Gennaio, la campagna è silenziosa, inzuppata da una pioggia sottile. Mi aggiro da ore sotto l’argine del torrente in cerca dell’orto alieno. La sua eco rimbomba tra i contrafforti del Montalbano già da qualche settimana e i discendenti degli antichi mezzadri fremono di curiosità per quello scandaloso prodigio: strane, enormi verdure, forse mutanti. I contadini sarebbero arrivati volando. Il cielo basso e lattiginoso nasconde le colline, sono disorientato in questo paesaggio amorfo di terre basse, tra case coloniche in rovina e vivai abbandonati ridiventati boscaglia. Improvvisamente il verde intenso di foglie mai viste perfora il grigiore di quel mondo informe, mi avvicino alle iridescenze, saltellando attraverso un pantano di neve semisciolta e fango.
Il contadino è intimidito dalla mia irruenza e non parla la nostra lingua, ma indico gli ortaggi e lui sorride: «jiecai» – un suono nuovo, germogliato da semi trasmigratori, e pochi giorni dopo il gusto delicato di quella e altre verdure, che assaporo da ospite alla tavola di chi ho imparato a chiamare Signor Y, contadino e piccolo imprenditore, che vive nella sua temporanea casa-laboratorio insieme agli operai (perlopiù sono suoi parenti) e che ogni giorno alle 15:00 cucina per loro.
Nell’orto di Y familiarizzo con quei vegetali alloctoni, mentre le brassiche invernali dalle innumerevoli nomenclature cedono il passo ai cannicci su cui si avviticchia un legume dal frutto sottile e lunghissimo e la primavera procede verso l’estate. A fine giugno, le stringhe rossastre del chandou asciugano con ordine sotto il sole e, ai margini dell’orto, una struttura di rami morti si riempie velocemente di teneri tralci rampicanti. Nel frinire estivo delle cicale, quei tenerumi sono trascinati verso il basso dal peso di grosse zucche di un verde acceso, a forma di pera: pugua, come vengono chiamate in lingua wēnzhōuhuà e nelle sue varianti dialettali. Quei semi provengono, infatti, dalle aree rurali e povere di Wencheng, sono arrivati qui nel bagaglio di un parente atterrato lo scorso inverno e sono germogliati a inizio maggio, quando la terra resta tiepida anche di notte. Due mesi dopo osservo Y saltare in una grossa padella la polpa bianca di questo frutto opulento, sfumandola con brodo di carne e un vino artigianale ottenuto da cereali fermentati – e quel sapore delicato risveglia in me il ricordo lontano della cucuzza cammaratisa, i cui semi mia nonna si fece spedire dal suo villaggio di origine, dove visse prima della trasmigrazione. E così per un’intera estate mangiammo la minestredda della sua infanzia durante i luminosi pranzi domenicali: ovunque, intorno a noi, era qui e ora ma giù nell’orto, invaso dai tenerumi, si era materializzato un frammento di altrove e quell’alterità si faceva cibo sulla nostra tavola, e allegria. Forse i semi di pugua sono in grado di innescare analoghe trasmutazioni nelle terre basse della piana, nel breve lasso di tempo necessario a germogli spaesati per svilupparsi in piante lussureggianti, tra il muro marcio di una colonica e un’antica botte di rovere, in lento compostaggio da decenni.
E mentre la crisi planetaria imperversa e il ritmo dei telai rallenta fino quasi a fermarsi, la famiglia Y rimodula la propria quotidianità sul ciclo delle stagioni, ascoltando quella bio-sfera straniera e decifrandone i segni. Ma al crocevia tra l’orto rigoglioso dei nuovi arrivati e la nostra piccola patria, che è in metamorfosi permanente ormai da un quarto di secolo, siamo tutti esiliati. Nuovi e vecchi alieni, navighiamo a vista su questo oceano di terra fertile come su una tabula rasa, insieme ai discendenti degli antichi mezzadri, scrutando con timore le mutazioni del tempo, stagione dopo stagione, spiando gli orti degli altri, avidi di saperi.
Poco lontano i cipressi orlano i tornanti che si inerpicano su colline decorate di uliveti e filari di vigne, lassù dove la Toscana è ancora ignara e priva di dubbi. Ma è qui nella piana, sotto l’argine erboso del torrente, che si ri-combinano antichi e nuovi saperi e si ipotizzano futuri possibili.
Epifanie nella piana
Seano, 2009, tra il distretto industriale e la campagna inurbata sono spuntati piccoli orti di verdure mai viste. I semi sono arrivati nelle valige dei migranti dal Zhejiang e ora germogliano negli spazi interstiziali tra i capannoni industriali o sotto gli argini del torrente, nei pressi delle antiche case-fattoria, da cui gli ex mezzadri fuggirono nelle villette mono-familiari in cemento, poco distanti. Ovunque la terra sia fertile vengono estirpate le erbacce e i canneti, e si mettono a dimora i germogli: dal pergolato amatoriale di zucche spinose nel retro del capannone di Tony si passa rapidamente ai primi orti familiari, che spesso evolvono in “orti aziendali” (dove il confine tra famiglia e piccola azienda è però labile). Ma in meno di tre anni alcuni di questi fragili esperimenti di acclimatazione si sviluppano in vere e proprie imprese agricole a conduzione familiare.
Nel tempo in cui metto a fuoco la portata di questo fenomeno un circuito di produzione e distribuzione di cibo su scala locale è già pienamente funzionante: un’intera comunità si nutre di verdure di stagione a km0. Il passaggio dal produttore al consumatore è spesso diretto, per mezzo di vendite ambulanti, o mediato dai proprietari di mini market, che però sono in rapporto personale con l’agricoltore. Il ciclo è continuo e le verdure vengono raccolte, vendute e consumate in giornata. Una cassetta di brassiche (bokchoy in cantonese, xiangucai in wenzhouà) costa 3 euro.
Questa effervescenza agricola è intensificata dal rallentamento che la crisi economica impone al pronto moda cinese, dove l’improvvisa disponibilità di tempo libero ed energie è spesso concomitante con acuiti problemi di economia domestica. L’esistenza di un distretto tessile dominato dall’imprenditoria cinese è tuttavia la ragione ultima dell’esistenza di un’orticoltura alloctona: la portata del fenomeno va dunque ben oltre la campagna inurbata ai pieni del Montalbano: gli orti cinesi “inseguono” i capannoni ramificandosi attraverso tutta la piana, incuneandosi tra i distretti industriali di Tavola e Prato, bordando l’autostrada A11 tra Sesto, Fiorentino e Osmannoro, fino alla periferia ovest di Firenze.
Guo Qin ti voglio bene
Nel film “Berlinguer ti voglio bene” un’umanità smarrita si dibatte nella piana Pratese ai margini della modernità, stretta tra residui disfunzionali di ruralità (da cui proviene) e autostrade che la bypassano (l’A11), ed è ossessionata dalla propria incapacità di “riprodursi” nei termini definiti dal materialismo storico, ma che nel film assume la forma letterale della frustrazione sessuale (dovuta a un non accesso alla sessualità). La promessa emancipatoria dell’utopia socialista è l’unico barlume di speranza nella vita dei protagonisti e l’immagine di Berlinguer è venerata come un’icona-spaventapasseri, in un campo abbandonato. Ma quell’aspettativa di redenzione si infrange in una grottesca rivincita del tradizionalismo patriarcale, quando uno dei compagni di disavventure di Mario (il protagonista, interpretato da Benigni) inizia una relazione con la sua anziana madre vedova, riscoprendo improvvisamente un decoro clericale e campestre, in una sterile parodia del mondo che fu. È in questa terra di nessuno, ferita dalla modernità (dal non pieno accesso alla modernità), che germoglieranno e si radicheranno, appena 25 anni dopo, i prolifici semi del Zhejiang: l’ultimo atto di un processo che, cominciato negli anni ‘90 con i primi massicci arrivi di migranti cinesi, consacra l’alterità come presenza stabilmente dinamica nel dolente paesaggio della piana.
In questa landa traumatizzata, inquinata, orfana di mondi estinti, e ultimamente anche impoverita dalla crisi del tessile, la nuova agricoltura rappresenta potenzialmente un elemento trasformativo di portata epocale. Un orto cinese è, infatti, capace di trascendere un intero distretto industriale, per la sua potenza iconografica e per le sue implicazioni simboliche, ma non solo: un contadino pianta un seme straniero in una terra negletta, e cura quel germoglio fino a trasformarlo in pianta, quindi in cibo che nutre la comunità. In questa sequenza narrativa, un agricoltore spaesato viene, forse suo malgrado, investito del potere di rimodellare il paesaggio della piana, inceppando le strutture ideologiche che legano la terra alla conservazione di forme sociali tradizionali e quindi di un Sé pre-definito: il cibo che lui produce, intrinsecamente ToscoZhejiangese, ridefinisce la sostanza fisica e morale della collettività che se ne nutre (o che potrebbe nutrirsene). Inoltre le sue pratiche ri-definiscono gli assiomi economici della produzione-distribuzione di cibo in termini inediti: è un dato di fatto che in pochi anni un’intera comunità abbia saputo raggiungere la piena auto-sufficienza alimentare, a partire da risorse locali e nonostante, come vedremo, innumerevoli campagne di “contenimento” da parte degli organi di controllo dello Stato, con il supporto incondizionato dei media locali. Forse il nuovo Berlinguer della piana è Guo Qin, il contadino-imprenditore che nella campagna pratese ebbe per primo l’idea di piantare i semi provenienti dal suo villaggio in Cina, trasformando una sterpaglia in un giardino curato. E quel primo seme, probabilmente germogliato intorno al 2005, è il possibile punto zero di un nuovo racconto, poiché incorpora la condizione di estraniamento strutturale del nostro tempo di mutazioni antropologiche, politiche, climatiche, etc… che accomuna migranti e stanziali. In quel germoglio, il qui e l’altrove si fondono per generare una collettività futura, il cui statuto identitario sia aperto, ibrido, negoziabile. Forse.
Horti Cinesi & Terre Pericolose (2009-2019)
Horti Cinesi è il nome della prima di una lunga serie di operazioni di ispezione di aziende agricole cinesi tra Prato e Firenze. Avviene nel luglio del 2009 sotto il Ministero di Luca Zaia, appassionato implementatore dell’identità veneta e ministro delle politiche agricole alimentari e forestali nel IV governo Berlusconi. L’articolo con cui la stampa riporta quell’operazione, definisce un archetipo che dominerà per tutto il decennio successivo questo tipo di campagne mediatiche, servizi giornalistici acritici e tendenzialmente propedeutici all’azione di controllo e repressione delle attività degli agricoltori cinesi tra Prato e Firenze. Un virulento ciclo di attacchi mediatici comincia a fine marzo 2015 nel pieno della campagna elettorale per le regionali del 31 maggio. Da questo momento e fino a ridosso delle elezioni, ispezioni e servizi giornalistici si “rimpallano” tra Campi Bisenzio, alla periferia nord-ovest di Firenze, e Prato. Ad aprire i giochi è la video inchiesta del Corriere Fiorentino TV del giornalista J. Storni: il video comincia con interviste a residenti italiani che lamentano la presenza degli agricoltori cinesi e di loro presunti comportamenti scorretti. Il giornalista si introduce quindi nei campi, filmando all’interno di proprietà private regolarmente affittate, presumibilmente senza autorizzazione. Alcuni cinesi vengono invece filmati di nascosto. Il video-racconto è accompagnato da un suono basso e ritmato che assomiglia a un battito cardiaco: questa colonna sonora induce ansia e drammatizza filmati di per sé privi di contenuti allarmanti.
Altrettanto emblematico il servizio di Tommaso Tafi postato su YouTube il 30 marzo, che “rilancia” mediaticamente l’irruzione in un campo gestito da cinesi da parte di Donzelli, un candidato di Fratelli d’Italia, avvenuto il 23 marzo. Ecco alcuni estratti: «i lavoratori sono fuggiti (da terreni che affittano regolarmente n.d.r.) quando si è presentato il candidato governatore di Fratelli d’Italia Giovanni Donzelli (quando, in violazione della proprietà privata e filmando senza autorizzazione, Donzelli ha fatto irruzione nei loro terreni, accompagnato da una numerosa troupe giornalistica n.d.r.) […] indumenti appesi ad asciugare sotto le piantine di insalata (non sono insalate ma cavoli n.d.r.) […] topi morti lasciati a essiccare in bella vista (ma nel video si vede un grumo indistinto di probabile origine vegetale, essendo in esso distinguibili piccioli e strutture simili a foglie n.d.r.)». È dello stesso giorno l’accorato appello de La Nazione: «non cedete le terre», per bocca di Patrizia Ovattoni, commissario della Lega Nord che auspica di «interrompere sul nascere questa nuova forma di imprenditorialità orientale», aggiungendo, riferendosi ai concittadini italiani: «resistete alla tentazione di venderli (i campi n.d.r.)».
Sequestri e articoli allarmistici procedono quindi per tutto aprile e maggio, fino a cessare improvvisamente con le elezioni del 31. La sinergia tra controlli e linciaggio mediatico si riattiva improvvisamente nel gennaio del 2018 in un tandem che prosegue ininterrotto fino alle elezioni politiche del 4 marzo. Poi si entra in una nuova fase di latenza fino al 25 novembre del 2018, quando la Nazione di Prato (edizione cartacea) lancia la prima tappa di un’inchiesta a puntate, seguita a tamburo battente (30 novembre) da nuove ispezioni con sequestro preventivo di alcuni ettari di terreno agricolo e grosse multe (le elezioni del maggio 2019 sono alle porte). Il variegato spettro di espedienti narrativi messi in gioco a partire dal 2009, viene ciclicamente riproposto in diverse combinazioni per tutto il decennio successivo, nonostante molte delle singole argomentazioni non siano confermate da dati oggettivi e verificabili, come nel caso della presunta presenza di ogm, mai dimostrata scientificamente. Sembra che il discorso mediatico si nutra di sé stesso come in un gorgo auto-referenziale, dove la realtà non sia altro che mero espediente per rimettere in scena l’eterno dramma del migrante nocivo. Quello che realmente stupisce è, infatti, come in dieci anni non si sia manifestato alcun interesse costruttivo o genuina curiosità nei confronti di questo fenomeno, come non si sia sedimentata alcuna conoscenza relativamente alla materia in questione, potenzialmente ricchissima in termini antropologici, botanico-agricoli, culinari, alimentari, paesaggistici, etc. Questo potenziale narrativo non è stato raccolto, poiché non è stato visto. Nel racconto giornalistico domina, infatti, la paura violenta e puerile verso l’ignoto, mista a uno sconcerto provinciale nei confronti di una bio-diversità sconosciuta e di un patrimonio agro-culinario millenario, quello cinese, di cui non si percepisce altro che la minaccia – nonostante la piana sia un territorio di fatto post-rurale, depauperato, abbandonato o meramente sfruttato a monocoltura. Ed ecco che le “maxiverdure” del luglio 2009 riecheggiano nei “broccoli giganti” e nelle “verdure anomale” del novembre 2018, senza che mai, in nessun articolo, servizio, inchiesta, reportage o bollettino, giornalisti o altri presunti “esperti” siano stati capaci di nominare uno solo di questi ortaggi, non già in wenzhounese o in cinese, ma neppure secondo il sistema di nomenclatura binominale risalente a Linneo. Dunque, non solo nessuno di questi attori sociali, a cui è affidata la circolazione di informazioni e la formazione di una coscienza pubblica, ha mai sentito l’impulso di chiedere al proprio interlocutore “come chiami questa verdura, che stai coltivando, nella tua lingua?”, ma neppure hanno provato a digitare “cavolo cinese” su internet. Ma non è la superficialità il vero male di cui soffre il racconto pubblico di questo fenomeno.
Terre Pericolose è il titolo scelto da La Nazione per inaugurare la sua inchiesta a puntate sugli orti cinesi nel novembre del 2018. Come il lapsus rivelatore di un complesso persecutorio, questa espressione permette di accedere all’immaginario che sottende l’apparente pigrizia del racconto mediatico, alla ricerca del grumo ideologico che invece informa attivamente una strategia narrativa. Nelle ideologie conservatrici o reazionarie (ma non solo) il contadino è del resto il guardiano “naturale” dell’identità del popolo, ed è infatti nel folklore rurale che si è attinto a piene mani per immaginare ed edificare le nascenti comunità nazionali, a cavallo tra diciannovesimo e ventesimo secolo. In questo processo di trasformazione quasi-alchemica della terra in sostanza identitaria collettiva e pilastro della vita sociale, sta la promessa che dal Romanticismo in poi lega tautologicamente popoli e geografie, anche in termini sub-nazionali, come nel caso delle identità regionali italiane (che del resto sono spesso percepite come potenziali identità nazionali). Ma tra gli anni ‘50 e ‘70 si consuma la disintegrazione delle strutture sociali ed economiche che da secoli inchiodano il “popolo” alla terra: il paesaggio ibrido della piana tra Prato e Firenze racconta del resto in modo efficace e spesso brutale la fine della ruralità e l’espansione caotica del distretto industriale. Quando, agli inizi degli anni 2000, i primi semi cinesi germogliano in terra Toscana, quell’universo sociale che trovava nel lavoro dei campi il proprio fondamento materiale e simbolico ha cessato di riprodursi già da molto tempo. Il mito della terra, sebbene ormai privo di un referente sociale-demografico o di un sostrato economico reale, ha però mantenuto intatto il suo potenziale evocativo ed è ancora oggi capace di forgiare ruralità-simulacro e paesaggi ossessivi, rispetto ai quali un orto cinese in Toscana è altamente perturbante. Ed ecco che le terre in mano all’agricoltore straniero sono sempre percepite e raccontate come perdute, trasmutate da semi alieni, non più in grado di sostenere il peso dell’identità collettiva, e fuor di metafore non più idonee a nutrirne il corpo. Da queste terre “contaminate”, spuntano dunque germogli “avvelenati” come promesse di future distruzioni: i loro frutti – e questo viene continuamente ribadito – potrebbero infatti fuoriuscire dal circuito alimentare della comunità migrante (rispetto alla cui salute nessuno esprime ovviamente preoccupazione) per finire sulle bancarelle dei mercati e sulle “nostre” tavole. In questo scenario persecutorio, rapaci forze straniere appaiono attivamente al lavoro per estirpare le nostre radici dalle campagne – come se non le avessimo già abbandonate e inquinate da almeno mezzo secolo – e più letteralmente per intossicare i nostri corpi, (i corpi degli italiani).
Di seguito, una “nuvola di parole” realizzata copia-incollando termini e frasi utilizzate dai media, tra il 2009 e il 2019, per delegittimare le pratiche agricole dei cinesi di Toscana. Lo scopo è rivelare l’infra-testo intrinsecamente discriminatorio, incompetente, violento e spesso razzista, che si cela sotto la superficie delle più varie argomentazioni. Questi lapsus del linguaggio rivelano il caos e la tossicità che sottende un racconto apparentemente coerente.
Proposta per un idillio ToscoCinese
A inizio primavera i semi germogliano nel caldo umido di incubatrici artigianali imperlate di acqua e, a mano a mano che le notti diventano tiepide, le piantine vengono messe a dimora nella terra lavorata finemente con la zappa e mischiata a sterco ovino. I pergolati sono stati appena issati e sono ancora spogli: gli ampi archi del tunnel sono costituiti da fasci di canne lacustri legate insieme con stracci policromi. La struttura è elastica, leggera e resistente, dovrà sopportare il peso di centinaia di zucche. Per tutto maggio e giugno le belle strutture ricurve sono prese d’assalto dai viticci rampicanti di 苦瓜 kǔguā, 丝瓜 sīguā,佛手瓜 fóshǒuguā e 蒲瓜 púguā, mentre 南瓜 nánguā, 西 瓜 xīguā, 黄瓜 huángguā e 东瓜 dōngguā strisciano a terra poco lontano. Le denominazioni sono spesso dialettali, ma la componente “gua”, il cui ideogramma 瓜 assomiglia a una zucca pendente, assolve con rigore alle funzioni di un sistema di nomenclatura scientifico: equivale a cucurbitacea. A inizio estate i pergolati sono già interamente coperti di tenerumi frondosi e al loro interno pendono piccole zucche a forma di pera o clava, sono di un verde vivido, la pelle è lucida e coperta di una peluria sottile. Nelle ore più calde i contadini riposano all’ombra di uno dei tunnel, dove hanno costruito una piccola panca. Si lavora a mano, lentamente, dalla mattina fino a sera. Quando il sole sta per tramontare sbocciano i fiori bianchi del 蒲瓜 púguā e restano aperti tutta la notte, se la giornata è stata molto calda le foglie rilasciano un sottile profumo di carne. I petali sono così fragili che si accartocciano sotto la prima vampa del mattino. I fiori giallo ocra del 丝瓜 sīguā sono invece piccoli e resistenti, come le sue foglie coriacee, quelli dell’amaro 苦瓜 kǔguā sono giallo limone. Nel procedere dell’estate le zucche sono diventate grosse e succose. È il momento della raccolta e delle zuppe di terrosa 东瓜 dōngguā: si suda ma subito dopo un brivido rinfrescante pervade il corpo. Da luglio a settembre le piante producono montagne di zucche amare, purificanti, spinose, drenanti, dolci, dissetanti, delicate o carnose… il camioncino deve fare due viaggi ogni giorno.
Ai primi di ottobre le piante sono esauste e le foglie cominciano a ingiallire, un mese dopo i pergolati sembrano grosse carcasse marcescenti, in parte collassati sotto il peso di zucche troppo cresciute. Le tenere, verdissime zucchette di luglio-agosto sono adesso delle sacche informi e dure, biancastre e coperte di muffa. E tuttavia, questo è il culmine del loro ciclo riproduttivo: la buccia in fase di legnificazione le ha trasformate in resistenti involucri protettivi: al loro interno centinaia di semi dormono affondati in un’imbottitura spugnosa, soffice e asciutta, mentre tutt’intorno l’autunno piovoso diventa inverno. A febbraio sono ormai completamente legnificate: il rumore secco e sonoro del guscio spaccato rimbomba oltre l’argine erboso fino alle prime colline, è il buon presagio di un felice anno nuovo. I nuovi semi sono già pronti per germinare. Si brinda con vino rosso di Carmignano.
Cucuzza delle diaspore
Mia nonna, originaria dell’agrigentino ma residente a Firenze, cucinava la cucuzza a ministredda, un minestrone acquoso e insipido. Per i profani. Ma per noi, figli e nipoti, la Lagenaria Longissima è una verdura “aurata”, e le regole per cucinarla – recentemente ricostruite grazie alle competenze gastronomiche di una zia siciliana – assomigliano più a una procedura liturgica che a una ricetta. Fino ai primi anni ‘90 la cucuzza compariva raramente ma con regolarità sul banco degli ortolani siciliani del mercato del Galluzzo, poi sparì improvvisamente. Da questo momento, la Lagenaria si eclissò per alcuni anni. Fu solo nel 2005, in seguito all’intensificarsi della mia frequentazione della chinatown pratese (inizialmente da studente di antropologia, per un esame di etnologia), che ritrovai la cucuzza, ma con il nome di pugua: nella stagione calda era onnipresente sulle bancarelle dei mini-market cinesi.
Grazie agli agricoltori wenzhounesi in Toscana, la ministredda di cucuzza-pugua è ricomparsa nei pasti familiari. Gradualmente ho costruito sulla cucuzza-pugua un racconto performativo sottilmente ironico, perlopiù sviluppandolo nel contesto di istituzioni legate all’arte contemporanea[1]. La lecture-performance ruota attorno all’azione di cucinare una ministredda di lagenaria e racconta la convergenza in uno stesso ortaggio di due vicende identitarie, rispettivamente agrigentina e wenzhounese. La tensione dialettica tra sradicamento e riconnessione, su cui si articola l’azione discorsiva, si conclude con la paradossale riattivazione di un rito familiare dormiente a partire dall’interazione con una comunità migrante generalmente percepita come irriducibilmente altra.
Km0, Prato 2012
Nella primavera del 2012 sono invitato a partecipare alla mostra L’anno del Drago presso il Museo Pecci di Prato. La collettiva è curata dall’associazione Dryphoto ma finanziata dall’Associazione Buddista della Comunità Cinese in Italia, con sede a Prato[2]. A noi artisti è richiesto di lavorare sull’evento del capodanno cinese, avvenuto a febbraio e di cui siamo stati testimoni.
La mia proposta consiste in una video-installazione destinata a diventare, durante l’opening, occasione per un evento relazionale-performativo: una composizione di verdure cinesi è allestita su un tavolo coperto di tessuto rosso, assomiglia a un natura morta del barocco europeo, ma è pervasa di alterità; nello stesso ambiente un video su monitor documenta le mie visite, in stagioni diverse, a un orto cinese a Carmignano, dove quegli stessi ortaggi sono oggetto di ripetuti tentativi di traduzione reciproca e nominazione.
Il titolo dell’opera è Km0 e allude al fatto che le verdure esposte, seppur sconosciute ai pratesi, provengono dagli orti creati dai migranti nelle aree coltivabili del distretto, poco lontano. Il tessuto rosso è lo stesso che viene utilizzato per propiziare la fortuna durante le celebrazioni del capodanno, che raggiungono il proprio culmine proprio in quelle periferie industriali dove prolifera la biodiversità degli ortaggi wenzhounesi.
Da febbraio in poi ho visitato spesso il Centro buddista: adiacenti agli uffici amministrativi si sviluppano tre ambienti di preghiera decorati con opulenza, in uno stile molto lontano dall’estetica minimalista del buddismo giapponese a cui siamo abituati in Occidente. Poi c’è una zona “profana” dedicata alla socializzazione. Si tratta di una grande stanza che durante i festeggiamenti del capodanno o altre festività ospita centinaia di persone ma che nei giorni ordinari è soprattutto frequentata dagli anziani della comunità. Ogni giorno verso le undici di mattina viene servito un abbondante pasto gratuito, rigorosamente vegetariano. Il cuoco è gentile e si lascia osservare mentre salta tofu e verdure. Io vengo sempre invitato a sedermi e a mangiare in compagnia.
Il giorno della mostra i miei nuovi conoscenti sono tutti al Pecci, sembrano persi negli ambienti sterili e rimbombanti del museo, confusi nell’effervescenza del pubblico dell’arte e leggermente disorientati – ma non arroganti e anzi sempre curiosi – di fronte alle ardite soluzioni estetiche elaborate degli artisti per raccontare la loro festa. Nel caos dell’inaugurazione la mia installazione diventa gradualmente un punto di riferimento per gli anziani della comunità, forse per via dell’aspetto familiare del tavolo con le verdure di stagione e il tessuto rosso, o perché già ci conosciamo. Inoltre sono ben consapevoli che la loro associazione ha finanziato il progetto e questo li autorizza ad impadronirsi del mio “dispositivo”, rendendo la mia presenza finalmente superflua. Usando parole e gesti, spiegano al pubblico italiano come pulire e tagliare la verdura, o come cucinarla. Inoltre accolgono la mia proposta di regalare gli ortaggi ai visitatori del museo, ma lo fanno attivamente, seguendo le proprie intuizioni, ad esempio offrendo verdure differenti a uomini e donne, giovani e anziani, o suggerendo un certo ortaggio benefico avendo constatato tra il pubblico il pallore di un volto o altre spie di malessere. Un uomo che parla bene italiano si cimenta in una lezione estemporanea di medicina cinese spiegando l’importanza dell’alimentazione nella prevenzione della malattia e raccontando aneddoti legati ad alcune delle verdure esposte. Il pubblico pensa che sia stato io a invitarlo, ma si tratta di un evento inatteso anche per me.
L’espositore rosso dimostra di essere un efficace dispositivo relazionale che neutralizza felicemente tanto l’atteggiamento contemplativo del pubblico dell’arte quanto quello passivo di chi viene rappresentato. Ma per me il tavolo è anche e soprattutto il luogo di un possibile slittamento di significati. Il tavolo “vero”, quello dei festeggiamenti, mette del resto già in scena un passaggio di stato e un attraversamento: al pasto magico del Drago segue un momento di convivialità profana, dove i partecipanti alla festa, cinesi e italiani, sono invitati a mangiare quello stesso cibo che fino a poco prima era intoccabile. Uno spazio precluso diventa accessibile, per tutti.
Anche la ri-contestualizzazione dell’oggetto etnografico all’interno del museo è strumentale all’apertura di possibili percorsi: della comunità cinese (mia committente) verso la propria rappresentazione istituzionale in quanto parte integrante della collettività, della comunità italiana verso il riconoscimento di un potenziale patrimonio comune, in questo caso agro-alimentare.
Raccontando un’abbondanza rurale nativa e straniera Km0 asserisce, poieticamente e in contrasto con le rappresentazioni identitarie dominanti, l’esistenza della ToscoCina[3] nei termini di una realtà sociale compiuta, in grado di sostentarsi e riprodursi localmente, ma che ancora esita a immaginarsi come comunità.
Foreign Farmers, Palermo 2018
Foreign Farmers, ruota attorno a un orto-pergolato da me costruito e coltivato durante molti mesi all’interno dell’Orto Botanico di Palermo, in quello che fu il “giardino coloniale di acclimatazione”. La scelta di trasformarmi in agricoltore è determinata dalla necessita di rappresentare con un medium non “falsificabile” la lunga ricerca cominciata nel 2009 tra i germogli cinesi di Toscana e proseguita fino alle piccole aziende agricole bengalesi nei dintorni di Palermo, passando per un orto senegalese sul Piave e i fragili esperimenti orticoli dei richiedenti asilo nel Biellese. A Palermo, questa decennale collezione di semi, storie e conoscenze botanico-agricole da frutto simultaneamente in un giardino sperimentale di coabitazione, dove la cucuzza siciliana si avviticchia alle sue omologhe coltivate da agricoltori migranti nel palermitano, in Toscana o nella pianura padana: লাউ [lau], upo, کدو [kaddu], لوکی [lauki], 蒲瓜 [púguā]… Il pergolato ibrido ribalta il significato storico di questo spazio “intossicato” dalla violenza della storia recente: l’acclimatazione non è più un fatto imposto all’interno del rapporto di potere coloniale (per mettere a frutto l’Altro assoggettato), ma un processo che si genera “naturalmente” nel rivolgimento demografico delle migrazioni contemporanee. Del resto, i semi sono per definizione “migranti”, essendo capsule per il trasporto d’informazioni genetiche attraverso geografie e, fin dagli albori dell’agricoltura, attraverso comunità umane. A novembre i semi generati al termine del ciclo riproduttivo del pergolato vengono affidati al mare, sigillati all’interno di zucche vuote. Soffia un tiepido vento di terra e in pochi minuti i vascelli-cucuzza con il loro prezioso carico spariscono all’orizzonte, sotto un arcobaleno globulare.
NOTE
[1] Museo Pecci, Prato, 2012; Fondazione Pistoletto, Biella 2013 e 2016; 2014; Khoj, New Delhi, 2014, Manifesta 12, Palermo 2018.
[2] l’Altro culturale non è oggetto passivo di rappresentazione (sia dell’artista che dell’istituzione che invita l’artista, finanzia il progetto etc.), diventa al contrario soggetto attivo e addirittura committente, quindi mecenate – e in questo senso forse anche “giudice” del prodotto artistico finale. L’emersione di una agency “altra” e un concreto ribaltamento dei ruoli di potere – a partire dagli stessi presupposti economico-progettuali della mostra fino al ruolo attivo della comunità migrante nel corso dell’inaugurazione – potrebbero contribuire a riaprire il discorso sull’impasse, condensata da Hal Foster nell’espressione “ideol
[3] Un omaggio alla trattoria Toscocina, attiva a Firenze negli anni 90 (l’ibridazione culinaria era forse un concetto troppo avanzato per quegli anni e il ristorante fu chiuso).