Ne fa lui stesso riferimento nella relazione introduttiva al suo disegno di legge richiamando i rescritti borbonici del 19 luglio 1841, del 17 gennaio 1842 e del 31 maggio 1853 che vietavano di alzare fabbriche «le quali togliessero amenità o veduta lungo la via di Mergellina, di Posillipo, di Campo di Marte, di Capodimonte» (Croce, 1920).
Negli stessi anni ci fu chi provò a rintracciare già nel diritto romano norme di tutela del paesaggio. È il caso di Giuseppe Lustig, giurista e magistrato, che nel 1918 pubblicò su «Il Filangieri» (Lustig, 1918:449-504; 561-597) un lungo articolo intitolato La tutela del paesaggio in Roma (Settis 2010:159-160).
«Nulla di nuovo», dunque, sosteneva Benedetto Croce si era escogitato con il suo disegno di legge, ma soprattutto non vi era «nulla di eccessivo», nulla che offendesse o ferisse «il diritto di proprietà o […] quello dell’attività industriale della nazione» (Croce, 1920). E nonostante il fatto si fosse introdotto il principio giuridico della servitù per pubblica utilità, «per la quale il proprietario è costretto a non fare o a fare in un certo modo che il Ministero approverà, o meglio consiglierà», la preoccupazione di fondo di ogni disposizione prevista dalla legge era quella di costituire «un sistema di accordi fra i privati e l’amministrazione delle Belle arti, e fra questa e le altre amministrazioni pubbliche affinché senza gravi sacrifici di ciò che è in cima a’ pensieri di tutti, economia nazionale e conservazione del privilegio di bellezza che vanta l’Italia, siano composti con spirito di conciliazione i vari interessi contrastati» (Croce, 1920). Si cercò, insomma, di addomesticare la proprietà privata e di vincolare i diritti ad essa connessi alla funzione sociale. Funzione che, per la cultura di quegli anni, non doveva solo esplicarsi in vantaggi economici per la collettività ma, come sostenne Luigi Parpagiolo, anche in vantaggi morali nell’interesse della colleganza (Parpagliolo, 1911:254), cioè del legame costitutivo che tiene insieme gli esseri umani in una società.
Come abbiamo già accennato questo patrimonio politico e culturale fu recepito nel 1939 dalle due leggi Bottai che restarono legge ordinaria per lungo tempo anche dopo l’approvazione della carta costituzionale.
Nella ratio della legislazione pre-costituzionale persisteva, dunque, una strettissima correlazione tra il paesaggio rappresentato dai poeti e dagli artisti e quello vissuto dei luoghi reali. Il duplice carattere del paesaggio sarebbe dovuto servire per tutelare lo spazio nelle sue molteplici dimensioni e per garantirne – nonostante la sua strutturale mutevolezza – la sua persistenza come bene comune.
Nota
* Il presente articolo è un estratto da Capone Nicola, L’invenzione del paesaggio. Lo spazio terrestre nella prospettiva costituzionale, in «Politica del diritto», n.1, marzo 2019.
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Nicola Capone è docente di storia e filosofia presso l’ISS Pitagora di Pozzuoli (Na) e PhD-Cultore della Materia in Filosofia del diritto presso l’Università degli studi di Salerno (Laboratorio “H. Kelsen”). È tra i fondatori del Laboratorio di studi e pratiche “Ecologie Politiche del Presente” e fa parte del Consiglio esecutivo dell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici. È socio, inoltre, della Società Italiana di Filosofia del diritto.
Attivista nei movimenti di contestazione ecologica e dei beni comuni, fra i temi più recenti della sua attività scientifica vi sono la relazione fra norma e spazio – nella prospettiva del diritto costituzionale e della ecologia politica – e i Beni comuni in relazione con la tradizione dei diritti d’uso civico e collettivo.