La morte, la vulnerabilità, l’assenza di diritto, la sovranità e l’invisibilizzazione dei corpi sono questioni oggi fortemente presenti nell’area di intervento del progetto Le Alleanze dei Corpi e in particolare del lavoro di Francesca Marconi Internazionale Corazon / Todes, situati sull’asse di via Padova, un tratto di Milano che si estende da Piazzale Loreto solcando la linea Est del capoluogo lombardo. Un contesto dove l’artista da anni concentra la sua pratica secondo un percorso di riflessione e approfondimento che immerge le sue radici nella ricerca e nella costruzione di una mappatura di natura coreografica, relazionale, drammaturgica, individuando nei corpi e nella loro relazione con il paesaggio urbano un sistema di segni, scritture, narrazioni.
Via Padova è il simbolo di un’area più vasta, incisa dai movimenti migratori sin dall’Ottocento, prima interni, con fenomeni legati al pendolarismo, all’asse Milano – Brianza, segnata dalle rotte del lavoro provenienti dal Meridione e oggi attraversata dai recenti flussi diasporici internazionali. Un territorio che si è contraddistinto negli anni come un’area di confine, una frontiera, uno spazio interstiziale tra i margini di una città che violentemente solca con la linea della sua circonvallazione il dentro e il fuori, il concluso e l’aperto, il diritto e l’esclusione. Un quartiere che assume il carattere della postcolonia: in una complessa ecologia urbana, come in un giardino incolto, qui si sedimentano le biopolitiche dell’accoglienza e quelle del rifiuto, dell’emersione e dell’invisibilità, secondo forme di coesistenza solidali e insieme violente. Un luogo che oggi assume l’aspetto di uno scenario mitico perché ha tracciato e continua a tracciare una zona franca nella città e si distingue, nonostante l’avanzamento della gentrificazione, per essere un laboratorio di forme innovative di cittadinanza. Rappresenta un’area liberata che tuttavia non nasconde le ombre del nostro tempo e racchiude in sé la radicalizzazione delle disuguaglianze, in termini economici, sociali e di diritto.
La scelta di Francesca Marconi «nel progetto Internazionale Corazon e in Todes» di situarsi con il proprio corpo in tale contesto e di fare di questo il “campo” del proprio operare racchiude in sé alcuni aspetti di interesse in termini metodologici. L’artista assume infatti un punto di osservazione privilegiato dettato dal suo stesso abitare nel perimetro urbano oggetto della ricerca, che nell’estrema riduzione della distanza dello sguardo etnografico e artistico, attraverso un’immersione radicale nel paesaggio, problematizza la costruzione culturale, sociale, politica ed epistemica dell’Altro [1], discutendola e negoziandola in un continuo confronto processuale tra i corpi. Interroga così “la nozione assoluta dell’alterità” di cui le comunità straniere e diasporiche hanno rappresentato l’elemento simbolico più elevato: una metafora «attraverso cui l’Occidente mette in scena le sue stesse norme», costruendo una fenditura tra ciò che è Occidente ciò che non lo è (Mbembe, 2005).
“Internazionale corazon”, Francesca Marconi, 2019/2020, Milano, courtesy of the artist
Forse in virtù di una formazione coreografica, Marconi coglie di questa dialettica il movimento, la continua trasformazione e transitorietà del confine, delle identità e delle soggettività, come atto di negoziazione tra presente e futuro, tra origine e nuovo contesto. Risponde all’estemporaneità e all’approccio spesso coloniale che l’intervento artistico nello spazio pubblico inconsapevolmente attiva quando è caratterizzato da una conoscenza del campo fortemente mediata e da una frequentazione fugace, estendendo la sua prassi in percorsi di medio e lungo periodo, distanziandosi dalla facilità di un’appropriazione dei segni culturali superficiale.
Pratica piuttosto il punto di vista della persistenza, dell’emersione, attraverso un lavoro preliminare sussurrato, fatto di condivisione di tempo, di ascolto, di frequentazione, di attraversamento graduale e processuale della barriera tra pubblico e privato, di penetrazione nelle case, nei contesti più ermetici, nei segreti di una maglia relazionale ampia, costruita in forme cesellate e meticolose. «Nella mia pratica», scrive Marconi «cerco di costruire processi e dispositivi che mi permettano di sperimentare nuove possibili relazioni con il paesaggio cui apparteniamo, costruire visioni condivise in cui le persone possano esercitare propri desideri e istanze; una socialità orientata al futuro, in cui mettere in scena, seppur temporaneamente forme di cittadinanza dove i corpi diventano spazi di azione che producono realtà e immaginazione. Decolonizzare per me dunque vuol dire stare in questo processo, in ciò che è già dato: la città, i suoi cittadini, le possibili connessioni». In questo senso si contraddistingue per prossemica e dilatazione, per un elogio alla lentezza come presa di posizione politica, orizzontale e profondamente antimonumentale.
“Internazionale Corazon” via Padova State of Mind, Francesca Marconi, 2019, Milano, foto di Alessia Bernardini
Tale approccio è coerente e visibile anche nella restituzione finale del processo in termini estetici e compositivi. L’atto conclusivo in Internazionale Corazon e in Todes infatti si deterritorializza, assume forme nomadiche, transitorie, effimere. Non erige statue e segni permanenti ma preferisce a questo una temporanea risignificazione degli spazi residuali: tetti, negozi, aree abbandonate attraverso cui disseminare narrazioni raccolte, danze, tracce, che vengono attraversate da “micropolitiche dell’ascolto”, sottraendosi all’imperativo del segno e della sua permanenza. L’antimonumentalità assunta dall’artista non nega qui la funzione del monumento «come strumento di costruzione degli immaginari», (Parola, 2021) atto di sedimentazione ed erezione della memoria storica, di scrittura e drammaturgia urbana capace di un coinvolgimento emotivo collettivo e riconosciuto.
Piuttosto con Internazionale Corazon – Todes ne mette in moto, simbolicamente e concretamente, attraverso la danza, il video e il suono, la memoria e gli immaginari, secondo una scelta che fa dell’effimerità e della performatività il simbolo di una continua mutazione, del tentacolare atto del farsi e disfarsi delle forme e dei corpi, del risignificarsi delle identità e del contesto su cui si situano. A configurarsi è una danza della postcolonia dove «il corpo, in particolare il corpo inquinato, disonorato, il corpo subalterno, violentato e distrutto è rianimato e restituito al principio del movimento» (Mbembe, 2016). Francesca Marconi così prepara e invita il corpo, fisico, umano, e per estensione anche sociale e urbano, ad aprirsi a un territorio immenso, a una grande festa dell’immaginario, dove trasfigurarsi, trovare parole a nuove preghiere, praticare politicamente la gioia in un nuovo ordine sinfonico, e cercare insieme, in pratiche situate, i segni di un’ecologia planetaria.
Note
[1] Il riferimento è al Dis-Othering come metodo nella riflessione di Bonaventure Soh Bejeng Ndikung.
Bibliografia
AAVV, Beyond Afropolitan & Other Labels. On the Complexities of Dis-Othering as a Process, Bozar, Bruxelles, 2019
Mbembe A., Postcolonialismo, Meltemi, Roma, 2005
Parola L., Le voci del monumento, in «roots§routes» Politics and poetics of displaying anno 2, n.8 ottobre – dicembre 2012.
Fanon F., Pelle nera, maschere bianche, ETS edizioni, Pisa, 2015
Moussaoui R., Mbembe A., Un désir fondamental d’insurrection s’exprime sous des formes nouvelles, in «L’Humanité», venerdì 20 maggio 2016. Traduzione a cura di Lorenzo Alunni e Nicola Perugini
Maria Paola Zedda curatrice, esperta di danza, performance e della loro interazione con le arti visive. Come performer ottiene importanti riconoscimenti (Menzione Speciale Premio Equilibrio 2009). Come dramaturg collabora con il coreografo Enzo Cosimi. Cura manifestazioni legate ai linguaggi del contemporaneo, tra cui Cagliari Capitale Italiana della Cultura di cui è codirettrice artistica e Le Alleanze dei corpi. È autrice del libro Enzo Cosimi. Una conversazione quasi angelica. Scrive per Antinomie e Artribune.