Rosa è il colore delle pareti della stanza che accoglie una poltrona per visite ginecologiche, anch’essa di colore rosa: una scelta cromatica sicuramente non casuale. Stiamo parlando di Sugar Walls Teardom (2016) di Tabita Rezaire, lavoro che permette di rievocare la narrazione della cosiddetta «storia non raccontata» (Munder, 2019, p. 31), ovverosia il trauma e lo sfruttamento vissuti dalle donne africane durante il periodo del (post)colonialismo. Quest’opera apre a diverse questioni, indagando temi controversi del contemporaneo: dalla visibilità soggettiva alla corporeità, dall’identità razziale alle migrazioni e quindi alla globalizzazione, alla geopolitica transnazionale e alle discriminazioni culturali e di genere, facendoli interagire mediante le possibilità offerte dalle nuove tecnologie d’informazione e dei media digitali. Mantenendo uno sguardo costante sul passato e sulle pratiche tradizionali africane da un lato, e sperimentando al contempo l’universo del tecnologico dall’altro, si delinea pertanto il fil rouge del discorso womanista condotto da Rezaire.
Tabita Rezaire è nata in Francia, ma di plurime origini – africane, guianesi e danesi -, attualmente attiva a Johannesburg; è allo stesso tempo una video-artista, una praticante specializzata dello yoga di tipo Kundalini[1] e si descrive come «un’attivista terapeutica digitale» (Munder, 2019, p. 95). Infatti, secondo Rezaire, l’utilizzo della rete è allo stesso tempo uno strumento d’indagine e d’azione in chiave di emancipazione e di sviluppo sociale, ma anche un dispositivo oppressivo nei confronti del suo stesso utilizzatore. In base all’approccio che l’utente ha nei suoi confronti, l’universo tecnologico può decidere sia di soccorrerlo e guarirlo, ma anche di avvelenarlo e abbandonarlo (Rezaire, 2017). Dal continuo interrogarsi dell’artista, sia sulle opportunità sia sui limiti delle nuove tecnologie, si evince la sua appartenenza alla cosiddetta generazione post-internet. In altre parole, privilegia l’utilizzo dei media e di internet per indagare da un lato lo strumento digitale, in quanto potenziale mezzo per fare arte e come veicolo di contenuti, dall’altro per rileggerne criticamente le conseguenze a livello socioculturale e politico, quindi le incoerenze insite nel digitale stesso. In modo particolare, l’artista evidenzia gli aspetti di controllo e di squilibrio che le nuove tecnologie hanno riproposto nel presente, ripercorrendo la linea egemonica e gerarchica occidentale del passato. Inoltre, come anticipato, tra i maggiori temi da lei trattati vi sono la questione dell’identità di genere e la riproduzione online delle categorie culturali e delle strutture interne di potere, affrontati attraverso un approccio combinato del fattore tecnologico con l’antica spiritualità africana. Il suo linguaggio visivo si ispira principalmente ai codici grafici delle GIFs e ad altri fenomeni virtuali, ma allo stesso tempo riesce ad incorporarvi anche elementi del simbolismo tradizionale africano (Munder, 2019). I suoi video si caratterizzano per una commistione caotica di informazioni, scritte a intermittenza, figure, suoni, colori ed elementi kitsch: il tutto, però, accuratamente orchestrato secondo un chiaro ordine logico-espressivo.
Nei suoi lavori, infine, si percepisce una volontà di superamento delle strutture coloniali di dominazione e oppressione, che vengono oggi riprodotte dai nuovi sistemi di tecnologia digitale in chiave neocoloniale, e di sovversione della visione e rappresentazione canonizzata e stereotipata del corpo della donna, nello specifico della donna di colore. Pertanto, l’arte di Tabita Rezaire si pone l’obiettivo di condurre una critica e una lotta al (post)colonialismo, e quindi alle nascenti forme di neocolonialismo, attraverso le armi del femminismo e della spiritualità (Munder, 2019). E ciò lo si evince dalle sue stesse parole: «Our collective consciousness is traumatised. We are still today dealing with the legacies of hierarchies between systems of knowledge as they have been integrated into the post-colonial social order» (King, 2018, s.p.).
Seppur dichiarando apertamente di non volere sottostare a nessuna etichetta, evitando di limitare i suoi progetti artistici a un’unica prospettiva, tuttavia sono evidenti i punti di contatto e gli elementi espressivi in comune tra la personale ricerca di Rezaire e le linee afrofuturista da un lato e di femminismo militante, o più precisamente del womanismo, dall’altro, soprattutto in termini d’indagine della corporeità, della ricostruzione della soggettività e quindi della ridefinizione del discorso identitario. Inoltre, anche facendo riferimento allo stile del linguaggio visionario e alle modalità comunicative e di rivendicazione politica e sociale predilette da Rezaire, in particolare attraverso il medium tecnologico, sorge spontaneo associarla con la dimensione dell’afrofuturismo.
Sugar Walls Teardom è un omaggio alla comunità femminile africana, nella misura in cui si propone di rievocare il ricordo e il dolore sostenuto dalle donne durante la già menzionata «storia non raccontata». Muovendo una critica alla violenza istituzionalizzata nei confronti delle donne di colore, e riferendosi principalmente al trauma fisico e psichico subito dalle stesse in seguito alle pratiche oppressive, discriminatorie e poco etiche messe in atto durante il periodo del colonialismo, per di più rafforzate da un sistema patriarcale e legittimate dietro il nome della ricerca scientifica e tecnologica, Tabita Rezaire denuncia apertamente gli abusi provocati e perpetuati dalla storia (Radley, 2018). Ciò nonostante, il video suggerisce un messaggio celebrativo e di riconoscenza nei confronti delle personalità “violentate” dal progresso scientifico e tecnologico, in quanto cavie indispensabili al loro sviluppo. Le ricerche condotte da Rezaire si focalizzano in primo luogo sulle pratiche ginecologiche irregolari e immorali esercitate sui corpi inermi delle donne africane dal Dr. J. Marion Sims, considerato dal mondo occidentale il padre della ginecologia moderna (Radley, 2018). Così, avendo chiaro il fatto che il contributo di queste sia stato cancellato dalla memoria collettiva occidentale, l’artista si propone di riscrivere la storia, anzi la loro storia, attraverso la sua arte.
Sugar Walls Teardom si configura come un’installazione combinata di una poltrona da ambulatorio per visita ginecologica con uno schermo, richiamando alla mente quello per visualizzare un’ecografia, il quale però riproduce in maniera continuativa un video della durata di 21:30 minuti. La proiezione propone allo stesso tempo sia il ricordo e la presa di coscienza dei fatti accaduti durante la fase colonialista, sia una serie di possibili chiavi di guarigione postume per le vittime di queste violazioni fisiche e psichiche. Lo stile formale e visuale passa da figurazioni prelevate da un immaginario pubblicitario a visioni fluttuanti, olistiche, psichedeliche e metafisiche, proprie di una sessione di yoga. L’idea di fondo suggerita dall’artista è che attraverso la danza, la musica, la meditazione e la spiritualità, il soggetto femminile riesca a ricongiungersi con l’universo degli antenati e degli spiriti della tradizione africana (Castiglioni, 2011). Il corpo ritrova così la sua identità sociale e culturale e, seppur marchiato dalle cicatrici e/o da ferite ancora aperte del passato, riesce a forgiare la sua nuova soggettività.
Nel video di Rezaire si privilegia un’estetica del fluido e dell’informe al punto di rievocare elementi energetici, organi dell’apparato riproduttivo femminile, sangue, acqua, liquidi vari e ancora messaggi rapidi e intermittenti tipici delle promozioni pubblicitarie, sino a giungere alla riproduzione di uno scenario di vegetazione in fiore.
All’interno di questo immaginario visivo, che suggerisce un insieme di elementi che evocano le forme e i colori di una femminilità riproduttiva, si colloca la prospettiva femminista di Rezaire che ne veicola peraltro i contenuti concettuali e impegnati. Tuttavia, attraverso la costante rappresentazione figurata dell’archetipo della corporeità della donna e quindi del concetto di femminilità per eccellenza, non vengono meno le fondamentali questioni qui trattate di identità di sesso e genere, di appartenenza etnica e di spiritualità, tra loro concatenate e poste in relazione alle nuove tecnologie, come movimento di liberazione dalla sopraffazione (post)colonialista. Questo formato visivo impattante, colorato e dal ritmo frenetico ha l’obiettivo di coinvolgere il più possibile il fruitore, chiamato a prendere posto e a distendersi nella postazione ginecologica, al fine di immergersi completamente nel filmato e nel suo soggetto. Infatti, il video, grazie alla sua essenza illusionistica, permette una immedesimazione nella condizione della donna africana violata, dal momento che durante la proiezione, a un certo punto, prendono forma due gambe di colore in posizione rialzata per permettere la visita e una ginecologa bianca che parla a lei/all’utente e dice «mi dispiace annunciarle che il suo utero ha subito dei traumi considerevoli a seguito di una lunga e dolorosa storia di violenza istituzionale e legittimata» (Munder, 2019, p. 31).
Quest’opera ha una forza di coinvolgimento tale che il fruitore assume necessariamente la posizione vulnerabile, di abbandono e indifferenza della donna, sfruttata e moralmente violata nei secoli perché ritenuta oggetto di sperimentazione per gli sviluppi e le ricerche portante avanti da studiosi e medici occidentali. L’artista, pertanto, evidenzia il contributo che le donne, appartenenti al continente africano in questo contesto, hanno offerto al progresso scientifico e medico, qui in particolare ginecologico. Inoltre, vuole ricordare il dolore, lo sfruttamento e l’involontarietà da parte delle stesse di sottoporsi alle scelte ingiuste e immorali della matrice colonialista e occidentale, evidenziando la conseguente cancellazione della memoria del loro indispensabile ruolo nell’evoluzione scientifica e tecnologica. Se di primo acchito la sedia rosa può sembrare un attrezzo disimpegnato, stereotipato e iperbolico in stile pop, poco dopo inizia a veicolare, viceversa, tutta una serie di messaggi di abuso e sottomissione, in linea con i temi coloniali, postcoloniali e neocoloniali, l’ecologia, il femminismo e l’etica in generale. Come già anticipato, il video ricerca anche alcune possibili soluzioni ed eventuali antidoti a questa realtà oppressiva; questi sono incarnati nella figura della guaritrice Queen Afua che crede nel potere salvifico della spiritualità africana e di altre forme di riflessione e introspezione fisica e mentale, come lo yoga, la danza, la meditazione e la fusione con la natura (Munder, 2019), come recitano le parole pronunciate dalla stessa Tabita: «Feel the connection of love between the earth, your womb, and your heart. Allow the love to flow to you and through you. […] Now bring this energy into the world, the world needs you» (Rezaire, 2016).
L’estetica liquida che permane in tutto il filmato permette di immergersi in una realtà fluttuante, quasi contaminante, grazie alla quale è possibile finalmente sentire il proprio corpo, riconciliarsi con il proprio utero traumatizzato, visto invece come una sorgente di vita (Munder, 2019).
Infine, in seguito all’analisi formale e concettuale di Sugar Walls Teardom, è possibile ora rilevare quali siano i caratteri principali e gli elementi tipici in comune con l’estetica afrofutursita. L’afrofuturismo, da intendersi come un movimento trasversale, transculturale e poliedrico che si insinua tra i più diversi ambiti artistici e socioculturali, inizia a diffondersi negli Stati Uniti a partire dagli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso, sino a essere ufficialmente riconosciuto come tale nel 1994 da Marc Dery nel suo scritto Black to the Future. Si contraddistingue per un’estetica ibrida che mira alla trasposizione di un immaginario ancestrale africano, fatto di soggetti, oggetti, colori, suoni e danze, in quelle che sono le nuove forme espressive contemporanee, in primo luogo appropriandosi dell’universo delle nuove tecnologie. Attraverso queste ultime, infatti, gli esponenti dell’afrofuturismo si proiettano verso un futuro libero, andando alla ricerca della propria identità passata per, una volta avendone preso coscienza, decostruirla e in seguito riforgiarla. All’interno di questo processo d’indagine sulla soggettività e di riscrittura delle narrazioni storico-culturali e politiche del proprio paese d’origine, l’afrofuturismo coinciderebbe da un lato con la metabolizzazione della storia subita e dall’altro con una riconfigurazione dei paradigmi e dei poteri universali in un’ottica postcoloniale, privilegiando perciò una prospettiva multipla e aperta al futuro. Le nuove tecnologie, in un primo momento, rappresentano per gli individui africani, o di discendenza ‘afrodiasporica’, uno strumento fertile e non contaminato dalle strutture egemoniche occidentali, in grado di stimolare in loro sentimenti di denuncia e resistenza nei confronti delle discriminazioni e degli abusi ricevuti nel passato al fine di delineare, in modo libero e consapevole, la «rappresentazione culturale del proprio corpo» (Castiglioni, 2011, p. 18). È in questo frangente – e in specifico nell’atto di riplasmare il passato e il presente, proiettandoli in un immaginario africano esteso al futuro, un futuro utopico sganciato da strutture socioculturali e politiche imposte e preconfezionate, dove le tecnologie occupano una posizione centrale – che Tabita Rezaire espone indirettamente il suo avvicinamento alla vocazione afrofuturista.
Tuttavia, l’approccio dualista dell’artista nei confronti delle nuove tecnologie, deducibile dalla sua produzione, mette in luce un distacco dalle utopie afrofuturiste, nella misura in cui le forme di potere e controllo, gli squilibri e le disparità del passato si ripropongono, peraltro in termini amplificati, nell’universo digitale e virtuale. A tal proposito, Rezaire parla addirittura di un «colonialismo elettronico» (King, 2018, s. p.), evidenziando così da una parte la perdita di fiducia che si era riposta agli albori nella funzione di emancipazione delle tecnologie in chiave womanista, e dall’altra il loro riproporre le strutture egemoniche occidentali. Infine l’artista, attraverso il suo video Afro Cyber Resistance (Rezaire, 2014), lancia un appello alla necessità di de-colonizzare e guarire le tecnologie odierne, illusorie e malate, le quali fanno credere agli utenti di coincidere con uno strumento di liberazione; al contrario, li fanno ricadere in un nuovo tessuto coloniale. La necessaria guarigione di cui si fa portavoce Rezaire allude inoltre a quella dal sistema oppressivo di discendenza coloniale, dalla struttura patriarcale, e infine dalle forme di de-culturizzazione e de-soggettivazione della donna di colore.
Note
[1] La pratica Kundalini è una tipologia di yoga che concentra le attenzioni sulle pratiche mistiche al fine di evocare il Kundalini, ossia quella energia divina presente in ciascun individuo. L’obiettivo finale di questo esercizio evocativo è la liberazione totale del sé.
Riferimenti bibliografici e sitografici:
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Giulia Guaran, laureanda magistrale in Arti Visive presso Alma Mater Studiorum Università di Bologna, con una tesi in arte contemporanea. Ha maturato un’esperienza Erasmus in Spagna e due periodi di tirocinio presso Otto Gallery (Bologna) e Museo di arte moderna e contemporanea Casa Cavazzini (Udine). Laureata triennale in Conservazione dei beni culturali: studi italo-francesi, doppio titolo ottenuto presso Università degli studi di Udine e Université Blaise Pascal di Clermont-Ferrand. Due pubblicazioni per la rivista online di arte DArteMA.